Prospettive euro-mediterranee
di Carlo Jean

Gli attentati dell’11 settembre e la collocazione della guerra al terrorismo al centro della politica estera degli Stati Uniti hanno finito per bloccare la Partnership euro-mediterranea (Emp) di Barcellona. Essa si prefiggeva obiettivi estremamente ambiziosi. In sostanza, voleva ricostruire l’unità della regione euro-mediterranea, scomparsa con l’Impero romano. Si basava su misure di inclusione tra il Sud e il Nord, anche se – a differenza dell’Est europeo – non era prevista un’integrazione, ma solo un’area di libero scambio. Intendeva inoltre promuovere legami fra i Paesi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente.

A fronte di riforme politiche che avrebbero dovuto portare a una stabilità strutturale del Sud, il Nord avrebbe concesso aiuti economici, anche se limitati data la stagnazione dell’economia europea, le esigenze dell’integrazione dell’Est, i vincoli finanziari richiesti a tutti i Paesi dal Patto di stabilità e le pressioni dell’agricoltura e dell’industria tessile del Nord che chiedevano restrizioni proprio nei due settori che avrebbero potuto meglio sostenere le esportazioni dal Sud. La domanda di integrazione, in sostanza, non trovava riscontro nell’offerta ed era frenata dalle divisioni verticali come da quelle orizzontali. La regione mediterranea è rimasta frammentata. Le tensioni esistenti non sono scomparse. La pressione demografica, l’urbanizzazione massiccia e l’autoritarismo inefficiente di molti regimi del Sud sussistono. L’asimmetria fra le due sponde del mare si è accresciuta, anche perché molti governi arabi hanno sfruttato la guerra al terrorismo per eliminare le opposizioni. Gli avvenimenti degli ultimi due anni – incluse le ricadute della guerra contro Saddam e il maggior impegno degli Usa in Medio Oriente – hanno rafforzato le tendenze esistenti.

Si è in questo modo determinata una crisi che tuttavia, come sempre avviene, comporta pericoli e offre al contempo opportunità. L’Europa deve quindi adeguare le sue politiche, e il semestre italiano di presidenza dell’Ue potrebbe consentire qualche iniziativa al riguardo.

Il ruolo strategico della Turchia

A parte le ambizioni eccessive rispetto alle risorse disponibili e la pretesa di considerare unitaria un’area che è divisa da peculiarità sia sub-regionali che nazionali, la politica mediterranea dell’Ue ha sofferto dell’esclusione di due attori centrali – sia per la sicurezza che per l’economia – dell’area: gli Stati Uniti e la Turchia. La crisi in Iraq ha approfondito le divergenze fra l’Europa e gli Stati Uniti. Anche la posizione della Turchia si è fatta più incerta.

Negando il transito alle truppe americane che avrebbero dovuto attaccare l’Iraq del Nord, la Turchia ha fatto sorgere – per la prima volta negli ultimi cinquant’anni – tensioni con Washington, e ha prodotto la propria esclusione dal processo di stabilizzazione dell’Iraq. Il fatto che la guerra sia stata breve e incruenta ha però smorzato tali contrasti, che sembra possano adesso essere superati. Ad ogni modo, solo nel caso in cui la pacificazione dell’ Iraq dovesse rivelarsi impossibile, la Turchia potrebbe riacquistare l’importanza geo-strategica che essa rivestiva per gli Stati Uniti prima della caduta di Saddam. Anche nei riguardi dell’Europa il Paese ha conosciuto difficoltà. Ciò è dipeso sia dalla frustrazione di essere esclusa dall’Unione, sia dalla questione di Cipro, sia infine dalle schermaglie che ha messo in atto nei riguardi della Pesd. L’Akp del primo ministro Erdogan ha in parte smussato tali querelles, evitando “strappi” sia con l’Occidente che con Israele, pur avvicinandosi ai Paesi arabi da un lato e all’Iran di Khatami dall’altro. È probabile che la Turchia riprenda a poco a poco il suo ruolo centrale – che aveva negli anni Novanta – di ponte verso il Golfo e l’Asia Centrale, di fonte di stabilità per il Medio Oriente, e di “modello” per l’intero Islam, come sostengono i new-conservatives americani, da Paul Wolfowitz a Richard Perle. Il riavvicinamento politico e strategico fra Washington e Mosca ha dimostrato ad Ankara che non esistono alternative alla stretta cooperazione con l’Occidente. L’importanza della Turchia potrebbe accrescersi ulteriormente qualora dovesse aumentare la tensione fra gli Usa e l’Iran. Al limite essa potrebbe originare una nuova guerra preventiva, per impedire a Teheran di entrare in possesso di armi nucleari. Va notato che un semplice attacco aereo contro le installazioni nucleari iraniane – simile a quello effettuato nel 1981 da Israele contro il reattore iracheno di Osirak – non sarebbe sufficiente, dato il fallout radioattivo causato dal combustibile nucleare già presente nelle centrali iraniane.

