26  giu  07 - Anp, se perdere Gaza si rivela la mossa vincente di Alessandro Marrone 

 

 

 

 

Turchia al voto, nessun rischio per la democrazia
di Alessandro Marrone
[16 lug 07]


In Turchia sale la febbre delle elezioni legislative del 22 luglio, che saranno probabilmente cruciali per il paese. Lo scontro politico in atto tra kemalisti e islamisti è molto forte, ma è anche più complesso e sfumato di quanto sembri a prima vista. Si arriva infatti alle elezioni sull’onda del braccio di ferro tra il partito post-islamista Giustizia e Sviluppo (Akp) del premier Tayyp Erdogan e l’opposizione laica progressista e nazionalista, autorevolmente sostenuta dalle forze armate turche. La causa scatenante dello scontro, dopo cinque anni di coabitazione costruttiva tra laici e post-islamisti, è stato il rinnovo della presidenza della Repubblica, carica tradizionalmente appannaggio di un kemalista gradito ai militari, per il quale il governo Erdogan ha candidato il suo ministro degli Esteri Abdullah Gul. I militari e l’opposizione sia di sinistra (Partito repubblicano del popolo, Chp), che di destra (Partito di azione nazionale, Mhp) hanno chiesto una personalità di garanzia dell’impianto kemalista dello Stato turco e si sono duramente opposti in Parlamento, nelle piazza e nei tribunali, ai tentativi dell’Akp di insediare Gul alla presidenza. I vertici delle forze armate turche sono arrivati a ventilare anche una loro azione nel caso che la laicità e l’integrità nazionale della Turchia fossero messe in pericolo da derive islamiste. Lo hanno fatto intuire quando la maggioranza parlamentare dell’Akp ha approvato una legge per l’elezione popolare del presidente della Repubblica, bloccata però dal veto proprio del presidente uscente, il kemalista Sezer. Per sciogliere il nodo gordiano il Parlamento turco alla fine ha deciso all’unanimità di usare la spada delle elezioni legislative anticipate.

In un clima infuocato si sta svolgendo, dunque, la campagna elettorale. Secondo il sondaggio riportato dall’Economist del 16 giugno “il partito di Erdogan potrebbe ottenere un risultato migliore del 34 per cento delle elezioni del 2002”. Infatti il primo partito dell’opposizione sarebbe il progressista Chp accreditato del 22 per cento, seguito dal nazionalista Mhp con l’11 per cento. Considerato che la legge elettorale turca pone una soglia di sbarramento al 10 per cento, sempre secondo l’Economist l’unico altro partito che entrerebbe in Parlamento sarebbe quello dei curdi: “il filo curdo Dtp si aspetta di conquistare 30 seggi, anche grazie alla candidatura di 40 personaggi indipendenti”. Sbaglierebbe però l’osservatore superficiale che vedesse in queste elezioni una scelta di campo tra Islam e Occidente. L’errore appare evidente se si considerano in primo luogo i risultati di cinque anni di governo monocolore dell’Akp, che ha liberalizzato e stabilizzato l’economia e introdotto importanti riforme liberali per rispettare i criteri per l’ingresso nell’Unione Europea. In secondo luogo perché il monito delle forze armate, ed i milioni di turchi scesi più volte in piazza tra aprile e maggio, hanno avuto il salutare effetto di spingere Erdogan a spostare il baricentro del suo partito verso il centro. Secondo un articolo del Financial Times del 3 luglio, “l’Akp ha escluso dalle candidature elettorali circa 150 tra i suoi rappresentanti più reazionari, sostituendoli con personaggi nuovi, giovani e dall’estrazione borghese”.

Uomo-immagine di questa operazione di rinnovamento e di “tranquillizzazione” dell’elettorato e dell’establishment kemalista, portata coraggiosamente avanti dalla leadership dell’Akp, è Mehmet Simsek. Nato non lontano dal confine con l’Iraq da genitori curdi, poveri e analfabeti, si è fatto strada arrivando a laurearsi all’università di Ankara, per poi lavorare a Londra alla Merrill Linch e sposare una cittadina americana. Sempre secondo il Financial Times “insieme a Simsek questo nuovo gruppo include persone del mondo della finanza, del commercio e delle professioni, e intellettuali come l’ex direttore della sezione turca del German Mashall Fund Kimiklioglu”. Cosa può dunque augurarsi chi guarda alle vicende turche dalla sponda europea del Mediterraneo? In primo luogo che le elezioni e la formazione del successivo governo si svolgano pacificamente e senza interventi militari: questo sarebbe un importante esempio di democrazia in un grande paese islamico, ed in questo momento ce ne è davvero bisogno in tutta la travagliata regione che va dal Marocco al Pakistan. In secondo luogo occorre augurarsi che la soglia di sbarramento non strangoli l’opposizione parlamentare, come avvenne nel 2002 quando a causa della frammentazione partitica solo uno tra i sei partiti laici con un cospicuo numero di voti raggiunse il 10 per cento e l’Akp, con il 34 per cento dei consensi, ottenne i due terzi dei seggi. Se si verificassero entrambe tali condizioni ed il partito di Erdogan dovesse, come sembra probabile, conquistare la maggioranza assoluta dei seggi formando un governo moderato, tale esito rappresenterebbe un passo importante verso la piena integrazione nella democrazia nazionale turca delle sue masse islamiche. E questa sarebbe una buona notizia non solo per la Turchia, ma per tutta l’Europa.

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