Non più solo un “club commerciale”
di Massimo Lo Cicero

L’euro è tornato, nell’ultimo periodo, al cambio con il dollaro con cui aveva debuttato sulla scena internazionale. Nella sua breve vita, hanno commentato gli osservatori più precisi, ha consentito all’Europa intera di sperimentare la strada della facile euforia che l’Italia ben conosceva. Grazie alla sua marcata svalutazione – è arrivato sotto quota 0,90 con il dollaro -– l’euro aveva dato alle esportazioni europee il vantaggio competitivo che la tecnologia, l’organizzazione istituzionale, gli intermediari finanziari e le regole del mercato del lavoro, e dei regimi previdenziali, non sono stati capaci di garantire.

Ora che l’euro tocca di nuovo la sua quota di nascita (1,19 dollari per comprare un euro) l’Europa affanna, cresce assai meno degli Stati Uniti e si interroga sull’opportunità di attenuare i vincoli sulla finanza pubblica, che impediscono investimenti anticiclici nonostante il tardivo gesto della Bce di ridurre il tasso di interesse nominale tanto da portare quasi a zero il livello del tasso reale. Questi avvenimenti hanno un sapore dichiaratamente congiunturale, tuttavia, e rischiano di spostare il dibattito sulla politica economica necessaria per il Vecchio Continente lontano dalle questioni di fondo. Una tensione operativa tutta dedicata alla congiuntura, infatti, distrae sia le autorità di governo che gli attori sociali dalle scelte strategiche necessarie per dare un orizzonte di crescita stabile e sistematica all’economia europea.
Sta per iniziare il turno della presidenza italiana e, di conseguenza, sarebbe necessario che il nostro Paese riproponesse un’agenda della politica economica capace di guardare lontano e di spingere l’Europa verso le scelte più coerenti con l’obiettivo di una crescita sostenuta e stabile nel tempo.

Queste scelte devono fare chiarezza su tre questioni:
• la natura funzionale, prima ancora che quella istituzionale, che dovrà assumere l’Unione europea;
• l’organizzazione delle politiche di coesione e sviluppo all’indomani del 2006;
• le modalità ed il ritmo dei processi di allargamento da realizzare dopo quella data.

Analizziamo le tre questioni separatamente. L’Unione europea è nata come un club commerciale e si è progressivamente – ma solo parzialmente – trasformata in un club di carattere monetario. Discute ora di come diventare un’istituzione politicamente più strutturata e, durante questa discussione, ha già deciso di realizzare un imponente allargamento coinvolgendo dieci nuovi Paesi e determinando una marcata contraddizione. Il divario che separa il livello del reddito pro capite, dei quindici Paesi aderenti all’Unione prima dell’allargamento, ed il reddito pro capite dei Paesi nuovi entranti è assai significativo. Questo divario tra le medie nazionali, tuttavia, non è così ampio come quello che, in molti casi e certamente nel caso italiano, separa il livello del reddito pro capite delle regioni forti da quello delle regioni deboli nei quindici Paesi che, fino a ieri, hanno rappresentato la totalità degli aderenti all’Unione stessa. Il governo della Gran Bretagna avanza, inoltre, una radicale ipotesi di trasformazione delle politiche di coesione e sviluppo: canalizzare i fondi di supporto alla crescita delle aree deboli sulla base di indicatori relativi solo alle medie nazionali del reddito pro capite1. E, in particolare, assegnare quei fondi esclusivamente ai Paesi che presentino un reddito pro capite inferiore al 90 per cento della media europea. Tutte le regioni italiane, ad esempio, sarebbero fuori della possibilità di utilizzare quei fondi, nel caso la proposta fosse accettata.

La Gran Bretagna sostiene, in altre parole, che i divari regionali sono un tema di competenza delle politiche nazionali, accettando quindi di affrontare essa stessa ed in proprio la questione del Galles o quella della Scozia. La base logica di questa proposta è che lo sforzo decisivo per favorire l’integrazione europea sia rappresentato dalla riduzione del divario nel tenore di vita che si legge tra i quindici paesi, originariamente membri, ed i dieci Paesi che l’allargamento, appena deciso, ha stabilito di includere nell’Unione europea. Esigenza, quest’ultima, che deriva da una constatazione legata alle ragioni che portarono alla nascita del mercato comune e alla successiva adozione di una moneta comune, seppure solo in tredici dei quindici Paesi aderenti.

