Anp, se perdere Gaza si rivela la mossa vincente
di Alessandro Marrone
[26 giu 07]


Nelle scorse settimane la comunità internazionale ha assistito immobile alla presa di potere di Hamas a Gaza. Eseguendo alla perfezione il piano di ogni partito rivoluzionario totalitario, da quello comunista a quello nazista, Hamas prima ha utilizzato i meccanismi (pseudo)democratici conquistando i voti dei diseredati palestinesi e investendo in scuole, ospedali e propaganda. Poi ha partecipato al governo di unità nazionale con i rivali di Fatah indebolendoli con omicidi mirati e accumulando armi e risorse. Infine al momento opportuno ha attaccato sistematicamente i comandi militari di Fatah a Gaza uccidendo e mettendo in fuga i rivali. Ora l’Anp di Abu Mazen non conta più nulla nella striscia di terra tra Egitto, Israele e Mediterraneo abitata da 1 milione e mezzo di palestinesi, ed i leader di Hamas cantano vittoria.

Se la strategia di Hamas è ormai diventata chiara per tutti, tranne forse che per il governo italiano, ci si interroga invece su quella di Abu Mazen, di Israele e degli Stati Uniti. Fatah ed i suoi leader sembrano i grandi sconfitti della breve guerra civile palestinese, tanto sul piano militare che su quello del consenso popolare. Tuttavia un’interessante analisi sul Washington Post di Martin Indyk, ex ambasciatore americano in Israele, suggerisce l’idea che all’Anp tale esito dello scontro non sia dispiaciuto. Perché, infatti, quando è diventato chiaro che Hamas mirava all’eliminazione degli avversari a Gaza, Fatah non ha diretto e sostenuto la resistenza delle sue forze militari nella striscia? Possibile che si sia trattato solo di incapacità o di mancanza di coraggio da parte di una leadership che è cresciuta per decenni nella lotta armata? Secondo Indyk la concentrazione delle forze dell’Anp in Cisgiordania quando Hamas preparava l’occupazione di Gaza, prova che “Abu Mazen e Fatah hanno in effetti ceduto Gaza ad Hamas mentre si tenevano la West Bank: Hamastan e Fatahstine, una two-state solution in stile palestinese".

Il vantaggio per Abu Mazen è oggi evidente. Non deve più dividere il potere con chi ha sempre voluto distruggerlo, politicamente e fisicamente, ed infatti ha prontamente nominato un governo di fedelissimi e un nuovo premier, l’economista filo-occidentale Salam Fayyad, che è la perfetta antitesi del suo predecessore Haniyeh. Non deve più occuparsi della disastrosa situazione sociale ed economica di Gaza che ora è di esclusiva responsabilità di Hamas, isolata da Usa e Ue e stretta tra il nemico israeliano e l’Egitto di Mubarak, poco incline ormai a sostenere il fondamentalismo sciita. Espulsi i pochi militanti di Hamas, Fatah ha invece il pieno controllo della Cisgiordania e la governerà da sola con l’appoggio, si spera, di Tel Aviv, Amman, Washington e Bruxelles. Non è un caso che appena Abu Mazen ha formato il nuovo governo senza Hamas, Stati Uniti ed Europa abbiano sbloccato ingenti finanziamenti all’Anp, prima congelati nell’inutile attesa che Haniyeh riconoscesse il diritto di Israele ad esistere e gli accordi di pace già siglati. Secondo l’International Herald Tribune del 20 giugno “tale mossa vuole fornire un appoggio concreto al presidente Mazen che ha nominato un governo di tecnici in sostituzione della precedente amministrazione guidata da Hamas”.

