L’espansione dello “spazio Europa”
di Henri Froment-Meurice

Sia ben chiaro, sin dall’inizio, che, ovviamente, per “Europa” non si intende il continente che porta questo nome da vari secoli e che probabilmente lo porterà ancora a lungo, a meno che non scompaia improvvisamente a causa di una catastrofe geologica, ecologica, epidemiologica o altro! Il fatto che sotto questo nome si intenda ormai l’Unione europea prova che questa organizzazione di Stati, vagheggiata da alcuni utopisti, sebbene così contraria alla storia di un continente più abituato alla guerra che alla pace, si è imposta tanto da far sì che sia subito chiaro di cosa si sta parlando. È quindi il segno di un gran successo, attestato da alcune realizzazioni, a pensarci bene, davvero stupefacenti: quindici Stati, che vivono in pace da cinquant’anni, a cui se ne sono aggiunti altri otto che, fino a ieri, erano loro avversari ideologici; istituzioni comuni ideate appositamente per proporre, decidere democraticamente e mettere in atto politiche comuni, se non addirittura uniche, come una tariffa doganale comune verso l’esterno, prezzi agricoli unici, un mercato unico, una moneta unica, a volte azioni comuni di carattere diplomatico, se non persino militare, uno spazio interno di sicurezza gestito sempre più in comune e, ben presto, a coronamento del tutto, una “Costituzione” comune. Di conseguenza, chiedersi in questo preciso momento se sia arrivata la fine dell’Europa rischia di sembrare non soltanto paradossale, se non iconoclasta, ma soprattutto anacronistico.

Da un tale rimprovero ci si può difendere sottolineando come la parola “fine” sia suscettibile di un’interpretazione spaziale: lo spazio coperto dall’Unione europea, dopo quest’ultimo allargamento, ha raggiunto la sua fine, il suo limite estremo? Ovviamente la risposta è no. La macchina inglobante continuerà ad inglobare. Le resistono ancora tre Stati che, ad Occidente, rispondono, forse persino meglio di altri diventati già membri, ai criteri tradizionali di “democrazia” ed “economia di mercato”: la Norvegia, che sembra preoccuparsi per il suo merluzzo, la Svizzera, che continua ad avere problemi, secondo ciò che si dice, a causa non tanto della sua “permanente” neutralità quanto dei suoi ingenti conti bancari, e l’Islanda. È tuttavia facile prevedere che la loro riluttanza è destinata a venir meno. Moltissimi altri Stati, invece, desiderano venire inglobati. Tra i primi della lista spiccano Romania e Bulgaria, le uniche due ex “democrazie popolari” finora ancora escluse. Candidate da tempo, ormai, la loro ammissione è in programma e, salvo incidenti di percorso, tra quattro o cinque anni faranno salire a ventisette il numero dei membri dell’Unione europea.

Il turno dei Balcani?

Ci fermeremo lì? Certamente no. Arriverà anche il turno degli Stati balcanici, nati dall’ex Jugoslavia. Dal momento che la Slovenia, sfuggita alle lotte intestine grazie alla sua popolazione omogenea, è già stata inglobata, si tratta della Macedonia (proclamata, per non contrariare la Grecia, “ex Repubblica jugoslava di Macedonia”, Fyrom per gli anglo-americani), della Croazia, dell’attuale Repubblica federale di Jugoslavia (a meno che anch’essa non si disgreghi in tre entità indipendenti, Serbia, Montenegro e Kosovo), della Bosnia-Erzegovina e dell’Albania, ossia sei nuovi membri. La strada verso l’integrazione sarà lunga e difficile, data la portata degli ostacoli da superare: l’odio tra serbi e albanesi; il rispetto delle minoranze, un po’ dappertutto; l’esasperazione dei nazionalismi, troppo spesso affiancati dall’ostilità che impera tra cattolici ed ortodossi, cristiani e musulmani; la difficoltà a dimenticare i massacri; il dilagare della corruzione; il passaggio palesemente lento alla democrazia e ad un’economia di mercato; il costo della ricostruzione delle infrastrutture; il ritorno o la sistemazione dei rifugiati. Ma una cosa è certa: tutti desiderano vivamente venire inglobati e non restare esclusi, come una sacca di miseria, violenza e mafia, ai margini di un’Europa pacificata ed organizzata.