La creazione di un solo mercato e l’unificazione dello strumento monetario adottato nasceva dalla constatazione che il solo mercato comparabile – quello degli Stati Uniti – mostrava differenze di reddito, tra gli Stati aderenti all’Unione, molto inferiori a quelle osservabili tra le nazioni europee e tra le macroregioni economiche interne a quelle nazioni. Fino a quando i Paesi aderenti sono stati quindici, allora, bisognava ridurre i divari alla scala delle macroaree regionali per rendere comparabile la dimensione del mercato europeo con quella del mercato americano. Parliamo, evidentemente di dimensione in termini qualitativi: cioè di qualità del potere di acquisto da parte dei consumatori. Solo questa omogeneità, infatti, garantisce la creazione di una vasta area di consumatori dal medesimo potenziale di spesa ed offre l’opportunità di un regime di competizione tra le imprese a una scala che fornisca vantaggi iperadditivi, cioè espansivi, per le singole produzioni.

Se, al contrario, il mercato europeo resta segmentato, per ragioni legate alla capacità di spesa e a barriere di tipo protettivo di settore o di area, allora non si manifestano gli effetti iperadditivi di scala e si sterilizza la ragione stessa dell’esistenza di un’area commerciale comune così estesa. E, in particolare, diventa critica la gestione di un unico strumento monetario: perché si manifesteranno tensioni tra le diverse regioni economiche in quanto l’unicità della moneta priverà i deboli della possibilità di far ricorso alla flessibilità del cambio per compensare le proprie fragilità congiunturali.

I fondi delle politiche di coesione, in definitiva, rappresentavano una sorta di contraltare, di natura fiscale, alle rigidità imposte alla finanza pubblica nazionale per rendere possibile la condivisione del metro monetario. Ma è assolutamente evidente che questo equilibrio, capace di trasformare un club commerciale – il mercato comune europeo – in un club monetario – l’insieme dei Paesi che adotta l’euro come moneta – e, successivamente, in un unico grande mercato finanziario integrato, non può ormai essere riproposto alla scala di una Unione europea che include venticinque paesi e che registra scarti tanto evidenti tra i rispettivi livelli del reddito pro capite. In questa logica, recuperare nel medio periodo un divario di minore ampiezza tra quei redditi è la premessa necessaria di una ripresa, ad una scala più allargata, del progetto di integrazione monetaria e finanziaria.

Produzione di beni pubblici e prospettiva federalista

Nel trapasso tra i due secoli, che ci divide dalla data della conclusione del secondo conflitto mondiale, la scena internazionale si è radicalmente modificata. È aumentato il numero degli Stati sovrani mentre si è progressivamente integrato il mercato mondiale: i mercati finanziari, anche grazie al salto tecnologico reso possibile dalla rivoluzione della information and communication technology, hanno realizzato più intensamente e più rapidamente di quelli reali questa integrazione. Il mondo, ha osservato Alberto Alesina, ha attraversato una stagione di integrazione economia e di disintegrazione politica2. Dani Rodrik ha sviluppato ulteriormente questa osservazione per formulare un singolare trilemma: non è possibile disporre contemporaneamente di Stati-nazione; mercati integrati economicamente e controllo politico decentrato sulla produzione di beni pubblici3.

Bisogna rinunciare ad uno dei tre termini e, nel mondo contemporaneo, secondo Rodrik, si sta realizzando un progressivo superamento degli Stati-nazione, che avevano dominato per secoli la scena europea. Nasce da queste circostanze la singolarità semantica ed organizzativa del caso italiano negli anni Novanta. Il nostro Paese propone e adotta un’interpretazione della categoria politica del federalismo come strumento di segmentazione e decentramento nell’esercizio del potere legislativo ed amministrativo che stride violentemente con la sua originaria funzionalità. Il federalismo, infatti, è stato storicamente un processo necessario per unire e non per segmentare identità nazionali ad esso preesistenti. In una soluzione federale, inoltre, la produzione di beni pubblici che, tradizionalmente, ricade nell’agenda delle funzioni amministrative dello Stato trova evidenti motivi di economicità in quanto l’allargamento della popolazione servita consente una riduzione del costo per cittadino garantito della produzione di beni pubblici.

