Le radici cristiane dell’Europa
di Card. Mario Francesco Pompedda
L’espressione “radici cristiane dell’Europa” è divenuta talmente comune
e diffusa, proprio nella sua letteralità, che merita anzitutto
soffermarsi sul significato della formula, che nasconde potenzialità
autentiche di comunicazione e stimolo, ma, nello stesso tempo, alcuni
pericoli, che vanno individuati per essere prontamente e adeguatamente
evitati. Il richiamo alle radici avviene solitamente nel contesto di uno
sviluppo, di un’evoluzione, che si vuole ordinata e armonica. Dopo una
sosta, prima di intraprendere un’altra parte di cammino, è prudenza
scegliere la direzione dopo aver considerato il tratto di strada già
compiuto dopo la partenza.
L’Europa, pertanto, che si richiama alle sue radici è un’Europa che oggi
appare ad un bivio, o forse più realisticamente, che appare alla ripresa
di un cammino, per molti versi nuovo. Si tratta di un cammino in cui
alla condivisione secolare di una cultura si aggiunge la previsione di
istituzioni comuni, chiamate a unire strutturalmente i popoli e a
manifestare, sostenere e incrementare l’unità culturale in unità
strutturale.
È del tutto comprensibile pertanto che l’Europa, in questa crisi di
crescita, si volga alle sue radici. Il passaggio che sta di fronte non
vuole essere, infatti, “rivoluzionario”, vale a dire cadere
nell’illusione deprecabile di un “nuovo inizio”, che permetta di
tranciare ogni legame col passato, anzi rinnegando o addirittura
“demonizzando” ogni semplice richiamo al passato stesso. Non c’è bisogno
di portare all’attenzione i danni e gli esiti di spiriti e intendimenti
rivoluzionari, vicini e lontani, che si sono manifestati anche in
Europa. Volgersi alle proprie radici è anche segno della volontà di
crescere. Il rifiuto della crescita “rivoluzionaria”, come accennavo,
non significa la possibilità, meglio, la velleità, di bloccare
l’evoluzione. L’illusione di poter fermare il tempo e vivere del proprio
passato, ancorché nobile, è smentita dal moto con cui gli altri corrono
e avanzano. Anche per l’Europa non è difficile ravvisare l’odierna
evoluzione verso forme di unità strutturale originata dal quadro di
riferimento mondiale, che ha subìto mutamenti e cambi di scena talmente
profondi, che avrebbero in prospettiva sommerso e superato un’Europa,
che fosse rimasta o avesse preteso di rimanere, ferma.
L’Europa nel magistero di Giovanni Paolo II
Tutto questo contesto richiede che il volgersi alle radici cristiane
dell’Europa sia dinamico. Non cioè la contemplazione statica della
nobiltà delle origini, ma il forte richiamo a corrispondenti
responsabilità nell’oggi. L’universalmente riconosciuta nobiltà delle
radici cristiane dell’Europa può essere conservata solo attraverso la
coltivazione amorevole di quelle stesse radici e l’espansione delle
medesime verso un humus ricco di energia e di vitalità. Tutto questo
implica, per parte di coloro che hanno a cuore le sorti dell’umanità e
dell’Europa, tutta l’attenzione e l’appoggio, perché le comunità
cristiane del Vecchio Continente siano vive, siano laboratori di nuove
esperienze di vita e di unità, innestate sulla fede viva nel Signore,
siano in se stesse istanze critiche di lettura e di prospettica
costruzione di una nuova società alla luce del perenne messaggio
evangelico: “Noi stiamo vivendo un momento eccezionale della storia
europea, che è per noi la storia della salvezza, il Kairòs. Una nuova
Europa si costruisce. Sta alle nostre responsabili libertà darle
un’anima”.
L’attenzione che dedichiamo all’alto magistero del Sommo Pontefice
sull’Europa è da ricollegare certamente alla responsabilità e
rappresentatività connesse alla figura del Romano Pontefice nella
cristianità. Non si può però omettere che nel caso del Sommo Pontefice
oggi regnante si aggiunga al primario titolo di autorità di Vicario di
Cristo e Pastore universale della Chiesa, un altro titolo, seppur di
carattere e natura diversi, di autorevolezza direi, su questo argomento:
il Papa, infatti, è universalmente riconosciuto come protagonista
dell’abbattimento di quel Muro che da oltre quarant’anni, prima ancora
di dividere Berlino, divideva dolorosamente l’unica Europa in due parti
avverse; divideva ingiustamente l’Europa a fronte di legami millenari di
fratellanza, intesa, condivisione e arricchimento culturale.