Si tratta di un cantiere di cui l’Unione europea ha il dovere di occuparsi con crescente attenzione. Ha iniziato ad investirvi somme ingenti e ad assumersi varie responsabilità in materia di difesa militare, sicurezza e amministrazione: un comportamento normale, se si considera che tutte queste popolazioni manifestano chiaramente una netta propensione all’integrazione in Europa, pari a quella dimostrata dai membri ammessi più di recente. Sono stati impregnati di civiltà greca e romana, possiedono alcune chiese ed alcuni monasteri tra i più antichi della cristianità europea e, persino sotto l’occupazione ottomana, sia gli slavi che gli albanesi hanno saputo proteggere così bene la propria identità, seppure clandestinamente, che essa è poi esplosa, contribuendo al riflusso degli occupanti turchi. La serie di esplosioni che ha trasformato la regione in una “polveriera” non è ancora terminata, ma una constatazione del genere non può che spronare l’Unione a partecipare ancora più attivamente alla pacificazione e alla ricostruzione dei Balcani, parte integrante della civiltà europea. In poche parole, alla fine di questo processo, probabilmente nel secondo decennio di questo secolo, l’Unione conterà tra i quattro e i sette nuovi membri.

Tra di loro, l’Albania, la Bosnia-Erzegovina e forse il Kosovo, se diventa indipendente, presentano una popolazione a grande maggioranza musulmana. Sarebbero quindi i primi con una tale caratteristica ad essere inglobati dalla macchina europea. Questo andrebbe forse a modificare la natura dell’Unione? Certamente no, poiché una forte minoranza degli albanesi è cristiana, cattolica (Madre Teresa) e ortodossa, ed i bosniaci, nonostante l’insidiosa attività di propaganda che organizzazioni integraliste islamiche extraeuropee svolgono all’interno delle loro comunità musulmane, rimangono ben inseriti nella civiltà europea. Una volta pacificata l’intera regione, la macchina inglobante compirà la propria opera.

La questione turca

Sarà questa la fine dello “spazio-Europa”? Tocchiamo qui la questione, ormai ampiamente dibattuta, delle frontiere dell’Europa, o, più precisamente, dell’Unione europea. Dal punto di vista geografico, l’Europa termina ad Est con gli Urali e a Sud con il Bosforo. Tutto ciò che si trova all’interno di questo spazio possiede i requisiti necessari per diventare membro dell’Unione europea? Teoricamente sì, poiché, secondo l’articolo O del Trattato, “ogni Stato europeo può domandare di diventare membro dell’Unione”. Ed è chiaramente su questa base che la Turchia ha presentato la propria candidatura e che essa è stata accettata.

Su questo punto si è aperto un accesissimo dibattito, per lo meno in Francia. L’autore di questo articolo si schiera al fianco di coloro che ritengono un errore il fatto di aver accettato la candidatura della Turchia, per il motivo fondamentale che la Turchia non è uno Stato europeo a tutti gli effetti. Per diventarlo, infatti, non le basterebbe riuscire a soddisfare i criteri abituali (rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, delle minoranze, ecc.). Il nocciolo del problema è che la Turchia non fa parte della civiltà europea, non tanto perché la sua popolazione è di religione musulmana, quanto perché, a prescindere dalle diverse opinioni in merito, fa parte del mondo orientale. Dovrebbe seguire la sua vera vocazione, ossia quella di esercitare la propria influenza, che può rivelarsi estremamente benefica, sia nel Vicino e Medio Oriente che in Asia Centrale, invece di volersi tuffare negli affari europei, da cui, del resto, il suo fondatore, Kemal Ataturk, era riuscito a svincolarla. Ciò premesso, la tendenza attuale, per lo meno per quanto riguarda i governi dei Quindici, le è piuttosto favorevole. Tuttavia tali governi farebbero bene a pensarci due volte prima di decidere che l’Unione debba avere frontiere in comune con l’Iran, l’Iraq e la Siria. Chiariamo una volta per tutte che lo spazio dell’Unione europea e quello della Nato non devono necessariamente sovrapporsi, poiché si tratta di organizzazioni con vocazioni diverse.