Quanto al rapporto tra Europa e Stati Uniti, tutti gli avvenimenti che hanno seguito l’11 settembre lo hanno caricato di tensioni, con l’effetto di una crisi nel processo d’integrazione europeo e della marginalizzazione dell’Europa in Medio Oriente. Se l’Europa e l’Italia non elaborano una visione politica adeguata alle nuove realtà esse saranno considerate sempre più irrilevanti per la stabilità strutturale dell’intero bacino del Mediterraneo. In queste condizioni, un maggior attivismo politico europeo nella regione potrebbe accrescere le contrapposizioni con gli Stati Uniti e, di riflesso, le divisioni all’interno dell’Europa. Potrebbe, cioè, peggiorare lo stato attuale delle cose. L’Emp diverrebbe a quel punto inefficace, una scatola vuota. Se non riuscisse a conseguire risultati visibili in tempi ragionevoli, essa verrebbe sempre più intesa dai governi e dalle masse arabe come uno strumento europeo per controllare il Sud e per risolvere con la sua collaborazione problemi che sono esclusivamente del Nord. Tale percezione potrebbe accrescersi con il consolidarsi della Pesd e delle capacità di proiezione di potenza dell’Unione europea. Basti ricordare le reazioni seguite alla costituzione a Firenze dell’Eurofor, per rendersi conto dei sospetti che i Paesi del Mediterraneo nutrono nei riguardi delle potenze ex-coloniali. Non potendo prendere di mira gli Stati Uniti, è del tutto probabile che le reazioni arabe si volgeranno soprattutto contro l’Europa, anche perché essa è considerata debole, imbelle e quindi sfidabile senza grossi rischi.

Una scommessa europea o atlantica?

È in questo quadro che va discusso se convenga o meno un rilancio della politica europea nel Mediterraneo. Per le ragioni prima esposte, essa non dovrebbe essere contrapposta, e nemmeno troppo divergente, rispetto a quella statunitense. In particolare, occorre valutare se la sicurezza del Mediterraneo allargato sia un problema europeo, o euroatlantico. Ciò che è ad ogni modo indispensabile è stimolare una sufficiente concertazione tra i Paesi europei: quelli dell’Europa “baltica” si sentono molto poco coinvolti nei problemi del Mediterraneo o, quanto meno, li considerano poco rilevanti per la loro sicurezza. Senza unitarietà, tuttavia, l’Europa non potrà che rassegnarsi a un ruolo subordinato a quello degli Usa. Il processo di pace in Medio Oriente – pur promosso da Usa, Europa, Russia e Onu – è di fatto monopolizzato da Washington. Gli Usa sono una potenza mediterranea, e il divario tra la loro potenza militare e quella europea è destinato ad accrescersi.

Il secondo punto da decidere è se convenga perseguire politiche globali e unitarie per l’intera area, oppure se occorra prendere atto delle particolarità e peculiarità sub-regionali, anche per svincolare il processo dall’esigenza di ricercare un consenso generale, il che ne limita fortemente la portata. Le gelosie, i sospetti e le tensioni esistenti fra i vari Paesi del Sud potrebbero anche indurre ad abbandonare il collegamento esplicito fra l’integrazione del Sud e la collaborazione verticale con il Nord. Si tratterrebbe, insomma, di abbandonare i sogni unitari della “nazione araba” per tener conto delle divergenti realtà nazionali. Lo stesso Maghreb è diviso: basti pensare alle differenze fra Libia e Algeria, produttori di petrolio e non disposte a spartirne i profitti con gli altri Paesi, oppure ai contrasti fra Algeri e Rabat per il Sahara occidentale. In sostanza, occorre decidere se le logiche delle nuove politiche debbano considerare il Mediterraneo allargato come una regione geo-politicamente unitaria, in cui tutti i problemi – dalla sicurezza, allo sviluppo, alle riforme politiche – debbano essere trattati contestualmente, oppure se sia opportuno ricorrere ad approcci a geometria e a geografia variabile.

