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Pakistan, l'integralismo islamico abita qui
di Gabriele Cazzulini
[09 lug 07]


Il terrorismo islamico non è soltanto l’11 settembre. Su quell’evento epocale il senso comune occidentale ha elaborato la visione di un nemico che distrugge chiunque si ponga fuori dalla sua identità. I terroristi non hanno una cittadinanza, un governo, un territorio. Non hanno uno Stato, né ambiscono a fondarne un altro. Nella mentalità dell’islamismo estremo lo Stato rappresenta un fattore di organizzazione ormai superato, imposto dalla colonizzazione occidentale per essere adoperato come guinzaglio con cui i governi occidentali sono riusciti ad ammansire gli spiriti ribelli dell’Islam. Il vuoto di una dottrina dello Stato contribuisce a scalfire l’immagine stereotipata dell’Islam come blocco granitico che si estende su ogni palmo di terra musulmana e domina ogni uomo di lingua araba. Anche lo scontro di civiltà è un’altra metafora difficile da adattare alla realtà perché non è la civiltà musulmana a entrare in collisione con la civiltà occidentale, quanto un terzo elemento, cioè i terroristi, che però non sono una civiltà in senso classico.

Civiltà è un concetto imbevuto di realtà occidentale. I terroristi islamici sono una creatura partorita nell’epoca pre-moderna che ha scansato la modernità per saltare in sella alla globalizzazione del terzo millennio. Un mostro con due teste: un’identità impastata nella sabbia e nel sangue che si ritrova ad operare nell’età di Internet. Il disinteresse per una dottrina dello Stato, il fascino magnetico sui giovani che fa parlare di seconda (o terza, a seconda dei calendari) generazione di baby Bin Laden, l’affinità elettiva per tutto quanto fa comunicazione e immagine. Sono indizi che raffigurano il terrorismo islamico come una fenomenologia che non sta dentro alla categoria del “nemico”. La conferma è che i terroristi islamici lottano anche contro gli arabi. Non vuol dire che i terroristi di Londra siano gli stessi che fanno esplodere bombe in Medioriente. Il terrorismo internazionale cambia pelle quando il suo bersaglio non è un infedele ma un altro musulmano nato e cresciuto sul suolo arabo. Cambia la strategia, cambiano gli obiettivi, cambiano i militanti – ma non il fine: dilatare la sfera religiosa fino ad assorbire ogni ambito di vita. È il fronte interno. Qui il terrorismo abbandona l’invisibilità con cui si mimetizza nella realtà occidentale per acquistare una visibilità quasi ostentata. Dall’oscurità notturna alla luce del giorno.

Il Pakistan è un caso paradigmatico. Islamabad è sede della più grande moschea dell’Asia e una delle principali della galassia musulmana. I suoi cinquemila metri quadrati di estensione furono ultimati nel 1986 dopo dieci anni di lavori finanziati dall’Arabia Saudita (circa 120 milioni di dollari attuali). La moschea consacrata al re saudita Faisal è un colosso architettonico che materializza il corposo ruolo sociale occupato dall’Islam nel sistema Pakistan. Ma questo spirito religioso continua ad impregnarsi di influenze estremiste. Durante la preghiera del venerdì il Khateeb (leader religioso) di Lal Masjid (la moschea di Lal), il Maulana Abdul Aziz, invoca puntualmente l’instaurazione di una corte islamica, composta da dieci muftì, per applicare la sharia. L’impegno è stato sottoscritto con la minaccia di attentati suicidi qualora il governo osasse resistere. Il potere religioso non tollera ostacoli e neppure violazioni ai suoi precetti: i bordelli e i negozi che vendono film e musica straniera devono chiudere; il governo deve impedire le pubblicazioni di immagini oscene e contrarie alla morale islamica; l’influenza occidentale sul Pakistan deve essere scacciata come un demone maligno.

La crociata dell’integralismo musulmano all’interno del Medioriente vuole intercettare il largo malcontento delle masse presentandosi come paladina degli oppressi. L’equazione è: miseria uguale negazione dell’Islam. Insieme al fratello Abdul Rashid Ghazi, Abdul Aziz è il leader della madrassa Jamia Hafsa, la più grande scuola islamica femminile del mondo e tra le più arroventate di estremismo. Con oltre 6500 iscritti, la madrassa ha acquisito visibilità internazionale nello scorso febbraio, quando le sue studentesse hanno inscenato una manifestazione contro il tentativo del presidente Musharraf di radere al suolo il loro edificio scolastico. Poi a marzo le stesse studentesse hanno effettuato un’incursione in un bordello sequestrando la famiglia del gestore e rilasciandolo solo dopo che le autorità avevano scarcerato due insegnanti arrestate per l’incursione. E poi i falò per bruciare cd con canzoni anti-islamiche, accompagnato da esplicite minacce ai commercianti che non si adeguano. Gli studenti delle due madrasse – l’altra, per studenti maschi, è Jamia Farida – attraggono i loro alunni principalmente dalla provincia della frontiera nord-occidentale, al confine afgano, regione abitualmente corrosa da infiltrazioni talebane ed estremiste. È stata questa madrassa a scagliarsi duramente contro il governo per le operazioni militari in Waziristan. Ora la prepotenza della moschea di Lal ha raggiunto un livello tale che i suoi studenti sferrano attacchi di massa contro la polizia e l’esercito, mentre le studentesse inneggiano alla sharia, unendo i sessi in una perversa eguaglianza. Ecco il volto “domestico” dell’islam, che occupa un ruolo egemone nell’educazione per fonderla con la vita pubblica e indottrinare la gioventù in base ai canoni della sharia.

Manca solo l’egemonia sulla politica. Ma niente partiti ed elezioni. Per destabilizzare l’autorità pubblica al punto da sottometterla alla volontà degli islamisti serve una cassetta degli attrezzi diversa da quella della democrazia. Ma anche dello stesso terrorismo come viene attuato contro l’Occidente: sul fronte interno il terrorismo islamico si prefigge obiettivi che non richiedono più le tecniche classiche. È un gioco rischioso, perché gli islamisti devono trasformarsi in un tarlo che logora le istituzioni, in un megafono che assorda l’opinione pubblica, in un tribunale permanente che persegue, giudica e condanna la morale pubblica e privata. Ma tutta questa pressione violenta non deve oltrepassare la soglia della paralisi istituzionale, perché in quel caso gli islamisti non dispongono di un reale progetto di governo perché non sanno come sostituire lo Stato. Anche qui il Pakistan è emblematico. Più il potere autoritario di Musharraf si inasprisce, più il Pakistan fa un passo avanti sul ciglio del burrone. Sotto c’è il vuoto della crisi istituzionale, anticamera dell’anarchia e del conflitto tra schegge del potere: Palestina all’ennesima potenza. È successo in Afghanistan, potrebbe succedere di nuovo. Ma non rientra negli obiettivi degli islamisti, che sarebbero travolti dal vortice del caos. Il terrore in Occidente e il dominio in Oriente. Il sole e la luna secondo il terrorismo islamico, che ora sta azzannando il Pakistan. Ma quando il terrorismo diventa Caino il suo obiettivo è schiavizzare Abele e ogni altro fratello – non ucciderlo.

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