L’ex Unione Sovietica

Pur supponendo che la macchina inglobante si blocchi prima di arrivare al Bosforo, resta da definire fino a dove potrebbe o dovrebbe avanzare nello spazio dell’ex Unione Sovietica. Ha già assorbito le tre Repubbliche baltiche e sarebbe ragionevole che facesse altrettanto con la Moldavia, sia che essa rimanga indipendente ed unita, sia che venga annessa alla Romania, a costo di separarsi dalla Transdniestria russofila. La macchina inglobante non ha invece né motivo né interesse ad avventurarsi fino alle Repubbliche indipendenti del Caucaso, siano esse cristiane (Georgia, Armenia) o musulmane (Azerbaigian).

La macchina europea viene tuttavia colta da forte perplessità quando raggiunge le frontiere di quei tre grossi brandelli di ex Unione Sovietica che sono l’Ucraina, la Bielorussia e la Federazione russa. Questi popoli slavi sono europei quanto i loro vicini immediati (scandinavi, polacchi o rumeni). Da secoli partecipano alla civiltà dell’Europa, alla sua cultura e alla sua spiritualità cristiana e costituiscono parte integrante della sua evoluzione politica. Eppure la macchina esita, perché, pur supponendo che questi Stati, un giorno lontano, riescano a soddisfare i criteri tradizionali e le loro popolazioni desiderino entrare a far parte dell’Europa unita, sarebbe saggio proiettare l’Unione in quegli spazi vertiginosi che la condurrebbero fino al Pacifico, ai confini con la Cina, con la Corea del Nord e, a Sud, con l’Afghanistan e l’Asia Centrale? Perché fermarsi alla Bielorussia e all’Ucraina, diventate democratiche, e rifiutare la Russia, se per caso desiderasse unirsi all’Unione?

Anche se un russo di Vladivostok è russo, e quindi europeo, quanto uno di San Pietroburgo1, sarebbe ragionevole bloccare la macchina inglobante alle frontiere europee dell’ex Unione Sovietica, facendo eccezione per le tre Repubbliche baltiche, già sulla strada dell’integrazione, e la Moldavia. Al di là di tali frontiere, Bielorussia, Ucraina e Federazione russa sono certamente Stati europei per quanto riguarda la maggioranza delle loro popolazioni, la loro cultura, la loro religione ed il loro slavismo. Lo sono cento volte più della Turchia. Pertanto la loro integrazione nell’Unione europea non pone certo un problema di natura. È piuttosto una questione di peso: uno spostamento esagerato verso Est del centro di gravità dell’Unione europea spezzerebbe degli equilibri già difficili da mantenere in uno spazio che, verso il 2020, probabilmente si estenderà dalla Brest francese alla Brest bielorussa, dalla Finlandia a Cipro, con una popolazione di circa 500 milioni di individui suddivisi in quelli che saranno forse trentacinque Stati. Ammettiamo quindi che la fine fisica dell’Unione europea corrisponderà alla linea di confine che la separerà da questi tre grandi Stati slavi dell’Est, il che non le impedirà certo di rinforzare il più possibile i legami con loro.