All’abbattimento di quel Muro (sì, perché di abbattimento si è trattato,
non di caduta), il Papa, a giudizio unanime di personalità di ogni
schieramento e ideologia, ha coscientemente e fattivamente contribuito,
per aver condiviso in maniera forte la radice comune (la fede cristiana)
e nello stesso tempo aver condiviso il dolore lancinante di appartenere
a quella parte dell’Europa destinata a rimanere tagliata fuori, nelle
intenzioni dei Gerarchi orientali, dalla linfa vitale dei valori umani
di libertà, che scaturiscono dalla radice cristiana europea.
La sua elezione al sommo pontificato è stata simbolicamente, ma
realmente (ce se ne sarebbe accorti in seguito), il primo colpo di
piccone a quell’innaturale Muro. In tal modo, il Magistero del Pontefice
aggiunge all’Ufficio sacro proprio la testimonianza personale. E se ciò
non muta l’autorità formale del magistero, incide profondamente nella
disponibilità di ascolto e nella forza di persuasione, in un tempo in
cui è sempre più evidente che gli uomini sono attratti da testimoni che
da maestri.
Concediamo perciò al Sommo Pontefice la confidenza e la franchezza dello
sfogo con cui ha manifestato l’amarezza che lo ha colto nel constatare
la mancata menzione del ruolo delle comunità dei credenti nella vita
della nuova Europa. Non a caso, il Papa ha avuto modo di affermare: “Non
senza una certa tristezza ho preso atto del fatto che fra gli
interlocutori che dovranno contribuire alla riflessione sulla
Convenzione istituita all’incontro di Laeken, le comunità di credenti
non sono state esplicitamente menzionate. La marginalizzazione delle
religioni, che hanno contribuito e ancora contribuiscono alla cultura e
all’umanesimo di cui l’Europa è legittimamente fiera, mi pare essere
insieme un’ingiustizia e un errore di prospettiva. Riconoscere un fatto
storico innegabile non significa assolutamente misconoscere l’esigenza
moderna di una giusta laicità degli Stati e, di conseguenza,
dell’Europa”.
La costruzione dell’Europa, che vuole corrispondere alle proprie radici,
deve da un lato assicurare un’abitazione fraterna ad una molteplicità di
uomini, che sono stati educati in culture lontane o addirittura
contrarie a quella europea, dall’altro non può rinunciare alla
delineazione di un proprio progetto, pena la tragica riduzione della
nuova Europa e delle sue nascenti istituzioni, a mero fenomeno
economico-finanziario: “Non si può considerare l’Europa solo come un
mercato di scambi economici o uno spazio per la libera circolazione
delle idee, ma innanzi tutto come una vera comunità di nazioni che
vogliono legare i loro destini, per vivere fraternamente nel rispetto
delle culture e dei percorsi spirituali, che non possono tuttavia
situarsi al di fuori del progetto comune o in opposizione a esso”.
Le linee di questo necessario e inesorabile progetto comune traggono
linfa viva per il suo fondamento e prospettive per la sua germinazione
da alcune conquiste del cristianesimo. Il Papa, anche senza una
trattazione sistematica, ha avuto modo di identificare, seppur
rapsodicamente, queste conquiste in alcuni gangli del messaggio
cristiano. È anzitutto a partire da Dio e, pertanto, dalla trascendenza
che si può comprendere un apporto originale del cristianesimo in Europa:
“Il messaggio della Chiesa riguarda Dio e il destino ultimo dell’uomo,
problemi che hanno caratterizzato al massimo grado la cultura europea.
In verità, come potremmo concepire l’Europa privata di questa dimensione
trascendente?”, si chiedeva il Pontefice di fronte al Parlamento di
Strasburgo.
Dalla presenza di Dio professata sorgono e germinano alcuni dei principi
fondamentali, di cui la fede cristiana e la Chiesa sono state portatrici
nel tessuto sociale e culturale europeo.