Questa sorta di economia di scala trova, tuttavia, una barriera nella crescente eterogeneità – culturale, linguistica, comportamentale, della popolazione servita. Crescono i costi di convivenza con una soluzione standard a fronte della riduzione nella dimensione monetaria dei costi di produzione per i beni pubblici. Evidentemente queste circostanze si presentano con diversa intensità secondo la natura del bene pubblico di cui si parla. L’unificazione della moneta si realizza più facilmente, anche se lascia sul campo un’inflazione da percezione del valore. Il nuovo metro monetario, ed il diverso regime di monetazione hanno generato una singolare dissonanza cognitiva nel nostro Paese, ad esempio. La banconota di taglio più piccolo è ora quella di cinque euro mentre la nostra precedente banconota più piccola era quella da mille lire, una quantità che ora si esprime con la seconda moneta metallica, essendo la prima quella da un euro che vale, appunto, circa duemila lire.

Le grandezze devono essere ricalcolate dai consumatori sia utilizzando forme diverse, la monetazione, che traducendo una scala che misurava i valori a partire da mille lire, e dai multipli relativi, in una scala che misura in multipli di duemila. L’effetto inflattivo, generato dal potere locale di monopoli dei venditori, per alcuni beni, e dalla disponibilità a pagare non controllata razionalmente, se non ex post e per confronti con le forme di utilizzo del reddito mensile, da parte dei consumatori è stato evidente. Ma, nel caso della produzione di servizi pubblici essenziali, nel campo della sanità o dell’istruzione, la frizione e gli attriti generati dalla diversità dei linguaggi, delle culture e delle abitudini consolidate sarebbe assai più elevata e si tradurrebbe in una vera e propria diseconomia rispetto alla riduzione dei costi garantita dall’adozione di soluzioni standard a scala transnazionale.

Esiste, insomma, una sorta di oggettiva tendenza – nel caso dell’Europa a quindici Paesi – verso la progressiva erosione della dimensione nazionale nella produzione di beni pubblici. Valori e culture locali si riconoscono più facilmente nel livello regionale dell’organizzazione amministrativa e ritengono di poter controllare più agevolmente, a quel livello, anche la funzione legislativa. La gestione della produzione di beni pubblici intangibili, come la difesa, la produzione di norme di diritto civile o la moneta, migrano invece verso un livello sopranazionale in ragione dello scarto favorevole che si osserva, in questi casi, tra la riduzione dei costi di produzione e l’incremento delle frizioni e degli attriti nel processo di gestione che accompagna l’introduzione dei nuovi beni pubblici. Questa eutanasia operativa degli Stati nazionali è osservabile nella storia recente dell’Unione europea ma è difficilmente riproducibile alla scala più allargata, che si è realizzata con la decisione di includere dieci ulteriori Paesi al suo interno.

L’architettura odierna delle istituzioni europee

Attualmente la vita politica ed amministrativa dell’Unione europea è scandita dall’azione di tre centri di coordinamento. Le decisioni politiche sono affidate ai governi dei Paesi aderenti. L’adozione di quelle decisioni si realizza grazie al Consiglio dei ministri, di cui l’Italia si accinge a prendere la guida nel prossimo semestre: esso rappresenta il motore politico dell’Unione. A quel motore si affiancano altre due istituzioni di coordinamento.

La Commissione che svolge una funzione di natura amministrativa e tecnica: essa garantisce l’esame dei diversi problemi, che nascono dal processo di condivisione della produzione di beni pubblici, ed offre soluzioni tecniche al vaglio dei governi dei Paesi membri. Il Parlamento, che ha una natura dichiaratamente politica di carattere generale svolge, infine, una funzione di supervisione sull’attività della commissione e di indirizzo generale rispetto alle possibili strategie di sviluppo del processo di unificazione. Ferma restando la funzione centrale e determinante dei governi, che sono mandatari dei Parlamenti nazionali, nella creazione delle nuove istituzioni europee.