Si tratta dunque di sapere se in questo spazio-Europa può instaurarsi un potere in grado di sancire un certo livello di organizzazione e, in funzione delle competenze attribuitegli, di concepire, decidere e mettere in atto delle politiche comuni, se non addirittura uniche, obiettivo minimo fissato all’inizio della costruzione europea, oppure se l’estensione spaziale dell’Unione europea, per effetto tanto del numero che dell’aumentata diversità delle situazioni e degli interessi, arriverà ad impedire il raggiungimento di tale obiettivo o a permetterlo solo in parte, esclusivamente nell’ambito di alcune politiche comuni. In poche parole, lo spazio-Europa rende impossibile la potenza-Europa?
La risposta si colloca su due piani: da un lato, quello delle competenze attribuite all’Unione e, dall’altro, quello delle istituzioni destinate a gestire tali competenze.

Quali competenze

Dall’analisi dei cinquant’anni trascorsi dall’inizio della costruzione europea si può concludere che l’Europa ha sempre teso ad attribuirsi un numero crescente di competenze, che, a seconda della loro natura, non sono state gestite in maniera molto uniforme dal punto di vista istituzionale, mentre il grado di integrazione degli strumenti nazionali di gestione all’interno di quelli comunitari è stato variabile. Quali sono dunque le competenze che, in un’Europa a venticinque o trentacinque, possono essere gestite da strumenti di questo tipo?

Dovrebbe sicuramente essere possibile estendere la tariffa doganale comune verso l’esterno alla totalità dello spazio europeo e gestire la politica commerciale dell’Unione come viene fatto attualmente. Dovrebbe anche continuare ad esistere un budget comune, ma la possibilità di finanziamento delle politiche comuni dipenderà in gran parte dalla consistenza di tali risorse. Alcune competenze possono essere esercitate in modo comunitario senza andare ad intaccare il budget dell’Unione. Lo stesso vale anche per l’insieme delle politiche che mirano alla promulgazione di regolamenti comuni. L’integrazione in questi settori dipende quindi da decisioni che rientrano nel campo dell’applicazione del principio di sussidiarietà: quali politiche saranno di competenza esclusiva dell’Unione, di competenza comune dell’Unione e degli Stati o di competenza unicamente nazionale? È molto probabile che sullo spazio massimo possano prevalere regole comuni sia in materia di concorrenza, dumping e aiuti concessi dai singoli Stati, sia per quanto riguarda alcuni aspetti dei regimi fiscali, della salvaguardia dell’ambiente, della tutela dei consumatori e, in maniera generale, di tutto ciò che contribuisce alla realizzazione del mercato unico.

Al contrario, le politiche comuni che richiedono importanti finanziamenti rischiano in futuro di essere compromesse, se non nei loro princìpi informatori, per lo meno nell’estensione e nelle modalità, in funzione delle ampiezza dello spazio europeo. È chiaramente il caso della Politica agricola comune, già minacciata dall’allargamento da quindici a venticinque, e dei vari fondi per la coesione economica e sociale. Esiste anche il timore che, a meno di non appesantire ulteriormente il budget comune, gli Stati membri non saranno in grado di sviluppare come dovrebbero delle politiche comuni in ambiti comunque importanti, come le reti transeuropee, la ricerca e lo sviluppo tecnologico.

Quanto all’Unione economica e monetaria, bisogna constatare che se, da una parte, l’euro, moneta unica adottata da dodici dei quindici Stati membri e rifiutata, forse per molto tempo ancora, dalla Gran Bretagna, è un gran successo, dall’altra, pochi dei nuovi e futuri membri dell’Unione saranno rapidamente in grado di entrare nell’euroland. È una cosa grave: l’unione economica balbetta. Coordinazione budgetaria, armonizzazione, anche limitata, dei regimi fiscali: gli stessi membri dell’euroland non riescono a disciplinarsi e l’avvenire del Patto di stabilità, considerato all’inizio come conditio sine qua non dell’unione monetaria, è in discussione. Più lo spazio si allarga e più è destinato ad aumentare il divario tra i differenti tenori di vita, per non parlare delle difformità che ancora permangono tra i diversi sistemi economici, nel rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata, tra le varie pratiche giuridiche e giudiziarie, tra le diverse concezioni del ruolo dello Stato. Se è concepibile sperare che il mercato unico, in termini di direttive e regolamenti comuni, riesca ad espandersi in modo tale da realizzare l’obiettivo centrale della libera circolazione delle merci, dei capitali, dei beni e persino dei lavoratori, è altrettanto concepibile dubitare della possibilità di instaurare un potere economico in grado di coordinare questo vasto spazio.

