Un’Unione libera e armata
di Antonio Martino

La “questione militare” dell’Europa, cioè se, come, quanto il Vecchio Continente, rectius l’Unione europea, debba provvedere alla propria difesa è sul tappeto da oltre cinquant’anni. La difesa è stata il primo obiettivo perseguito a livello europeo. Nel 1952 si diede vita alla Ced (Comunità Europea di Difesa), che, tuttavia, fallì nel 1954 a causa della mancata ratifica del relativo trattato da parte del Parlamento francese. È significativo, tuttavia, che proprio la difesa sia stato il primo obiettivo che si è pensato di dover assegnare all’Europa. È, infatti, possibile sostenere che, per sua natura, la difesa è un “bene pubblico europeo”, un obiettivo di interesse generale che non può essere perseguito con pari efficacia a livello nazionale. Basti pensare al problema delle duplicazioni: l’Unione europea oggi spende per la difesa circa la metà di quanto spendono gli Usa, ma in termini di capacità ottiene solo il 10 per cento di quanto ottengono gli americani. Questo deficit di rendimento della spesa pubblica europea per la difesa dipende tra l’altro dal fatto che ogni Paese cerca di dotarsi di capacità militari complete, incorrendo in duplicazioni inevitabili, le quali altrettanto inevitabilmente riducono la capacità militare complessiva dell’Europa.

Quando oggi parliamo di difesa europea, intendiamo qualcosa di completamente diverso rispetto agli anni Cinquanta. Tuttavia l’obiettivo di una Ced aggiornata non dovrebbe consistere nel sostituirsi alla Nato o, addirittura, nel decretarne la fine. L’Europa della Difesa non vuole affatto essere (né, come dirò appresso, può essere) un’alternativa alla Nato, ma un suo complemento. Le due organizzazioni dovranno coesistere e trovare una divisione di compiti che accresca l’efficienza d’entrambe. Esistono varie ragioni di una tale impostazione.

Storicamente parlando, negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale l’apparato difensivo serviva a proteggersi dall’aggressione di uno Stato o di una coalizione di Stati. L’Europa mirava a difendersi dall’Unione Sovietica anche nel caso in cui gli Stati Uniti avessero deciso di non intervenire. Oggi l’Urss è scomparsa. Non esiste, fortunatamente, il rischio che qualcuno decida di attaccare ed invadere l’Europa. Il concetto di difesa (concetto “esclusivo”, rivolto cioè contro i Paesi esclusi dall’Alleanza) è stato sostituito dal concetto di sicurezza (“inclusivo”, perché un’organizzazione di sicurezza è tanto più efficiente quanto maggiore è il numero di Paesi che ne fanno parte, specie se tra essi siano ricompresi quelli militarmente più forti).

Anche sotto il profilo delle capacità militari richieste, la realtà è molto diversa dal passato. Le missioni, che si ritiene l’Europa della difesa debba assolvere, sono umanitarie negli scopi e negli effetti, e riassumibili nel mantenimento della pace (peace keeping). Le cosiddette “missioni di Petersberg” richiedono tutte un basso livello d’intensità, esclusa una: l’imposizione della pace (peace enforcement), la cui precisa definizione operativa sarà il compito principale dei ministri della difesa nel corso del semestre italiano di presidenza dell’Unione europea.

