













































































 Turchia al voto, nessun rischio per la democrazia
 
    
	Turchia al voto, nessun rischio per la democrazia
			
					 In Turchia 
			sale la febbre delle elezioni legislative del 22 luglio, che saranno 
			probabilmente cruciali per il paese. Lo scontro politico in atto tra 
			kemalisti e islamisti è molto forte, ma è anche più complesso e 
			sfumato di quanto sembri a prima vista. Si arriva infatti alle 
			elezioni sull’onda del braccio di ferro tra il partito 
			post-islamista Giustizia e Sviluppo (Akp) del premier Tayyp Erdogan 
			e l’opposizione laica progressista e nazionalista, autorevolmente 
			sostenuta dalle forze armate turche. La causa scatenante dello 
			scontro, dopo cinque anni di coabitazione costruttiva tra laici e 
			post-islamisti, è stato il rinnovo della presidenza della 
			Repubblica, carica tradizionalmente appannaggio di un kemalista 
			gradito ai militari, per il quale il governo Erdogan ha candidato il 
			suo ministro degli Esteri Abdullah Gul. I militari e l’opposizione 
			sia di sinistra (Partito repubblicano del popolo, Chp), che di 
			destra (Partito di azione nazionale, Mhp) hanno chiesto una 
			personalità di garanzia dell’impianto kemalista dello Stato turco e 
			si sono duramente opposti in Parlamento, nelle piazza e nei 
			tribunali, ai tentativi dell’Akp di insediare Gul alla presidenza. I 
			vertici delle forze armate turche sono arrivati a ventilare anche 
			una loro azione nel caso che la laicità e l’integrità nazionale 
			della Turchia fossero messe in pericolo da derive islamiste. Lo 
			hanno fatto intuire quando la maggioranza parlamentare dell’Akp ha 
			approvato una legge per l’elezione popolare del presidente della 
			Repubblica, bloccata però dal veto proprio del presidente uscente, 
			il kemalista Sezer. Per sciogliere il nodo gordiano il Parlamento 
			turco alla fine ha deciso all’unanimità di usare la spada delle 
			elezioni legislative anticipate.
					
			In Turchia 
			sale la febbre delle elezioni legislative del 22 luglio, che saranno 
			probabilmente cruciali per il paese. Lo scontro politico in atto tra 
			kemalisti e islamisti è molto forte, ma è anche più complesso e 
			sfumato di quanto sembri a prima vista. Si arriva infatti alle 
			elezioni sull’onda del braccio di ferro tra il partito 
			post-islamista Giustizia e Sviluppo (Akp) del premier Tayyp Erdogan 
			e l’opposizione laica progressista e nazionalista, autorevolmente 
			sostenuta dalle forze armate turche. La causa scatenante dello 
			scontro, dopo cinque anni di coabitazione costruttiva tra laici e 
			post-islamisti, è stato il rinnovo della presidenza della 
			Repubblica, carica tradizionalmente appannaggio di un kemalista 
			gradito ai militari, per il quale il governo Erdogan ha candidato il 
			suo ministro degli Esteri Abdullah Gul. I militari e l’opposizione 
			sia di sinistra (Partito repubblicano del popolo, Chp), che di 
			destra (Partito di azione nazionale, Mhp) hanno chiesto una 
			personalità di garanzia dell’impianto kemalista dello Stato turco e 
			si sono duramente opposti in Parlamento, nelle piazza e nei 
			tribunali, ai tentativi dell’Akp di insediare Gul alla presidenza. I 
			vertici delle forze armate turche sono arrivati a ventilare anche 
			una loro azione nel caso che la laicità e l’integrità nazionale 
			della Turchia fossero messe in pericolo da derive islamiste. Lo 
			hanno fatto intuire quando la maggioranza parlamentare dell’Akp ha 
			approvato una legge per l’elezione popolare del presidente della 
			Repubblica, bloccata però dal veto proprio del presidente uscente, 
			il kemalista Sezer. Per sciogliere il nodo gordiano il Parlamento 
			turco alla fine ha deciso all’unanimità di usare la spada delle 
			elezioni legislative anticipate.
			