Il fallimento della politica estera comune


D’altro canto, è possibile che in tale spazio vengano esercitati poteri efficaci per quanto riguarda sicurezza e giustizia? La macchina comunitaria avanza. Lo confermano le politiche attualmente in gestazione nei settori dell’immigrazione e dell’asilo politico, il progetto di un procuratore europeo, l’informatizzazione degli schedari di polizia, i mezzi giuridici, e non solo, per la lotta alla droga o al riciclaggio di denaro sporco. Sono tutti settori, questi, per i quali esiste un vero interesse comune ed è possibile sperare che anche i guardiani più accaniti della sovranità nazionale finiscano per sottomettervisi.

L’Europa incontrerà invece grandi difficoltà ad elevare la propria potenza, in modo da renderla adeguata allo spazio occupato, proprio nei settori in cui è necessaria la potenza per esercitare una certa influenza in un mondo che è tutto tranne che idilliaco: la politica estera e i suoi strumenti diplomatici, la difesa ed i suoi mezzi militari. La questione di fondo è di stabilire se un’Unione a venticinque, o trentacinque, sarà capace di accordarsi su un concetto strategico globale che, al di là dei conflitti locali e delle crisi congiunturali, vada a precisare il posto che essa intende occupare nel mondo, le sue priorità, il carattere delle sue relazioni con le altre potenze (Stati Uniti, Russia, Cina), il suo approccio ai problemi Nord-Sud, le minacce che accetta di affrontare a livello comunitario ed i mezzi diplomatici, militari, economici e finanziari da mettere in comune. In mancanza di un accordo di questo tipo, l’Unione non sarà mai in grado di fare altro che improvvisare di fronte alle crisi che esploderanno qua e là, costringendoci a constatare, a seconda dei casi, il suo disordine interno o la sua impotenza. Ma è possibile sperare che un’Unione a venticinque, o a trentacinque, riesca ad accordarsi su un concetto strategico globale di questo tipo quando si prende coscienza della diversità delle differenti situazioni?

Attualmente quattro membri conservano ancora il loro status di neutralità, cosa del tutto anomala; altri, tra cui la Gran Bretagna, non pagano che un tributo verbale ad una politica europea comune, privilegiando piuttosto l’alleanza con gli Stati Uniti e l’appartenenza alla Nato. Altri ancora, poi, tra cui Francia e Germania, pur compiendo sforzi lodevoli per rinforzare gli strumenti di diplomazia comune, fanno fatica ad armonizzare i propri interessi nazionali con un orientamento che, ai loro occhi, appare contrastarli. Il cancelliere Schroeder non ha forse parlato di un deutscher Weg, di una “via tedesca”? In realtà, e questo giustifica disordine ed impotenza, il divario tra “Grandi” e “Piccoli” è qui più ampio che altrove ed è comprensibile che uno Stato in grado di disporre del diritto di veto all’interno del Consiglio di sicurezza, di armi nucleari e di forze militari significative si irriti quando deve tener conto dell’opinione di uno Stato che non è in grado di esercitare alcuna influenza rilevante sulla scena internazionale, ma che ritiene di avere interessi nazionali che esigono di essere pienamente rispettati e sostenuti. Più l’Unione avanza verso l’Est e i Balcani e più sarà difficile ottenere dei consensi forti, per lo meno per agire: rimanersene con le mani in mano ed affidarsi agli americani, infatti, è sicuramente più semplice.
Ecco, probabilmente, dove si raggiungerà il punto più vicino alla fine dell’Europa, intesa come potenza che dispone di una diplomazia e di una difesa, proprio come gli Stati Uniti o la Russia. Alcuni hanno voluto che esistesse: così sarebbe stata l’Europa della Comunità europea di difesa e della Comunità politica da cui doveva dipendere. Persino de Gaulle, proponendo il piano Fouchet, intendeva fare dei Sei una potenza diplomatico-militare. Ma più lo spazio si allarga e più l’obiettivo diventa irraggiungibile.