Dal punto di vista economico, i motivi per escludere che l’Europa possa fare a meno dell’Alleanza atlantica sono molto convincenti e fanno apparire velleitario un obiettivo del genere. Non viene negato da nessuno che l’appartenenza alla Nato abbia consentito agli alleati europei di spendere meno per la loro difesa. Una parte considerevole del costo della difesa dell’Europa è stato sopportato dai contribuenti americani: quando i missili dell’Urss erano puntati sull’Europa, potevamo dormire sonni tranquilli solo grazie al fatto che gli Stati Uniti si erano dotati di una capacità militare idonea a fronteggiare la minaccia sovietica ed erano nostri alleati. Se, con una stima molto prudente, supponiamo che, in assenza dell’Alleanza atlantica, avremmo dovuto spendere per la difesa un 2,5 per cento di prodotto interno lordo in più di quanto abbiamo speso, perveniamo alla conclusione che, in termini reali, cioè al netto dell’inflazione, l’appartenenza alla Nato ha consentito all’Italia di risparmiare in media 30 mila miliardi all’anno. Negli oltre cinquant’anni di vita, la nostra appartenenza alla Nato è equivalsa ad un sussidio di circa un milione e mezzo di miliardi di lire, oltre la metà del nostro imponente debito pubblico! Un regalo spesso ripagato non con la gratitudine, ma con l’antiamericanismo. Anche a prescindere da altri problemi più o meno importanti, l’affrancamento dall’ala protettrice degli Stati Uniti implicherebbe spese militari aggiuntive, diciamo per venticinque anni, molto dispendiose. È molto dubbio che i governi riuscirebbero ad ottenere il consenso fiscale ad una simile politica. E ciò anche trascurando le grandi difficoltà istituzionali che l’Unione europea dovrebbe affrontare e superare per dotarsi di strumenti del tipo di un bilancio militare federale. Vorrei ricordare in proposito di aver suggerito una piccola, qualificata, condizionata e parziale esenzione degli investimenti militari dal computo della spesa pubblica, in modo da non incidere sul parametro deficit-Pil fissato nel Patto di stabilità. Tuttavia, adesso che l’idea è stata ripresa, non mi nascondo una preoccupazione. Se anche una piccola e ben individuata eccezione dovesse mettere a rischio il Patto di stabilità, io stesso direi di no, per il timore che il precedente possa aprire il vaso di Pandora delle deroghe.

Nei termini in cui sto cercando di presentare il mio punto di vista, l’Europa può e deve fare di più nel campo della difesa, ma non senza l’attenta valutazione comparativa dei mezzi e dei fini.
Il principale obiettivo degli europei resta il completamento di una “forza di reazione rapida”, un contingente di 60 mila uomini, con altrettanti di riserva, capaci di intervenire in qualsiasi area di crisi con un preavviso inferiore a sessanta giorni. Non dimentichiamo che, essendosi superata l’obiezione turca all’uso di capacità Nato da parte dell’Ue (il che risolve il problema altrimenti insolubile delle duplicazioni), la forza di reazione rapida gode del consenso generale di tutti i Paesi membri. Già adesso, peraltro, l’Ue subentra alla Nato alla guida della missione in Macedonia: un’operazione di dimensioni modeste, ma un passo significativo per la difesa europea.

Inoltre, un risultato di straordinaria importanza è stato conseguito con la decisione pienamente condivisa di affidare a singoli Paesi europei il ruolo di capofila in dieci “progetti di sviluppo delle capacità difensive nel contesto della nuova strategia di difesa”. L’Italia si occuperà del progetto “Nbc”, cioè della protezione nucleare, biologica, chimica. L’accordo tra i quindici euroministri della difesa può definirsi di portata storica perché crea le condizioni per la nascita, dopo mezzo secolo, dell’Europa della Difesa.

Anche prescindendo dai motivi storici, militari, economici, accennati sopra, i quali suffragano ampiamente la tesi della complementarietà delle forze armate europee rispetto alla Nato, resta un punto squisitamente politico. Nel definire e perseguire una sua dimensione militare, l’Ue non può esimersi dal rispondere alla domanda se una politica europea di sicurezza debba servire ad una difesa strettamente intesa oppure a presidiare la società basata sulla libertà, la democrazia, il diritto, la giustizia, la responsabilità. La crescita di una forza militare europea in competizione con gli Usa, a parte tutto il resto, rischierebbe di far imboccare all’Ue il tunnel in fondo al quale incorrerebbe nel rischio d’impoverimento economico e di scontro con il mondo anglosassone. L’Atlantismo è meno una alleanza militare che una comunità politica. La Nato ha funzionato a meraviglia proprio per questo speciale carattere, che è un unicum nella storia dei trattati e delle relazioni tra le nazioni. Il premier laburista inglese Tony Blair ha definito “pericolosa e destabilizzante” la visione di un’Europa armata isolata dall’America. Condivido la definizione. Il mondo libero non è più assediato dalle nazioni comuniste. Però alle sue porte e dentro i suoi confini i terroristi minacciano e colpiscono. È indispensabile dunque potenziarne le forze, non costituire forze che lo dividano.

(da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)