					 In un 
					clima infuocato si sta svolgendo, dunque, la campagna 
					elettorale. Secondo il sondaggio riportato dall’Economist 
					del 16 giugno “il partito di Erdogan potrebbe ottenere un 
					risultato migliore del 34 per cento delle elezioni del 
					2002”. Infatti il primo partito dell’opposizione sarebbe il 
					progressista Chp accreditato del 22 per cento, seguito dal 
					nazionalista Mhp con l’11 per cento. Considerato che la 
					legge elettorale turca pone una soglia di sbarramento al 10 
					per cento, sempre secondo l’Economist l’unico altro partito 
					che entrerebbe in Parlamento sarebbe quello dei curdi: “il 
					filo curdo Dtp si aspetta di conquistare 30 seggi, anche 
					grazie alla candidatura di 40 personaggi indipendenti”. 
					Sbaglierebbe però l’osservatore superficiale che vedesse in 
					queste elezioni una scelta di campo tra Islam e Occidente. 
					L’errore appare evidente se si considerano in primo luogo i 
					risultati di cinque anni di governo monocolore dell’Akp, che 
					ha liberalizzato e stabilizzato l’economia e introdotto 
					importanti riforme liberali per rispettare i criteri per 
					l’ingresso nell’Unione Europea. In secondo luogo perché il 
					monito delle forze armate, ed i milioni di turchi scesi più 
					volte in piazza tra aprile e maggio, hanno avuto il salutare 
					effetto di spingere Erdogan a spostare il baricentro del suo 
					partito verso il centro. Secondo un articolo del Financial 
					Times del 3 luglio, “l’Akp ha escluso dalle candidature 
					elettorali circa 150 tra i suoi rappresentanti più 
					reazionari, sostituendoli con personaggi nuovi, giovani e 
					dall’estrazione borghese”.
 
					In un 
					clima infuocato si sta svolgendo, dunque, la campagna 
					elettorale. Secondo il sondaggio riportato dall’Economist 
					del 16 giugno “il partito di Erdogan potrebbe ottenere un 
					risultato migliore del 34 per cento delle elezioni del 
					2002”. Infatti il primo partito dell’opposizione sarebbe il 
					progressista Chp accreditato del 22 per cento, seguito dal 
					nazionalista Mhp con l’11 per cento. Considerato che la 
					legge elettorale turca pone una soglia di sbarramento al 10 
					per cento, sempre secondo l’Economist l’unico altro partito 
					che entrerebbe in Parlamento sarebbe quello dei curdi: “il 
					filo curdo Dtp si aspetta di conquistare 30 seggi, anche 
					grazie alla candidatura di 40 personaggi indipendenti”. 
					Sbaglierebbe però l’osservatore superficiale che vedesse in 
					queste elezioni una scelta di campo tra Islam e Occidente. 
					L’errore appare evidente se si considerano in primo luogo i 
					risultati di cinque anni di governo monocolore dell’Akp, che 
					ha liberalizzato e stabilizzato l’economia e introdotto 
					importanti riforme liberali per rispettare i criteri per 
					l’ingresso nell’Unione Europea. In secondo luogo perché il 
					monito delle forze armate, ed i milioni di turchi scesi più 
					volte in piazza tra aprile e maggio, hanno avuto il salutare 
					effetto di spingere Erdogan a spostare il baricentro del suo 
					partito verso il centro. Secondo un articolo del Financial 
					Times del 3 luglio, “l’Akp ha escluso dalle candidature 
					elettorali circa 150 tra i suoi rappresentanti più 
					reazionari, sostituendoli con personaggi nuovi, giovani e 
					dall’estrazione borghese”. 
			