La fede cristiana in Dio creatore ha demitizzato il cosmo per renderlo
disponibile alla ricerca razionale dell’uomo, che nei confronti della
materia, del corpo e, più in generale, del creato, esplicita le sue
capacità, che lo fanno assomigliare al creatore. “Questa visione
positiva ha contribuito ampiamente allo sviluppo delle scienze e delle
tecniche da parte degli europei”5, premessa per quella sconfitta della
povertà e per quel raggiungimento del benessere economico, che attendono
di essere condivisi, secondo modi e forme progressive ed equilibrate di
solidarietà, con tutti i popoli e gli uomini. La certezza rivelata della
“persona, creata a immagine e somiglianza di Dio, nella quale si
riflette l’amore benevolo del Creatore e Padre di tutti”, conduce alla
convinzione che “ogni uomo, chiunque egli sia, qualunque sia la sua
origine o le sue condizioni di vita, merita un rispetto assoluto. La
Chiesa non cessa di ricordare questi princìpi alla base della vita
sociale”.
“La Chiesa afferma che nell’uomo c’è una coscienza irriducibile ai
condizionamenti che le pesano sopra, una coscienza capace di conoscere
la propria dignità e di aprirsi all’assoluto, una coscienza che è fonte
delle scelte fondamentali guidate dalla ricerca del bene per gli altri e
per sé, una coscienza che è il luogo di una libertà responsabile”. Si
raggiungono qui le radici di quell’Umanesimo che, probabilmente, è il
frutto più saporoso della cultura europea e il contributo più elevato
alla cultura umana. Un Umanesimo che ha subìto derive di fatto, in cui
anche i cristiani hanno avuto la loro parte.
Mi limito a ricordare la necessità storica contingente che ha portato
questi valori ad essere affermati, non senza intemperanze per la verità,
contro la struttura della Chiesa, nel cui seno pure erano nate e grazie
alla cui predicazione erano state assimilate. Mi limito a ricordare gli
immani drammi personali e sociali scaturiti da questa visione, una volta
privata del suo riferimento trascendente: chi oggi non deplora
l’assolutizzazione della razza o della classe, con le ideologie
connesse, che in Europa hanno trovato la loro origine e seminato guerra
e odio in tutto il mondo, anche se pure in Europa è stata presente una
lunga e coraggiosa resistenza a questi fenomeni divenuti regimi e Stati,
anche da parte della Chiesa?
L’attuale stagione ha visto germinare da quella radice umanistica
segnali di grande speranza. Mi riferisco alla democrazia: “È un onere
delle democrazie ricercare un’organizzazione della società in cui la
persona non soltanto sia rispettata per quello che è, ma partecipi
all’operato comune esercitando la sua libera volontà”8. Chi non conosce,
al riguardo, gli studi che riconnettono le dinamiche democratiche
sperimentate già nell’Umanesimo e Rinascimento, con l’esperienza
ecclesiastica, per esempio, dei capitoli dei grandi Ordini religiosi? Mi
riferisco ancora alla definizione e proclamazione dei diritti
fondamentali dell’uomo. “È nell’humus del cristianesimo che l’Europa
moderna ha attinto il principio – sovente perso di vista nel corso dei
secoli di “cristianità” – che governa in modo più fondamentale la sua
vita pubblica; mi riferisco al principio, proclamato per la prima volta
da Cristo, della distinzione fra “ciò che è di Cesare” e “ciò che è di
Dio” (Matteo, 22,21)”.
Prima ancora. O se vogliamo, contemporaneamente alla fondazione della
distinzione fra Chiesa e Stato, fra comunità politica e comunità
ecclesiale, l’originale principio evangelico sopra menzionato comporta
che “dopo Cristo, non è più possibile idolatrare la società come
grandezza collettiva divoratrice della persona umano e del suo destino
irriducibile. La società, lo Stato, il potere politico appartengono al
quadro mutevole e sempre perfettibile di questo mondo […] Le strutture
che la società si danno non valgono mai in modo definitivo; esse non
possono neppure procurare da sole tutti i beni ai quali l’uomo aspira.
In particolare, non possono sostituirsi alla coscienza dell’uomo, né
alla sua ricerca della verità e dell’assoluto”.