Come è stato detto efficacemente, non esiste ancora un’ “Europa dei popoli”, ma l’ “Europa dei governi” potrebbe determinarne, nel lungo periodo, l’esistenza se riesce a creare, politicamente, le condizioni istituzionali necessarie alla sua realizzazione. La palese contraddizione, che si ricava da quanto abbiamo detto fino ad ora, è che spetta ai governi nazionali dirigere il processo di cambiamento, mentre essi sono tendenzialmente compressi, nei poteri operativi come nella rappresentanza politica, dalle manifestazioni del processo medesimo.

In queste condizioni di fatto, quali sono gli interrogativi strategici che pesano sul futuro dell’Unione europea? L’Unione europea non potrà, nel medio periodo, trasformare un regime di integrazione commerciale in un regime di integrazione monetaria alla scala di venticinque Paesi partecipanti. Nel medio periodo, inoltre, l’evoluzione della situazione politica internazionale potrebbe suggerire di accelerare l’estensione di un regime di liberi scambi e di convergenze strategiche con altri ed ulteriori Paesi che non facciano oggi parte dell’Unione stessa.

Non si può riprodurre alla scala di venticinque partecipanti la soluzione di un club commerciale che diventa anche un club monetario grazie allo strumento, di compensazione, dei fondi strutturali che riducono il carattere restrittivo del regime monetario condiviso sulle scelte di finanza pubblica, necessarie per alimentare la produzione di infrastrutture e beni pubblici nei Paesi in cui il reddito pro capite sia molto inferiore alla media europea. Si deve realizzare un oggettivo vantaggio per chi ha già aderito all’Unione, ma non si può pensare di allineare questi Paesi, nuovi entranti, alle regole monetarie e fiscali di chi ha già adottato la moneta comune. Bisogna trovare le risorse pubbliche per finanziare infrastrutture e beni collettivi nelle regioni, ancora troppo povere, esistenti nei territori dei “soci fondatori”: procedendo a radicali riforme del sistema previdenziale e non attingendo alle risorse comuni che, invece, andranno destinate ai Paesi nuovi entranti: per garantire nel medio periodo le condizioni di un maggiore allineamento tra il loro tenore di vita e quello medio dell’Unione. Sembra un’agenda troppo densa di risultati tra loro alternativi per poter essere adottata sic stantibus rebus.

Una soluzione graduale potrebbe risultare molto preferibile negli effetti ad uno scontro frontale con le conseguenze di una soluzione troppo radicale e precipitosa. La riforma della previdenza e del regime di welfare state nei Paesi che aderiscono all’euro, la nascita di un regime di libero scambio e di un qualche “serpente monetario” che lasci margini flessibili ed amministrabili dalle autorità monetarie nazionali, ai dieci nuovi entranti, e la creazione di intese strategiche – in tema di politica estera, difesa dal terrorismo e cooperazione commerciale – con nuovi ed ulteriori Paesi ad Est e a Sud, oltre lo specchio d’acqua del Mediterraneo, sembrano le tre strade che è opportuno percorrere in parallelo. Piuttosto che forzare la mano verso rigidità reciproche e forzature unilaterali che non avrebbero la solidità necessaria per trasformarsi in risultati duraturi.

Meglio un’Unione europea più larga, ed in ulteriore espansione – grazie a meccanismi istituzionali dalla geometria di funzionamento variabile – che un’Europa che si trasformi in un nuovo Super Stato-nazione dalle fragili basi finanziarie e, di conseguenza, dalla debole reputazione internazionale. Una simile Europa, dalla nuova identità politica, rimarrebbe confederale e guidata da una coesa coalizione di governi nazionali, ma potrebbe essere il soggetto necessario per traghettare verso un equilibrio più stabile l’intera situazione internazionale.

E, per questa strada, essa potrebbe risultare davvero utile per la nascita, in un futuro remoto, di una futura Europa, caratterizzata da una maggiore identità politica ed istituzionale ma anche da una coesione sociale e da una base finanziaria capaci di sorreggere e garantire quell’identità.

(da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)