Verso l’unità dell’area mediterranea

A parer mio, le uniche politiche efficaci per ricercare una stabilità strutturale del Mediterraneo si basano su una stretta concertazione fra Europa e Stati Uniti, e sull’abbandono dell’utopia – pericolosa per la stessa unità europea – di una totale autonomia da Washington. Si tratta quindi di coordinare l’Emp con il “Dialogo Mediterraneo” della Nato (Nmd). La potenza soft dell’Europa deve essere in qualche modo raccordata con quella hard americana: tanto più dopo l’eliminazione di Saddam Hussein e il “lancio” dell’iniziativa americana US-Middle East Partnership, cui Washington ha allocato 29 miliardi di dollari. L’Europa deve assolutamente evitare che il Sud percepisca come ostili le misure previste dalla Pesd – in particolare la costituzione di forze di reazione rapida europea e di difese antimissili, le misure contro la proliferazione e l’inclusione dell’immigrazione e della criminalità nel settore della sicurezza. Certo, il fatto che il Sud protesti maggiormente per le forze di reazione rapida europea che per quelle della Nato appare paradossale. Sta di fatto che l’Europa non viene percepita da molti Paesi arabi come una credibile alternativa rispetto agli Stati Uniti. Non lo è anche perché non dispone né delle forze necessarie né, soprattutto, della volontà politica indispensabile per garantire la stabilità dell’area.

Solo in unione con gli Stati Uniti, quindi, l’azione europea può divenire credibile. C’è da chiedersi se il secondo pilastro di Barcellona, quello relativo alla sicurezza, non debba essere assorbito dal Nmd, con l’estensione di quest’ultimo a tutti i Paesi dell’area. L’esperienza, d’altronde, dimostra quanto sia difficile contemperare nel processo di Barcellona sia misure di sicurezza e di fiducia che misure cooperative in campo militare – quali quelle sviluppate nel quadro del programma Nato del Paternariato per la pace (Pfp). Senza una forte dimensione transatlantica – a cui tra l’altro la Turchia partecipa a titolo pieno – appare difficile, se non impossibile, un vero processo di stabilizzazione e di un’unificazione della regione mediterranea, soprattutto nel Mediterraneo orientale e nel Medio Oriente allargato al Golfo. Dato che gli Stati Uniti giocano il ruolo di attori principali, è velleitario pensare di ignorarli, come talvolta tende a fare Parigi.

Esistono, naturalmente, interrogativi di fondo. Il primo è se la Nato in quanto tale sopravviverà alla “dottrina Rumsfeld” delle “coalizioni ad hoc” e a quella “Bush” dell’attacco preventivo – o difesa anticipatoria che dir si voglia. Il secondo è se sia possibile un’incisiva politica comune europea nell’area. Sono, queste, domande particolarmente importanti per l’Italia, che è troppo debole e divisa per giocare un ruolo rilevante, se non centrale, nella sicurezza del bacino. Per il nostro Paese, la deriva dell’Unione europea verso Nord-Est può essere bilanciata geo-politicamente solo da una stretta alleanza con gli Stati Uniti. Quest’ultima trova però ostacoli nella frammentazione del sistema politico italiano – tuttora in fase di transizione – e nel crescente anti-americanismo. Uno degli obiettivi del governo italiano – anche nel semestre di presidenza – è dunque quello di ricostruire una certa solidarietà o concertazione sia europea che transatlantica nei confronti dei problemi del Mediterraneo e del Medio Oriente.