Non ci è lecito, nel nostro discorso, evitare una questione più puntuale
e precisa: quale l’apporto in ambito giuridico della radice cristiana
alla cultura europea? Non sarebbe difficile ripercorrere l’evoluzione
della maggior parte degli istituti giuridici, oggi comunemente
conosciuti e presenti negli ordinamenti giuridici europei, per
accorgersi e mostrare lo stretto dialogo e il reciproco influsso del
diritto romano e del diritto canonico, soprattutto in epoca medievale.
Ognuno che abbia anche solo compiuto gli studi curricolari universitari
ricorda i dibattiti medievali tra civilisti e canonisti in ordine, per
esempio, al concetto e all’applicazione dell’aequitas o ai presupposti
della prescrizione. Non sarebbe parimenti difficile notare il
contemporaneo fiorire degli studi di diritto romano, descritti con toni
di leggenda attraverso il racconto della scoperta del Digesto di
Giustiniano in epoca medievale, che completava la conoscenza del Corpus
Iuris Civilis, con l’introduzione nelle università dello studio dei
sacri canones con il progressivo formarsi del Corpus Iuris Canonici.
Il concetto di persona
Ma se ci si va a interrogare sui valori fondamentali che hanno
costituito la società europea che sta camminando verso un traguardo che
si profila a medio termine e cioè l’Europa occidentale giuridicamente e
politicamente unificata, la risposta si trova in una “cultura comune” o
in “un sistema di valori sostanzialmente identici” che converge sempre
più in quel valore che nelle diverse culture europee deve essere
considerato il proprio valore centrale, cioè la persona. “L’Europa ha
bisogno di riscoprire e di prendere coscienza dei valori comuni che
delinearono la sua identità e che sono parte della sua memoria storica.
Punto focale del nostro comune retaggio europeo – religioso, giuridico e
culturale – è la dignità, straordinaria e inalienabile, della persona
umana”.
Parlando di persona si intende soprattutto qui parlare dell’uomo come
fonte e soggetto di diritti che attengono al suo carattere umano e
razionale e che sono perciò intoccabili e inalienabili, quale che sia la
condizione in cui egli, temporaneamente o stabilmente, si viene a
trovare: diritti che sono di varia natura – politici, sociali, economici
– ma sui quali emergono il diritto alla vita, dal concepimento fino alla
sua fine naturale, il diritto alla libertà, intesa non come facoltà di
fare quello che si vuole o quello che più piace, non solo al di là di
ogni norma morale, ma anche senza tener conto dei diritti degli altri,
bensì come facoltà di disporre di sé secondo la propria coscienza:
quindi il diritto alla libertà di coscienza, particolarmente in campo
religioso. Hegel notava che nel dispotismo orientale, uno solo era
libero; nella democrazia antica, alcuni lo erano; con il cristianesimo,
tutti sono liberi. Certo, le guerre di religione in Europa,
l’assolutismo dei sovrani e la spartizione in aree confessionali (cuius
regio eius religio) hanno prodotto una tale confusione che molti hanno
creduto che la conquista della libertà dovesse passare attraverso
l’abbattimento della tirannia della Chiesa, della fede e della verità.
L’idea di libertà è l’eredità più nobile della tradizione occidentale,
il supremo valore che si è ereditato dal nostro passato culturale,
storico e religioso. Si tratta della libertà dello spirito, che è la
libertà della persona. La categoria della persona è il contributo più
originale e più specifico che il pensiero cristiano abbia offerto
all’edificazione dell’umanesimo (giuridico) europeo. “Non ci sono dubbi
che alla base dell’Europa degli uomini c’è l’immagine dell’uomo che la
rivelazione cristiana ci ha lasciato e che la Chiesa cattolica continua
ad annunciare e a servire. Si tratta dell’uomo nella sua piena verità,
in tutte le sue dimensioni, dell’uomo concreto, storico…”. Questa
categoria centrale è stata forgiata nei primi secoli dell’era cristiana
dalla grande teologia, tesa a cercare e trovare uno statuto di fede ai
dogmi della Trinità e della Cristologia. Ma essa, in seguito, pur
attraverso un percorso accidentato e nel quale altri protagonisti hanno
efficacemente collaborato, ha posto le basi per quel riconoscimento
della dignità unica e irrepetibile dell’essere umano, che rappresenta
uno dei valori fondamentali della cultura europea, e ha plasmato
profondamente lo sviluppo dell’organizzazione sociale e politica del
continente.
