Totò
di Dino Cofrancesco


In uno spiritoso trafiletto apparso tempo fa su Repubblica, Michele Serra, ironizzando sul veto leghista all’intitolazione di una piazza di Cuneo a Totò e sulla proposta alternativa di dedicarla, invece, a Macario, commentava caustico: “Se a Cuneo ci si trova in Piazza Totò ci si sente in Italia, se ci si trova in Piazza Macario ci si sente…a Cuneo!”. Fa piacere leggere un’apologia così cordiale dell’italiano Totò nel quotidiano che raccoglie le sparse membra di quella cultura militante - antigiolittiana, antituratiana, antidegasperiana, antisocialdemocratica, antiliberista, anticattolica, anti-anticomunista - che si compendia nell’antitalianismo azionista. La maschera partenopea, infatti, in passato, aveva rappresentato per essa il simbolo più plebeo dell’”Italia che non ci piace”: la filosofia spicciola del suddito, che tira a campare e che, dinanzi alle tempeste della storia, si preoccupa unicamente di salvare se stesso, la sua famiglia, le sue povere cose. Totò, insomma, come espressione compiuta del qualunquismo. Perché il giudizio sembra ora cambiato? La spiegazione sta nel tramonto delle ideologie, nel venir meno della pretesa di rifare l’anima dei popoli.

Totò, a rivederlo oggi, col volto del ladruncolo di Guardie e ladri, ci mostra un’umanità dolente e, al tempo stesso, ricca e generosa, di cui non si teme più la sopravvivenza ma la possibile scomparsa: emblema di una umile Italia che, lungi dall’aver costituito la zavorra sulla via della modernizzazione, è stata la vittima secolare di invasori interni ed esterni. E’ l’Italia del piccolo capostazione di Piovarolo, che vede sfilare tutte le marce - fascisti, resistenti, Comitati Civici e, da ultimo, i “contestatori” - e ,lucidamente, se ne aspetta nuovi fastidi e angherie. Un abisso la separa dall’arte di arrangiarsi - impersonata dal grandissimo Albertone nazionale -che è arte di caporali, è destrezza nel salire, di soppiatto, sul carro dei vincitori. Ciò che chiedono i personaggi interpretati dal principe de Curtis, al contrario, non è una livrea che consenta di partecipare al bottino ma che non ci siano bottini, che a ciascuno sia concesso di condurre una vita faticosa già senza la politica e le folle oceaniche (di destra e di sinistra). Tornare a Totò, dopo il secondo ’89, significa tornare al realismo, al senso della misura, al rispetto (quotidiano, senza solenni proclamazioni!) dell’altro, a quella tolleranza, radicata in un politeismo antico, che costituisce, da sempre, un antidoto efficace alle violenze delle guerre civili - da noi assai meno sanguinose che altrove, sia nel ’22 che nel ’45. E’ un’Italia di cui, per fortuna, stiamo imparando a non vergognarci più.

21 dicembre 2001

 
 

 

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