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David Cameron, un conservatore liberale
di Benedetto Della Vedova*
[20 lug 07]


Una prima considerazione di ordine generale: la rottura riformatrice imposta dalla Thatcher sta ancora producendo benefici effetti sulla politica britannica. Dopo aver provocato la trasformazione – perfettamente riuscita – del labour, oggi sta provocando, come reazione al successo politico di Blair, la trasformazione e la modernizzazione dei tories. Un sistema politico fondato sulla competizione vera è un sistema che sviluppa innovazione. La vera e propria rivoluzione dei conservatori britannici che David Cameron sta guidando si presta naturalmente a critiche e offre il fianco a dubbi sulla sua “autenticità” e sulla sua solidità. Il mio riflesso, conservatore, è, ad esempio, quello di guardare con sospetto l’apparente (o effettivo?) declassamento della questione tasse. Qui, però, mi è stato assegnato un tema preciso: Zapatory? È chiaro che proprio sulla questione, diciamo così, diritti civili come sulla questione ambientale e su quella della globalizzazione e della povertà globale Cameron gioca più spregiudicatamente il rinnovamento dell’immagine del partito. Un partito che era divenuto così impopolare che nei sondaggi se una politica si dimostrava popolare, nel momento in cui veniva associata ai tory perdeva di appeal. Molti sostengono che questo cambiamento sia solo di facciata e che sia solo “tollerato” dai maggiorenti del partito. Ma se Cameron dovesse vincere – come oggi appare possibile – anche o soprattutto sull’onda di questa trasformazione, è difficile che poi i conservatori possano tornare indietro. Un po’ come accaduto al labour della “clause four” sulla nazionalizzazione.

La chiave dei diritti civili è quella che obbliga, dall’Italia, a guardare alla destra di Cameron in modo assai problematico, visto che le sue posizioni sono opposte o comunque alternative a quelle maggioritariamente (quasi unanimemente) prevalenti nei partiti del centro-destra italiano. Con questo non intendo dire che le pozioni del centrodestra italiano siano del tutto assenti negli schieramenti conservatori del mondo civile (e anche tra i conservatori britannici). Ma sono, in genere, o pesantemente minoritarie, oppure – e penso al partito conservatore americano – maggioritarie secondo proporzioni assai inferiori a quelle che si registrano in Italia. Soprattutto, non vi è luogo in cui esercitino quella sorta di monopolio culturale che in Italia è ad esse assegnato, in virtù del fatto che rifletterebbero compiutamente le convinzioni del “mondo cattolico”. Nell’America di Bush, con il Congresso ancora saldamente in mano ai conservatori, il presidente ha dovuto usare il veto per impedire l’entrata in vigore di leggi che finanziavano con fondi federali la sperimentazione su embrioni (leggi votate da almeno un terzo dei parlamentari repubblicani, oltre che dai democratici). E nessuno, neppure il presidente Bush, ha mai pensato davvero possibile realizzare quel bando generalizzato alla sperimentazione su embrioni introdotto in Italia con la legge 40. Il centrodestra italiano, dunque, fa eccezione. Fortunatamente, diranno molti di quanti ritengono normale che un’intera coalizione politica, sui temi civili, funzioni sostanzialmente in “outsourcing”, come se al proprio interno non sapesse, potesse o volesse trovare soluzioni diverse da quelle legittimamente suggerite dall’episcopato cattolico.

Ma questa eccezionalità (o questa anomalia) pone comunque delle domande ed esige delle risposte. Dobbiamo in primo luogo interrogarci per capire se quello di Cameron (e di Sarkozy e persino della Merkel, per non parlare di Rudolph Giuliani) è un cedimento alla sinistra (e ai cliché del progressismo civile e sociale) a cui il centrodestra italiano deve eroicamente resistere, oppure se è lo schieramento liberale e moderato italiano a dimostrare un arroccamento della destra, a cui la sua classe dirigente deve urgentemente porre rimedio. Mi rendo conto che la semplificazione può apparire brutale, ma in fondo il problema si pone proprio in questi termini. Ed eludere la questione, come se sui temi delle libertà individuali e del loro riconoscimento giuridico si potesse imporre una sospensione del giudizio, non sarebbe politicamente serio, neppure dal punto di vista intellettuale. Non possiamo pensare che il centrodestra italiano sia un’“isola” dove non arriva mai il vento del “continente” conservatore. In secondo luogo, dobbiamo comprendere se le posizioni civili di Cameron abbiano principi del tutto indipendenti dal complesso della sua dottrina neo-conservative, o se invece ne siano uno svolgimento logico e coerente. Io, che, come è noto, non sono imparziale, perché su questi temi ho posizioni da mosca bianca o da pecora nera – a volte pericolosamente libertarie  – penso che alle due questioni che ho posto occorra dare una risposta molto critica (molto autocritica) rispetto alle posizioni del centrodestra italiano; che occorra denunciare l’illusione di chi pensa praticabile, se non altro per “necessitate” ragioni di opportunità, un liberalismo a geometria variabile, rigidamente applicato nei campi economico-sociale e politico-istituzionale e invece disapplicato e “disconnesso” sui temi “sensibili” delle libertà civili. Cameron – ma non solo lui – dimostra come la gran parte della destra del mondo libero e sviluppato sia riuscita ad uscire dall’equivoco che la vuole contro il progresso, perché anti-progressista, e tradizionalista, perché rispettosa di una tradizione immutabile anziché viva e vitale. Il “conservatorismo” moderno è quello che invece riesce a contrapporre (e non ad associare) il progresso e il progressismo, la tradizione e il tradizionalismo. Scegliendo i primi e rifuggendo gli “ismi”. Il progressismo è un ideale pedagogico affidato alle armi del Leviatano statale; è l’indirizzo che il potere ritiene di dare alla vita della società e degli individui; è, per definizione, il Bene che la cura responsabile della politica, in virtù della sua superiore saggezza, ritiene di assicurare alla vita della società, interpretando lo spirito dei tempi.