Forse l’unico modo di realizzare tale obiettivo è quello di impegnare l’Europa nella ricostruzione dell’Iraq e della Palestina, nonché nello svincolare le forze americane dagli impegni nei Balcani. Data l’impossibilità di ristabilire un’adeguata interoperabilità militare con gli Stati Uniti, l’unitarietà strategico-politica dell’Occidente andrebbe realizzata con un sistema a tre fasi successive. La prima sarebbe quella delle dimensioni hard della politica di sicurezza, incentrata sugli Stati Uniti, indirizzata alla vittoria militare. La seconda consisterebbe nelle fasi più robuste delle azioni di peacekeeping e di peacebuilding e andrebbe affidata alla Nato. La terza sarebbe invece demandata all’Ue e consisterebbe nella ricostruzione e stabilizzazione, nonché nella promozione delle riforme istituzionali ed economiche nella periferia Sud dell’Europa, oltre che in quella Est – dai Balcani al Caucaso fino all’Asia Centrale. Si tratterebbe, insomma, di realizzare una divisione “funzionale” del lavoro. Essa appare come l’unica soluzione per mantenere una certa unità dell’Occidente. Il Mediterraneo potrebbe essere il teatro dell’attuazione di tale politica, che non è rinunciataria, ma realistica. Qualora essa fallisse, non resterebbe all’Italia altra soluzione che privilegiare un bilateralismo di nicchia, in cui le nostre risorse – che sono ridotte pur non essendo trascurabili – andrebbero concentrate nei settori in cui i nostri alleati principali nel Mediterraneo – cioè gli Stati Uniti – sono più carenti. In sintesi, quello che si propone è di trasferire alla Nato il secondo pilastro di Barcellona, estendendo nel contempo il Nmd a tutti Paesi coinvolti nella Emp e facendo assumere un ruolo centrale – o quanto meno privilegiato – alla Turchia.

Abbandonando i progetti troppo ambiziosi del processo di Barcellona – pur mantenendone le logiche di fondo – e ancor più gli obiettivi che si proponeva il progetto italo-spagnolo della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Mediterraneo, ci si potrebbe limitare a quelli più concreti di una partnership per la pace in Mediterraneo, proposti sempre dall’Italia nel 1997 e incentrati sulla Nato. Come ha proposto Roberto Aliboni, occorrerebbe seguire nel campo della sicurezza un approccio sub-regionale, che tenga conto della peculiarità delle singole aree. In particolare si potrebbe:
a) trasformare in Consiglio di Cooperazione del Mediterraneo la conferenza degli ambasciatori del Nmd, estendendo il dialogo a tutti i Paesi dell’area. Tale consesso multilaterale dovrebbe cercare di affrontare anche problemi di sicurezza che sono stati esclusi dal processo di Barcellona – conflitto arabo-israeliano, questioni di Cipro e del Sahara occidentale, conflitti interni ai vari Stati, fino allo stesso terrorismo di radice islamica. È proprio per aver trascurato i veri problemi che il processo di Barcellona è diventato irrilevante nel campo della sicurezza;
b) sottolineare l’importanza di un accordo transatlantico per la stabilità del Mediterraneo, il cui collegamento con la sicurezza atlantica è stato evidenziato nel vertice Nato di Praga;
c) astenersi da iniziative europee che possano apparire ostili alle opinioni pubbliche e ai governi del Sud, quali quelle di sviluppare forze di reazione rapida europee separate dagli Stati Uniti, di installare difese antimissili, di trattare come problema militare la guerra al terrorismo e come problemi di sicurezza il contrasto all’immigrazione clandestina e alla criminalità;
d) sviluppare iniziative che trasformino il semplice dialogo strategico in paternariato per la sicurezza: ad esempio, addestramenti comuni per le operazioni di supporto della pace, per la ricerca e il soccorso e per l’intervento in caso di calamità naturali o tecnologiche;
e) rafforzare la rete di istituti per la prevenzione delle crisi e dei conflitti, istituendo eventualmente un’Accademia per gli Studi di Sicurezza in Mediterraneo.
f) intensificare in ogni modo la trasparenza e il dialogo, creando condizioni paritetiche tra Nord e Sud. In particolare, si tratta di prevedere la frequenza di ufficiali del Sud nelle Accademie militari del Nord, e viceversa.

In sostanza, la nuova politica europea nel bacino del Mediterraneo può acquisire consistenza ed essere presa sul serio solamente se si fonderà su un nuovo accordo transatlantico. Una politica europea autonoma sarebbe impossibile e, qualora fosse implementata si limiterebbe a un minimo comune denominatore che assicuri il consenso di tutti. La conseguenza sarebbe la sua irrilevanza, a dispetto delle ambizioni ufficialmente sbandierate.

(da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)