					 Uomo-immagine di questa operazione di rinnovamento e di 
					“tranquillizzazione” dell’elettorato e dell’establishment 
					kemalista, portata coraggiosamente avanti dalla leadership 
					dell’Akp, è Mehmet Simsek. Nato non lontano dal confine con 
					l’Iraq da genitori curdi, poveri e analfabeti, si è fatto 
					strada arrivando a laurearsi all’università di Ankara, per 
					poi lavorare a Londra alla Merrill Linch e sposare una 
					cittadina americana. Sempre secondo il Financial Times 
					“insieme a Simsek questo nuovo gruppo include persone del 
					mondo della finanza, del commercio e delle professioni, e 
					intellettuali come l’ex direttore della sezione turca del 
					German Mashall Fund Kimiklioglu”. Cosa può dunque augurarsi 
					chi guarda alle vicende turche dalla sponda europea del 
					Mediterraneo? In primo luogo che le elezioni e la formazione 
					del successivo governo si svolgano pacificamente e senza 
					interventi militari: questo sarebbe un importante esempio di 
					democrazia in un grande paese islamico, ed in questo momento 
					ce ne è davvero bisogno in tutta la travagliata regione che 
					va dal Marocco al Pakistan. In secondo luogo occorre 
					augurarsi che la soglia di sbarramento non strangoli 
					l’opposizione parlamentare, come avvenne nel 2002 quando a 
					causa della frammentazione partitica solo uno tra i sei 
					partiti laici con un cospicuo numero di voti raggiunse il 10 
					per cento e l’Akp, con il 34 per cento dei consensi, ottenne 
					i due terzi dei seggi. Se si verificassero entrambe tali 
					condizioni ed il partito di Erdogan dovesse, come sembra 
					probabile, conquistare la maggioranza assoluta dei seggi 
					formando un governo moderato, tale esito rappresenterebbe un 
					passo importante verso la piena integrazione nella 
					democrazia nazionale turca delle sue masse islamiche. E 
					questa sarebbe una buona notizia non solo per la Turchia, ma 
					per tutta l’Europa.
 
					
					Uomo-immagine di questa operazione di rinnovamento e di 
					“tranquillizzazione” dell’elettorato e dell’establishment 
					kemalista, portata coraggiosamente avanti dalla leadership 
					dell’Akp, è Mehmet Simsek. Nato non lontano dal confine con 
					l’Iraq da genitori curdi, poveri e analfabeti, si è fatto 
					strada arrivando a laurearsi all’università di Ankara, per 
					poi lavorare a Londra alla Merrill Linch e sposare una 
					cittadina americana. Sempre secondo il Financial Times 
					“insieme a Simsek questo nuovo gruppo include persone del 
					mondo della finanza, del commercio e delle professioni, e 
					intellettuali come l’ex direttore della sezione turca del 
					German Mashall Fund Kimiklioglu”. Cosa può dunque augurarsi 
					chi guarda alle vicende turche dalla sponda europea del 
					Mediterraneo? In primo luogo che le elezioni e la formazione 
					del successivo governo si svolgano pacificamente e senza 
					interventi militari: questo sarebbe un importante esempio di 
					democrazia in un grande paese islamico, ed in questo momento 
					ce ne è davvero bisogno in tutta la travagliata regione che 
					va dal Marocco al Pakistan. In secondo luogo occorre 
					augurarsi che la soglia di sbarramento non strangoli 
					l’opposizione parlamentare, come avvenne nel 2002 quando a 
					causa della frammentazione partitica solo uno tra i sei 
					partiti laici con un cospicuo numero di voti raggiunse il 10 
					per cento e l’Akp, con il 34 per cento dei consensi, ottenne 
					i due terzi dei seggi. Se si verificassero entrambe tali 
					condizioni ed il partito di Erdogan dovesse, come sembra 
					probabile, conquistare la maggioranza assoluta dei seggi 
					formando un governo moderato, tale esito rappresenterebbe un 
					passo importante verso la piena integrazione nella 
					democrazia nazionale turca delle sue masse islamiche. E 
					questa sarebbe una buona notizia non solo per la Turchia, ma 
					per tutta l’Europa.

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