Aggiustamenti istituzionali

Non basterebbe neanche una seria riforma delle istituzioni. Probabilmente si può procedere a degli aggiustamenti che permettano di far funzionare il mercato unico e di gestire uno spazio organizzato a livello di giustizia e sicurezza. Ma i redattori della Costituzione in gestazione dovranno dimostrare molta audacia se intendono prendere decisioni in merito ad alcune misure indispensabili: sopprimere la rotazione semestrale per la presidenza del Consiglio, così da evitare che ognuno vi apporti le proprie “priorità”; designare un presidente del Consiglio che rimanga in carica per un periodo pari a quello del presidente della Commissione; ricorrere il più possibile al voto a maggioranza qualificata; rinunciare al tabù “un Commissario per Stato”, riducendo quindi il numero dei commissari; concedere all’Alto rappresentante per la politica estera, la sicurezza e la difesa un vero diritto di iniziativa, mettendogli a disposizione gli embrioni di quelli che diventeranno ministeri degli Esteri e della Difesa. Su quest’ultimo punto, le proposte franco-tedesche fatte il 15 gennaio alla Convenzione vanno nella direzione giusta.

Pur supponendo che tutto questo venga realizzato, si arriverà comunque ad una fine, definitiva, se così si può dire, poiché il processo è già ampiamente avviato, di una certa idea di Europa che regnava all’inizio della costruzione europea e che presentava, come concetto base, il superamento della sovranità nazionale. Forse non ne sarebbe nata, come speravano alcuni, una vera e propria Federazione degli Stati Uniti d’Europa, ma almeno ci saremmo andati vicini. Ormai, come tutti sanno, non soltanto bisogna accantonare tale speranza, ma persino l’obiettivo sostitutivo, questo surrogato battezzato “Federazione di Stati-nazione”, pare irraggiungibile in un’Europa a venticinque o trentacinque. Il peso massimo sembra essere lo Stato-nazione e, tra le politiche gestite realmente sul modello federale, non possiamo contare che la politica commerciale, con la sua tariffa doganale comune verso l’esterno, la politica della concorrenza e, sebbene non per tutti, la moneta unica, con la sua Banca centrale. Su quali altre competenze gli Stati-nazione rinuncerebbero ad esercitare le propria sovranità? Il meglio che si possa sperare è che riescano a condividerla.

Ciò nonostante, è forse possibile evitare la fine della potenza-Europa sfruttando lo spazio-Europa per riguadagnare l’obiettivo. Paradossalmente, è possibile che, proprio una volta raggiunta la massima estensione, l’Europa riesca ad organizzarsi meglio in funzione di questo spazio. Per raggiungere l’obiettivo, bisognerebbe quindi ricercare la formazione non tanto di un’ “Europa a geometria variabile” o di un’ “Europa a cerchi concentrici”, come propongo alcuni, quanto di una serie di “sottospazi” in cui gli Stati-nazione si raggruppino in base ad affinità derivate dalla vicinanza geografica, da un destino storico comune, da comunità linguistiche, dalla capacità di “vivere insieme”. In questa ottica, quali potrebbero essere dei raggruppamenti ragionevoli?