“I costruttori della Casa europea dispongono dell’immagine dell’uomo che
il cristianesimo ha inculcato nell’antica cultura del continente […] il
concetto dell’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio non è,
quindi, un reperto da museo, ma rappresenta la chiave di volta per
l’Europa odierna […]”. La nozione di persona, nella sua nascita e nella
sua successiva elaborazione, evidenzia una sorta di strutturale circolo
ermeneutico fra il suo significato propriamente teologico e il suo
significato antropologico. Ciò significa che storicamente il terreno su
cui è stato ri(elaborato) il concetto di persona e in cui si è
rafforzato e strutturato e poi diffuso, è collocato nello sforzo del
primo cristianesimo di comprendere razionalmente il duplice mistero
rivelato ossia come sarà poi appunto espresso, la Trinità di Dio, come
unica natura in Tre Persone, e Cristo Gesù, in cui due nature sono
presenti nell’unica Persona.
Da quel momento storico, in cui questa riflessione ha incominciato a
manipolare i termini di ypòstasis, pròsopon, substantia, natura e
persona, si è dato avvio a un circolo ermeneutico in cui, si noti bene,
più movimenti sono contemporaneamente presenti e reciprocamente
influenzantisi: il movimento che va dalla Rivelazione cristiana su Dio
(teologia) alla scoperta della natura dell’uomo (antropo-logia); il
movimento che va dalla esperienza dell’uomo (antropo-logia) al guadagno
di criteri di intellezione del mistero divino (teo-logia). Non l’uno
senza l’altro. Lo afferma icasticamente San Tommaso d’Aquino là dove,
coerentemente con il suo metodo moderno di costruire la teologia,
precisa: “Il concetto di persona se lo si prende quanto a significato,
precedentemente e in modo più reale è in Dio che nelle creature, per cui
di queste ultime può essere predicato analogicamente; ma quanto a
maniera con cui significa e alla denominazione, conviene più da vicino
alle creature”.
Da questo punto di vista, ossia dalla constatazione del circolo
ermeneutico accennato, che non può essere interrotto in nome di una
conclusa ricerca, scaturisce una lettura dinamica dell’attuale contesto
culturale europeo. L’approfondimento giuridico e filosofico della
persona, soprattutto nelle sue dimensioni di autocoscienza, di storicità
e di intersoggettività, è, da un lato, la logica e naturale prosecuzione
(per inerzia, se piace questa immagine di fisica meccanica) della
propulsione inferta alla riflessione dalla teologia cristiana;
dall’altro, è il dato in cui la riflessione teologica cristiana attuale
deve leggere, perché nessuna esperienza autenticamente umana può essere
tralasciata per la comprensione del mistero divino e del progetto di Dio
sulla storia; dall’altro ancora, è un’implicita, ma reale richiesta di
un apporto originale della riflessione cristiana per sorreggere e
accompagnare un’esperienza che, in sé, come ci insegna la storia anche
recente, contiene i germi della contraddizione ed è, insieme, aperta
all’imprevedibile irruzione e alla sorprendente fecondità della
Rivelazione divina.
Solo una concezione corretta della persona umana e della sua dignità di
creatura intelligente, libera, creativa, immortale, e che ha ricevuto
fin dall’inizio il soffio vitale e lo Spirito di Dio, può far
comprendere che ogni autentica autonomia trova il suo fondamento nella
teonomia, perché solo Dio può essere l’orizzonte in cui l’uomo può
scoprirsi libero e autonomo. La persona di cui qui si tratta è ogni
persona. Un umanesimo, che non sia universale, contiene in sé i germi
della sua negazione. Il riconoscimento della dignità personale di ogni
uomo, oltre le nobili conquiste delle dichiarazioni ufficiali e il
continuo progresso della giurisprudenza, anche delle Corti europee,
soprattutto della Corte europea per i diritti dell’uomo, si svolge
naturalmente in una dinamica di solidarietà.