Cameron si muove esattamente al contrario; in fondo critica Blair e il blairismo (a cui pure molto somiglia) per non avere valorizzato le forme spontanee di iniziativa sociale e per averne sottovalutato le potenzialità politiche. Per avere puntato sì sul mercato ma poco sulla società. Per non avere a sufficienza investito sui corpi sociali come fattore di coesione e di tenuta. In questo Cameron dal punto di vista ideologico rompe forse più con la Thatcher (la quale aveva però di fronte una Gran Bretagna assai diversa in cui non si poteva/doveva giocare di fioretto ma di sciabola) che con Blair. Ma comunque siamo agli antipodi esatti del progressismo. Cameron è quello che in Italia definiremmo un convinto “sussidiarista”. Ma, per stare al nostro tema, è proprio questa idea dell’autonomia sociale (quest’idea che non sia il potere a dovere spiegare alla società e agli individui come essi devono essere e comportarsi) a spingere Cameron, ad esempio, a combattere sul piano politico quel residuo stigma di “innaturale anormalità” che l’omosessualità come condizione personale e civile sta ormai decisamente perdendo sul piano sociale.

Questa cosa apparentemente molto “veltroniana” che Cameron sta facendo – proporre alle prossime elezioni collegi sicuri ai dirigenti tories dichiaratamente gay, e favorire l’ascesa di una lesbica dichiarata alla vicepresidenza del partito – in realtà riflette l’esigenza di rappresentare in modo eloquente che la politica ha capito la lezione della società. Come a dire che se è vero che la politica non deve stare, pedagogicamente, un passo avanti alla società, non può neppure sempre rimanere un passo indietro. Lo stesso si dica sul rapporto tra tradizione e tradizionalismo. E continuo a usare come esempio e termine di paragone il tema della cosiddetta “questione omosessuale” proprio perché essa, malgrado i Dico, resta urgentemente inscritta nell’agenda della politica italiana. Un vero “destro” liberale, oggi, non dovrebbe avere nessun problema ad accogliere come “frutto della tradizione” il fatto che le relazioni omosessuali siano uscite dal ghetto della discriminazione giuridica e della riprovazione morale, per divenire forme tutt’altro che irregolari di organizzazione sociale e persino familiare.

Proprio in nome di una tradizione concreta, contrapposta ad un tradizionalismo astratto e pericoloso quanto il progressismo, Cameron capisce che il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali (e in Inghilterra vi è una legge quasi zapateriana) risponde all’evoluzione della nostra tradizione, non ad una “macchinazione” o ad un attentato contro di essa. Cameron fa quello che il centrodestra italiano sembra voler rifiutare di fare: contendere al centrosinistra il monopolio delle domande e delle risposte sulle questioni “eticamente sensibili”, ed in particolare sulle questioni per le quali la Chiesa esprime posizioni particolarmente rigide. Contendere il monopolio significa proporre soluzioni diverse, spesso alternative; di segno liberale anziché statalista. E questo, per capirci, vale sulla famiglia come sull’eutanasia. Le aperture di Cameron sono condizionate da un calcolo elettorale oltre che da una scelta politica? Sicuramente sì. Ma questo è un ulteriore elemento di riflessione per il centrodestra italiano, che ritiene “normale” ostentare la propria assenza e distanza da una piazza come quella del Gay Pride, gremita dello stesso ordine di grandezza di quella del Family Day. La seconda era una piazza bipartisan, la prima, per volontà del centrodestra, una piazza – salvo una eccezione – tutta di centrosinistra.

Per concludere, penso insomma che si possa, senza offesa per nessuno, dire che Cameron ha ragione e non è un leftist travestito. Anzi, che Cameron ha ragione – e il centro-destra italiano torto - proprio perché non lo è, e perché così dimostra che si può apparire pericolosamente libertari pur rimanendo onestamente conservatori.

 

*Intervento di Benedetto Della Vedova a "Dopo Blair. Cameron e la sfida dei nuovi conservatori", convegno organizzato dalla Fondazione Fare Futuro il 3 luglio scorso.

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