A Nord, gli Stati scandinavi e quelli baltici, che sono già entrati in un attivo processo di cooperazione, servirebbero ottimamente la causa europea spingendola al massimo livello. Per quanto riguarda i nuovi e futuri membri dell’Unione, del Centro e del Sud, essi emergono da un’Europa mutilata a due riprese nel corso del XX secolo: una prima volta, da uno smembramento mal concepito e mal gestito dell’Impero austro-ungarico e, una seconda volta, dall’influenza delle dittature comuniste. Logicamente, il motore del ritorno all’indipendenza e alla sovranità di questi Stati è stato il nazionalismo, o per lo meno lo spirito nazionale, al punto, come si è visto e si vede ancora oggi nell’ex Jugoslavia, da spingere i vari Paesi ad entrare in conflitto con vicini animati dagli stessi sentimenti. A tutti l’ingresso, domani o dopodomani, nell’Unione europea offrirà un quadro di coesistenza pacifica e democratica, un mercato unico, delle norme comuni. Ma, tra di loro, potrebbero andare ancora oltre nell’integrazione contribuendo all’organizzazione dell’Europa. Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria avrebbero parecchi motivi per costituire un quadro di cooperazione proprio e, se la Polonia si unisse a loro, il loro peso all’interno dell’Unione aumenterebbe ulteriormente. Allo stesso modo, tutti gli Stati balcanici, raggruppandosi tra loro, apporterebbero un contributo inestimabile all’organizzazione europea. La collaborazione di Grecia, ortodossa, e Albania, prevalentemente musulmana, ma anche cristiana, si rivelerebbe molto utile per la riuscita di un progetto del genere. A questi Stati del Centro e dell’Est, raggruppamenti di questo tipo permetterebbero di pesare decisamente di più, grazie alla loro massa collettiva, che non restando isolati di fronte ai “Grandi”. Inoltre, in questo modo sfuggirebbero a quel clientelismo di cui l’Europa, per due secoli, ha potuto valutare gli effetti disastrosi.

Ad Ovest, i Sei, accompagnati forse dalla Spagna e dal Portogallo, possono riprendere la strada tracciata dai padri fondatori? La risposta è nelle mani di Francia e Germania. Quella che ci forniscono in questo momento indica sicuramente la volontà di questi due Stati di tornare ad essere l’epicentro della costruzione europea. Era ora! Tuttavia, le misure prese per approfondire la cooperazione tra i due Paesi restano modeste. Eppure, se non ci muoviamo nella direzione di un’Unione franco-tedesca, chi potrebbe essere il nucleo centrale di un’Unione più ampia, con il Benelux, l’Italia e, se possibile, Spagna e Portogallo? Francia e Germania non assolverebbero la missione che il destino ha assegnato loro. Ma non perdiamo le speranze!

E la Gran Bretagna? La risposta è semplice. Per ora, non sembra pronta ad imbarcarsi in una seria impresa di integrazione. Trova estremamente difficile concepire l’Unione europea se non come una zona di libero scambio ed una filiale della Nato. Il meglio che si possa sperare è che non impedisca agli altri di andare oltre.
Che esista un’irresistibile espansione dello spazio-Europa e, al contrario, un resistibile approfondimento della potenza-Europa diventa, di anno in anno, sempre più chiaro. Com’è altrettanto palese che questa evoluzione porterà, poco a poco, ad una limitazione degli ambiti in cui può affermarsi una potenza-Europa. È dunque la fine di una certa concezione dell’Europa intesa in tal senso. Un raggruppamento di sottospazi, di cui quello principale – incentrato su un’Unione franco-tedesca allargata – che comprenda anche i vicini immediati, può certamente contribuire a ridurre la frammentazione dell’Europa e ad organizzarla multipolarmente. In tal modo, arriverebbero a farsi sentire voci meno numerose, ma più forti e maggiormente cariche dei messaggi e delle preoccupazioni delle diverse regioni del nostro continente. Ma questo stesso sistema di raggruppamenti darà tutti i suoi frutti soltanto se, alla base, lo “Stato nazione”, nella sua dialettica con la “Federazione”, arriverà ad accettare di non essere l’elemento più rilevante della sintesi. A questa condizione, forse, non sarà la fine dell’Europa!

(da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)

© Commentaire (Numéro 101/Printemps 2003, “Est-ce la fin de l’Europe”) (traduzione di Sarah del Meglio)