Le delizie della vita agreste
di Maurizio Stefanini

Ideazione di gennaio-febbraio 2007

  Voglia di campagna. Neoruralismo e città
  Valerio Merlo
    Città Aperta, Troina (EN), 2006
   pp. 258, € 15

Oltre il 50 per cento della popolazione del pianeta vivrà in città a partire dalla metà dell’anno prossimo, e oltre i due terzi dal 2050. Ma è un trend tutto dovuto al Terzo Mondo. In Italia invece le grandi città si contraggono: tra 1981 e 2005 Roma è passata da 2.840.259 abitanti a 2.547.677, Milano da 1.743.427 a 1.308.311, Napoli da 1.221.859 a 984.242, Torino da 1.199.006 a 900.608. E lo stesso è in tutto l’Occidente.

Negli Stati Uniti e in Svezia, in particolare, la counterurbanization fu constatata fin dagli anni Settanta. E in Francia nel 1990 per la prima volta dopo un secolo la popolazione rurale aumentò, grazie a un’emigrazione dai centri maggiori di ben 410.000 persone.

È voglia di campagna, come intitola appunto questo libro. Che non è uno spot sull’agriturismo, al contrario trattato con un certo sprezzo dall’autore, che è poi il sociologo Valerio Merlo: già consulente della cisl, storico del sindacalismo cattolico e membro dell’Accademia dei Georgofili. «L’esame della più recente evoluzione delle strutture agrituristiche evidenzia che la degenerazione edonistica e consumistica del turismo rurale procede senza freni», scrive di quelle beauty farms dove invece di imparare il lavoro nei campi si fanno orge di yoga, aromaterapia, fitoterapia, apiterapia, cristalloterapia, musicoterapia, perfino vinoterapia e olioterapia. Né si pensi che queste bordate contro la disneylandizzazione siano ispirate a fondamentalismo ecologista. Al contrario, pagine altrettanto caustiche sono dedicate al politically correct di sinistra. Ad esempio, trova «legittimo il sospetto che lo zelo con cui i mass media alimentano la moda dell’enogastronomia sia funzionale a sostenere una domanda di prodotti agricoli pregiati di prezzo elevato (vino, olio, prodotti tipici) che sono i settori di specializzazione della agricoltura neoborghese»: quei “bobò”, “borghesi bohémien”, che si sono buttati sulla moda dell’agricoltura “di qualità” provenendo da spettacolo, arte, cultura, professioni, new economy.

Soprattutto, però, fuori luogo gli sembrano i pregiudizi estetici con cui i radical-chic bollano quelli che invece a Merlo sembrano gli aspetti più significativi del nuovo rapporto tra neoruralismo e città. Da una parte le “villettopoli”, cioè, le enormi distese di villette spesso autocostruite da operai-contadini-imprenditori e bollate come sintomo di degrado. Per Merlo, invece, sono i centri di propulsione di un nuovo modello di integrazione tra produzione e territorio che porta l’industria nella campagna, che è alla base del tanto decantato boom del Nord-Est, e che può trovare nella storia dell’urbanistica teorici illustri come Adolf Loos o Frank Lloys Wright. La loro demonizzazione, a vedere bene, risale invece all’opposto modello teorico di Le Corbusier e Engels. Il socio di Marx, in particolare, esaltatore delle grandi città in quanto «culla del movimento operaio». Per questo, il libro definisce sardonicamente le villettopoli una «vendetta contro Engels», allo stesso modo della passione tipicamente anglosassone per la casa familiare con giardino attorno.

Opposto e convergente è il fenomeno degli orti urbani, che portano invece la campagna in città. Anche qui è spesso pesante il sarcasmo e l’insofferenza verso quegli anziani pensionati che vi riscoprono le proprie radici rurali; e anche qui invece si tratta di una tradizione architettonica antica e illustre, testimoniata dalla toponomastica degli Orti di Trastevere o delle Cascine di Firenze. Ancora nella Roma Belle Époque il sindaco massone Nathan ripianava le spese per il mantenimento di Villa Borghese con le vendite di latte e formaggi delle mucche ivi allevate, in traversale accordo con quel Papa Leone XIII che si rilassava potando le vigne del Vaticano. E perfino gli Orticelli di Guerra squalificati dall’antifascismo avevano in effetti il loro esatto corrispondente nei Relief Gardens per disoccupati e nei Victory Gardens degli usa del New Deal. Oggi si espandono i Community Gardens americani, i Jardins Familiaux francesi, le City Farms inglesi. Per non parlare di quegli orti che nelle bidonvilles del Terzo Mondo sono un’importante strumento di sopravvivenza nell’economia della miseria.

(c) Ideazione.com (2006)
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