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			commentatori, pur di non riconoscere il fallimento della politica 
			europea, e soprattutto italiana, nei confronti del problema 
			israelo-palestinese, si compiacciono di affermare che la conquista 
			di Gaza da parte di Hamas pone la Striscia in una condizione di 
			isolamento internazionale con ripercussione negative sulla vita 
			della popolazione locale. La colpa – è ovvio – è degli Stati Uniti e 
			di Israele, rei di non aver riconosciuto il governo di Hamas ed 
			instaurato regolari rapporti ed erogato i finanziamenti al governo 
			legittimo palestinese. Siamo alle solite. Nell’illusione ormai 
			decennale dei detrattori di Israele di poter ristabilire uno 
			status quo accettabile nella regione, essi non fanno 
			altro che ricercare i possibili interlocutori proprio nei paesi e 
			nei movimenti che vogliono la distruzione dello Stato ebraico. Il 
			governo italiano, ed in prima fila il nostro ministro degli Esteri 
			D’Alema, ha aperto disinvoltamente una linea di credito prima 
			all’Iran, che avrebbe il diritto al nucleare, poi alla Siria, 
			considerato paese-chiave per ogni trattativa utile, poi Hamas, che, 
			avendo vinto le elezioni, è divenuto dall’oggi al domani una 
			formazione democratica; per non dire di Hezbollah che, essendo 
			presente nel Parlamento libanese, pare che abbia tutto il diritto di 
			costituire uno Stato nello Stato. 
			
					
 
					Da 
					dove deriva questo atteggiamento politico? Quali sono le 
					matrici politico-culturali che consentono a D’Alema e soci 
					di perseguire questa politica apparentemente dissennata? 
					Nessuno dice, per amor di Patria, che D’Alema e i suoi 
					seguaci, più la variegata compagnia dell’estrema sinistra 
					italiana, sono stati e restano comunisti. Con ciò si vuol 
					dire che nella loro visione del mondo, ed in particolare 
					della crisi mediorientale, agisce sempre, come un chiodo 
					fisso, la tradizione di marca sovietica che a suo tempo 
					bollò Israele come Stato imperialista al soldo, ovviamente, 
					degli Stati Uniti. Neppure l’evidenza lampante della realtà 
					odierna mediorientale (il terrorismo, l’assalto islamista 
					all’Occidente, le farneticazioni iraniane sulla distruzione 
					di Israele, l’eterno doppio gioco della Siria, che da una 
					parte finge di volere negoziati, dall’altra è al servizio di 
					Teheran nel rifornire di armi tutti i peggiori movimenti 
					terroristici che si aggirano nell’area) scalfisce le 
					certezze ideologiche di D’Alema e compagni: Israele ha torto 
					per definizione, cioè perché è l’avamposto della cultura e 
					dei valori dell’Occidente “imperialista” nel cuore del mondo 
					arabo. Per i nemici di Israele sono sempre pronte tutte le 
					giustificazioni possibili, per Gerusalemme mai.
			
					
 
					Molti 
					dicono che il comunismo è morto. Non è vero. Esso agisce 
					ancora come un tarlo in coloro che, avendo perso la 
					casa-madre, vedono in tutto ciò che è anti-occidentale, nel 
					senso più vasto del termine, la chiave utile per raggiungere 
					quello scopo che il marxismo ha fallito miseramente. Così, 
					ha ragione Roger Scruton quando afferma: «È il rapporto tra 
					Israele e l’America che fa di Israele l’obiettivo 
					dell’Islam militante [...]. Quando Israele è diventato 
					l’obiettivo dei militanti islamici di Hezbollah, non era per 
					raggiungere un qualche accordo favorevole al popolo 
					palestinese. Era per punire Israele in quanto propaggine 
					dell’Occidente nel dâr al-islam». In fondo, i nostri 
					“progressisti” non si discostano molto da questa 
					interpretazione, anche se la propongono in una forma più 
					accettabile alla “sensibilità democratica” di certo 
					Occidente. Se vogliamo, che sia stata al-Qaeda o gli stessi 
					Hezbollah a fare strage dei caschi blu nel Libano 
					meridionale non sposta di molto il problema. L’assedio di 
					Israele da parte delle formazioni terroristiche, il potere 
					destabilizzante nel Medio Oriente acquisito dall’Iran (e 
					dalla Siria), la situazione traballante della democrazia nel 
					Libano, sono tutti fattori che sembrano sfuggire alla 
					volontà europea di svolgere un ruolo decisivo nella regione. 
					Così, il trito ritornello di condanna dell’unilateralismo 
					americano e di richiesta di maggiore multilateralismo si 
					trasforma in uno stallo politico dell’Europa, incapace di 
					decidere e di agire conseguentemente.
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