L’Europa delle persone e dei popoli
“La solidarietà ci aiuta a vedere l’ “altro” – persona, popolo, o
nazione – non come uno strumento qualsiasi, per sfruttarne a basso costo
la capacità di lavoro e la resistenza fisica, abbandonandolo poi quando
non serve più, come un nostro “simile”, un aiuto (cfr. Genesi: 2,
18-20), da rendere partecipe, al pari di noi, del banchetto della vita,
cui tutti gli uomini sono egualmente invitati da Dio”. È riconoscibile
chiaramente in questo una frontiera della Nuova Europa verso una
fraternità più vasta, una vocazione dell’Europa che la pone in relazione
con altri continenti e culture, che si attendono una testimonianza e
un’apertura. Il discorso sulla dignità della persona, quale proprium
della cultura europea, cui ha dato decisivo impulso la fede cristiana,
non sarebbe completo se non facessimo menzione di un ulteriore
contributo che la Chiesa, attraverso il percorso accidentato e non
sempre coerente dei secoli, ha offerto all’Europa.
Non intendo qui riferirmi direttamente alla nozione stessa di Europa
che, secondo alcuni autori, risalirebbe a precisi testi patristici.
Intendo piuttosto riferirmi alla variegata esperienza ecclesiale intesa
come esperienza di comunione, di comunità, di assemblea (questo è
etimologicamente il significato di ekklesìa), che perciò inesorabilmente
ha teso a raccogliere in un consorzio, animato e fondato sulla fede
cristiana ed evangelica, uomini e donne di provenienze, estrazioni,
culture e lingue diverse. Non è da sottovalutare questo aspetto reale
(sarei tentato di dire, sociale), che non si formalizza in riflessioni e
teorizzazioni, ma la cui forza di persuasione e di convinzione proviene
dalla esperimentazione riuscita di una convivenza pacifica e
finalizzata. La Chiesa come comunità è stata propedeutica ad una
convivenza in cui individui, divisi da numerose ragioni e dati di fatto,
scoprivano la ragione (ratio) di una sinergia nella condivisione della
fede, rimandando perciò in secondo piano le differenze, per esaltare il
nucleo di condivisione.
Nella Dichiarazione della I Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi
sull’Europa, tra i valori fondamentali per l’umanità, che il
cristianesimo ha impressi nella coscienza dell’Europa, accanto all’
“idea di un Dio trascendente e sovranamente libero, ma anche
definitivamente entrato per amore nella vita degli uomini con
l’incarnazione e la Pasqua del suo Figlio e al concetto nuovo e centrale
della persona e della dignità umana”, si colloca in primo piano “la
fondamentale fraternità umana come principio di convivenza solidale
nella stessa diversità degli uomini e dei popoli”.
Se volessimo rilevare la prova storica di questo contributo, potremmo
indicare soprattutto due aspetti della funzione maieutica che la Chiesa
ha svolto verso l’Europa, come soggetto unitario e autonomo.
L’incontro di civiltà
Mi riferisco anzitutto alla funzione di fusione o assimilazione che la
Chiesa ha favorito, promosso e realizzato fra culture diverse o, forse
meglio, fra popoli diversi in Europa. La fede cristiana è stata come la
fornace in cui l’eredità antica greca e latina, le singolarità
ancestrali e ataviche dei popoli celtici, germanici, slavi e
ugro-finnici, assieme con la cultura ebraica e con il concorso
dell’Islam, si sono fecondate reciprocamente, in modo tale che una nuova
civiltà veramente ricchissima vi abbia trovato la sua origine. La Chiesa
è stata innanzitutto, in questo processo lento e graduale, la
conservatrice e la trasmettitrice gelosa dell’antichità classica. Non
v’è ragione che qui ricordi lo zelo degli amanuensi delle antichissime
abbazie monastiche nel trascrivere codici dell’antichità pagana: ciò ha
permesso, prima che la nostra conoscenza di quei testi, altrimenti
inesorabilmente perduti per sempre e per tutti, l’assimilazione e la
rinascita della medesima altissima cultura che precedette storicamente
l’avvento del cristianesimo.