Il difficile obiettivo di lungo periodo per Abu Mazen, una volta consolidato il controllo della West Bank e iniziata la sua ricostruzione economica ed istituzionale con l’aiuto occidentale, è giungere ad una pace tra Cisgiordania ed Israele che fissi i confini e ottenga Gerusalemme est come capitale del suo Stato palestinese. A quel punto gli stessi abitanti di Gaza potranno facilmente paragonare quello che avrà ottenuto Fatah per i loro cugini della West Bank, in termini di sicurezza e di condizioni di vita, rispetto a quello, si pensa ben poco, che potrà ottenere Hamas nella striscia, e agire di conseguenza verso i loro governanti. La speranza di Abu Mazen è dunque che la vittoria di Gaza sia in realtà una vittoria di Pirro per la leadership di Hamas, ora chiamata senza più alibi a confrontarsi con la dura realtà del governo palestinese. Come si collocano Israele e Stati Uniti di fronte a tale prospettiva? Dopo l’insuccesso della guerra in Libano, Olmert ha tutto l’interesse ad un avanzamento del processo di pace nella West Bank, e Barak non è certo contrario ad una soluzione negoziale con l’Anp che egli già offrì inutilmente ad Arafat ai tempi dei negoziati di Camp David con Clinton. Considerando che Tel Aviv controlla non solo un formidabile strumento militare capace di colpire tutti i territori palestinesi, ma anche gli approvvigionamenti di Gaza di quasi ogni bene di prima necessità, a partire da acqua ed elettricità, si può facilmente comprendere come sia in grado di attuare politiche ben diverse verso due differenti interlocutori palestinesi che, di fatto, si trova ora davanti.

Per gli Stati Uniti invece il caso di Gaza è paradossale. Due anni fa sostennero le prime elezioni libere palestinesi nello sforzo di promuovere la democrazia in Medio Oriente, e si trovarono al potere i fondamentalisti islamici. Dopo 18 mesi di boicottaggio del primo governo di Hamas e successivo ambiguo sostegno al governo di unità nazionale, si ritrovano, in pratica, un nuovo Stato canaglia sulle rive del Mediterraneo, potenzialmente molto pericoloso per la sua collusione con il terrorismo islamico ed ottimo strumento di pressione in mano ai suoi finanziatori iraniani. A questo punto restano due opzioni per il campo occidentale. “West Bank First”, cioè isolamento assoluto di Hamas e appoggio a tutti i livelli – diplomatico, economico e militare - ad Abu Mazen, sperando che possa trasformare la Cisgiordania in un modello di convivenza pacifica tra musulmani e israeliani per il resto del Medio Oriente. Oppure “engagement” anche con Hamas sperando che il negoziato a oltranza, e la necessità per la popolazione di Gaza di avere rapporti economici con i propri vicini e con la comunità internazionale, spingano i fondamentalisti sciiti a diventare più moderati. Tel Aviv e Washington sembrano propendere più per la prima opzione. Secondo quanto riportato dall’International Herald Tribune del 18 giugno “Israele e Stati Uniti sembrano concordare su una politica differente verso le due entità, sostenendo Fatah nella West Bank e contenendo Hamas a Gaza”.

Molti in Europa credono ancora nella seconda via, e sottolineano come né Abu Mazen né il mondo arabo possono politicamente permettersi di abbandonare i palestinesi di Gaza al loro destino mentre si aiutano i cugini della Cisgiordania. L’Arabia Saudita in particolare, principale sponsor con gli accordi de La Mecca del precedente governo palestinese di unità nazionale, preme perché Fatah e Hamas cerchino di nuovo un accordo e la Palestina non sia divisa di fatto in due Stati. Il rischio maggiore a questo punto è che non si persegua con coerenza e decisione né l’una né l’altra strategia, e si ottenga così al tempo stesso ad est una Anp debole e incapace di negoziare la pace, e ad ovest una Hamas finanziata dall’Iran e sempre più aggressiva ed anti-occidentale. Se tale pessima eventualità si verificasse, mentre oggi a Washington, Bruxelles e Tel Aviv ci si chiede “come abbiamo perso Gaza?” tra pochi anni ci si dovrà chiedere “come abbiamo perso la Cisgiordania?”.

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