La Chiesa poi è stata l’istituzione che, per natura propria, non per
circostanze fortuite e contingenti, ha invitato i popoli barbari alla
mensa della civiltà classica, non come meri ospiti, ma come
interlocutori. Come avrebbero potuto immaginare i popoli barbari
provenienti dai confini geografici dell’Europa, intimoriti dalla
raffinatezza delle costruzioni sociali della romanitas e nello stesso
tempo affascinati dalle istituzioni imperiali romane, di poterne
diventare gli eredi, se non fossero stati introdotti nel dialogo
culturale con l’antica Roma grazie alla condivisione nella Chiesa della
stessa fede? E come avrebbero potuto pensare i medesimi popoli barbari
di poter trasmettere il loro proprio patrimonio culturale e umano, non
già attraverso la predominanza delle armi che distrugge l’avversario e
la sua cultura, ma attraverso l’innervamento vivo dei loro valori nella
tradizione dell’humanitas classica, se non attraverso l’incorporazione
nella medesima societas christiana, stretta attorno al vangelo e al
Vicario di Cristo, il Pontefice di Roma? Non sarebbe avvenuto questo
feceondo matrimonio, se la Chiesa non fosse stata pronuba. Non vi
sarebbe stato questo parto prodigioso, se la Chiesa non avesse svolto
destramente e convintamente la funzione di levatrice.
E la Chiesa potè essere pronuba e levatrice, perché non portatrice di
una propria cultura e di propri interessi concorrenti e contrapposti
simmetricamente a quelli delle culture e civiltà, che si trovavano sotto
la minaccia dello scontro, dell’annientamento reciproco o
dell’unilaterale prevalere. La Chiesa si pose, perché lo era realmente,
dalla parte dell’uomo, semplicemente creatura di Dio, precedente perciò
e superiore ad ogni interesse di parte. La fede evangelica fu il metallo
che propiziò la lega fra i diversi materiali delle culture che si
affacciavano in Europa. Ne rimase evidenziata la priorità dell’uomo,
della persona su ogni ideologia. È fonte di emozione ascoltare uno
storiografo degli inizi del V secolo che prefigura l’universalità
propiziata in forma originale della Chiesa, per contrasto con la
prospettiva, sperimentata al volgere dell’Impero romano preda di popoli
barbari, di una particolarità conflittuale.
Lo ius commune
L’incontro fra culture propiziato dalla Chiesa ha conosciuto
un’originale frutto nella formazione di quella singolare esperienza
giuridica che è costituita dallo ius commune. Si tratta, secondo la
diffusa propensione medievale alla reductio ad unum, dell’unitaria
comprensione del diritto nella sua forma universale. Esso conteneva
l’utrumque ius, privo delle polarizzazioni attuali, ossia il diritto
universale che regge le res materiales (Illud Romanorum ius quod civile
commune dicitur e il diritto parimenti universale che regge le res
spirituales (ius canonicum commune). L’uno e l’altro contenenti i
princìpi generali destinati ad esprimere l’universale non tanto in senso
geografico, ma piuttosto in senso trascendente. Lo ius commune è,
infatti, universale, perché strettamente connesso e derivato dallo ius
naturale e dallo ius gentium e, pertanto, in grado di applicarsi ovunque
perché proprio di ogni uomo.
Bisogna riconoscere che parte del diritto romano sopravvisse, oltre che
nel diritto popolare germanico, soprattutto nel diritto vivente della
Chiesa, il diritto canonico. Questo sistema di diritto, così come sorto
e strutturato alla fine dei secoli XI e XII, ha rappresentato il primo
sistema giuridico occidentale moderno.
La natura specifica universale dello ius commune, facilitata nella sua
coscienza e vigenza dalle rappresentazioni dell’Imperatore e del Romano
Pontefice, ossia dal potere politico e spirituale a dimensione
universale, appare in rapporto dinamico con lo ius particulare o,
meglio, gli iura particularia. Non si tratta di un’universalità che
schiaccia le particolarità delle persone e dei luoghi, ma che si pone in
rapporto dialettico con i medesimi. Era infatti denominato commune di
fronte ai diritti degli ordinamenti particolari viventi nel suo seno
(iura propria). Non può ritenersi casuale che la stessa teoria degli
“enti intermedi”, attraverso la dottrina delle persone giuridiche
(personae fictae), sia stata sviluppata, anzi intrapresa, soprattutto
dal diritto canonico.
Né la rottura dell’unità di regime universale sotto l’Imperatore e la
conseguente nascita degli Stati sovrani né la frattura della Chiesa in
Occidente con la Riforma protestante riusciranno a spezzare il cerchio
dello ius commune. Esso sopravvive e, mi si consenta, sopravvive tuttora
in almeno due forme giuridiche attuali. Certamente nella dottrina,
incarnata dalle dichiarazioni solenni e da un progressivo estendersi
giurisprudenziale, nella dottrina dei diritti umani, che non patiscono
soluzioni di continuità nell’attraversare linee di confine che
pretendono di delimitare sovranità statali.
Ma anche sopravvive nella nobile forma di ius suppletorium. A quali
normative e contenuti fa riferimento infatti l’espressione “generali
princìpi del diritto” che, frequentemente ricorre negli ordinamenti
civili in relazione alla previsione sulle lacunae iuris? Lo studio
dell’evoluzione di questa normativa evidenzia per la verità una parabola
che dal Code Napolèon, il più drastico nel tentare una cesura con il
regime precedente, attraverso il Codice civile austriaco, del 1811, il
Codice civile italiano e il Codex Iuris Canonici del 1917, che
recuperano significativamente in forme diverse le ragioni di un diritto
suppletorio estrinseco, giunge al Codice civile italiano vigente, in cui
tale natura suppletoria è oggettivamente indebolita. Nondimeno non solo
gli echi, ma molto più la logica giuridica soggiacente, richiama
efficacemente al pluralismo giuridico, rispettoso di persone fisiche e
giuridiche, eredità dello ius commune.
Conclusioni
Mentre il nostro continente si appresta a divenire un’unità, da
solamente geografica, anche giuridica e politica, la dignità della
persona è minacciata da interessi e ideologie che ripropongono sotto
forme nuove schiavitù antiche, che si potevano immaginare
definitivamente superate; che innalzano barriere giustificate da
appartenenze e provenienze di singole persone ospiti delle nostre
comunità sociali. Di fronte a queste sfide i valori ereditati dalla
grande tradizione cristiana appaiono indeboliti, in molti casi resi
anonimi e privati del loro fondamento, “secolarizzati”, come si dice,
nel migliore dei casi. A questo riguardo Romano Guardini denunciava il
“doppio gioco che da un lato rifiuta la dottrina e l’ordine cristiano
della vita e dall’altro rivendica a sé le conseguenze umane e culturali
di quella stessa dottrina”.
Certo le nazioni d’Europa, nate dalla reciproca interazione all’interno
della cristianità occidentale, sono divenute sempre più distanti le une
dalle altre a partire dal diciannovesimo secolo, a causa anche di una
storiografia nazionalista, che sostiene la disintegrazione di un’eredità
comune europea in campo giuridico. Nondimeno la speranza deve prevalere.
La valenza cristiana di tutti questi valori si è immersa in tanti rivoli
di roccia carsica nella terra e nella montagna della storia, della
filosofia, della politica, dell’economia, e zampilla all’improvviso in
tanti punti diversi della cultura europea. La Chiesa non rivendica
diritti d’autore sui valori che, nati nel suo grembo, si presentano oggi
sulla scena sociale quasi come autonomi o originari, proprio appunto
come un fiume carsico riappare dopo un lungo percorso sotterraneo, senza
però tradire la sua origine a monte. La richiesta, di cui si è fatto
interprete forte e autorevole Giovanni Paolo II, di una rappresentazione
nella Carta costituzionale dell’Europa dell’esperienza religiosa
cristiana nelle comunità ecclesiali, risiede nella coscienza che non
troppo a lungo potrà durare il beneficio dell’acqua di un fiume carsico,
se non se ne riconoscono, proteggono e alimentano le sorgenti a monte.
Vorrei terminare il mio intervento proponendo un’immagine plastica che
descriva questo connubio tra Europa e cristianesimo: il duomo di
Strasburgo. Di questa cattedrale nel cuore dell’Europa unita sono
caratteristici tre elementi, che, peraltro, non è rarissimo riscontrare
in altre cattedrali europee: l’orologio astronomico, la spoliazione
degli ornamenti e l’incompletezza di una torre campanaria. L’orologio è
simbolo di come la Chiesa abbia nel passato segnato il tempo e le
stagioni, scandito le date della storia. La spoliazione delle oltre
duecento statue, che abbellivano il duomo, al tempo della Rivoluzione
francese è il segno di una bufera della storia che ha scosso la Chiesa,
ma non riuscì a tagliarne le radici né a distruggerne le strutture
portanti. La torre incompiuta dice di una missione tuttora in corso.
“Sì, il momento è proprizio – invita Giovanni Paolo II – per raccogliere
le pietre dei muri abbattuti e costruire insieme la casa comune”.
(da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)
|