Tra il fronte Sud e il fronte Est
di Ludovico Incisa di Camerana

Collocata in mezzo all’Europa tra il Nord germanico e il Sud mediterraneo e tra l’Occidente atlantico e un mare interno, l’Adriatico, l’Italia è un Paese centrale, anzi il Paese più centrale d’Europa, più centrale della Gran Bretagna, che si trova su un baricentro, quello anglo-sassone, più extraeuropeo che europeo, più centrale della Francia e della Spagna, che hanno una facciata rivolta verso l’Atlantico, più centrale della Germania, fin troppo aperta alle correnti orizzontali dell’Est e dell’Ovest, ma chiusa a Sud dal bacino alpino. La centralità è stata per l’Italia una condizione storicamente non sempre felice perché non isolabile e quindi vulnerabile, ma nei periodi migliori straordinariamente propizia ad una predestinazione marittima e mercantile. La sua stessa configurazione geografica, la penisola, si rivela solo per ragioni estetiche simile a quella di uno stivale, quando sarebbe più esatto identificarla come un grande molo, addirittura come il porto dell’Europa.

Nodo di comunicazioni indispensabile, l’Italia non può essere ignorata o scansata nei grandi eventi e movimenti internazionali: la centralità è sempre una sfida, ossia un’opportunità o un rischio. Il geografo tedesco Federico Ratzel sosteneva a proposito dei Paesi centrali: “Se forti esercitano all’esterno un’enorme influenza, mentre versano, se deboli, in assai gravi pericoli”1. Ed in effetti all’Italia è accaduto, come nel Rinascimento, di esercitare all’esterno un’enorme influenza, correndo nel contempo gravissimi pericoli.

La centralità rende difficile la neutralità donde, nel corso del Novecento, il coinvolgimento, anche sbagliato o involontario, dell’Italia in tutti i conflitti del secolo. La sua capacità d’iniziativa autonoma tuttavia è sempre stata limitata dall’incapacità di combattere e difendersi su due fronti diversi, come è accaduto nella seconda guerra mondiale, quando si è trovata impegnata militarmente sia sul fronte Sud sia sul fronte Est. La costa dirimpettaia africana, il fronte Sud, si rivelerà una trappola mortale e finirà per diventare, come aveva previsto Ratzel2, la piattaforma per l’attacco al territorio metropolitano. Nel fronte Est, quello dei Balcani, viceversa, si manterrà, anche se duramente contrastata, l’occupazione di vasti territori, poi non sopravvissuta all’armistizio del 1943, determinato militarmente dall’invasione dal Sud della penisola.

L’Ostpolitik italiana

Dopo la seconda guerra mondiale l’influenza italiana in queste due aree, la terrazza mediterranea africana e l’area danubiano-balcanica, si riduceva al minimo e quel minimo inserito nell’ambito dalla propria adesione all’Alleanza atlantica. Neppure il vuoto di potenza subentrato dopo l’evacuazione dell’Egitto da parte della Gran Bretagna, dalla fine del suo semiprotettorato sulla Libia, dall’abbandono da parte della Francia, del Marocco, della Tunisia e dell’Algeria offriva spazio all’Italia, ma i suoi cittadini subivano le stesse angherie subite dagli altri europei fino all’espulsione generale nel caso della Libia. La questione palestinese d’altra parte scoraggiava iniziative autonome non concordate con il nostro maggiore alleato, gli Stati Uniti. Né si presentavano interessi nazionali precisi in favore di un certo saltuario attivismo diplomatico. Lo stesso interesse italiano alle forniture di petrolio provenienti da quello scacchiere si rimetteva più alla capacità egemonica degli Stati Uniti nell’area anziché a manovre diplomatiche raffinate, ma finite regolarmente su binari morti.

I rapporti con l’area balcanica ed in particolare con la Jugoslavia assumeranno invece una certa corposità dopo la sistemazione definitiva del contenzioso confinario con il trattato di Osimo (1975). Con tale accordo l’Italia rinunciava definitivamente alle terre perdute nel 1945, ma in compenso si presentava come il ponte tra la Comunità europea e il mondo balcanico. Certi propositi enunciati nel trattato come la creazione di una zona industriale comune nel Carso e la costruzione del canale Monfalcone-Danubio non avranno seguito. Ma le frontiere si aprirono.

La riuscita dell’intesa italo-jugoslava (nel 1987 si pensa perfino ad un regime economico semiassociativo tra i due Paesi) incoraggerà la conclusione di accordi di collaborazione a livello regionale estesi anche ad altri Paesi balcanici, alle regioni ungheresi e austriache adiacenti (Comunità Alpe-Adria, Comunità alpina). La collaborazione infine si allarga anche agli Stati. Quasi contemporaneamente alla caduta del Muro di Berlino, l’11-12 novembre 1989, a Budapest viene sottoscritta dai ministri degli Esteri d’Italia, Austria, Ungheria e Jugoslavia una Dichiarazione congiunta, che darà origine alla Quadrangolare, promossa pochi mesi dopo Pentagonale, con l’adesione della Cecoslovacchia e poi dei due Stati in cui si dividerà, la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Dopo il dissolvimento della Jugoslavia l’associazione, abbandonando le figure geometriche, cambierà nome: si trasformerà in Iniziativa centro-europea (InCe) e raccoglierà l’adesione di cinque Stati ex jugoslavi, la Croazia, la Slovenia, la Macedonia, la Bosnia-Erzegovina, l’attuale Federazione della Serbia e del Montenegro. Seguiranno altre affiliazioni: la Polonia, la Bulgaria, la Romania, l’Albania, la Moldovia e perfino l’Ucraina e la Russia Bianca. All’InCe si è aggiunta l’Iniziativa adriatico-ionica, che completa a Sud l’ordito italo-balcanico, includendo la Grecia e gli Stati adriatici rivieraschi.

Il successo nelle adesioni non ha avuto inizialmente riscontri risonanti, ma, indubbiamente, ha anticipato l’integrazione dei paesi dell’Est nella Nato e nell’Ue, assicurando all’Italia un ruolo di collegamento e di avanguardia, che può essere ulteriormente valorizzato in direzione della Federazione Russa nel caso dell’InCe, della Turchia nel caso dell’Iniziativa adriatico-ioinica.
Il Fronte Est ha inoltre una precisa architettura progettuale: la realizzazione di due vie di comunicazione. La prima interessa l’Italia del Nord: il corridoio 5, Venezia-Trieste-Lubiana-Budapest-Kiev; ad esso si congiungerebbero diramazioni transeuropee come la Lione-Torino e la Barcellona-Genova. La seconda interessa il Mezzogiorno e la sua costa pugliese: il corridoio 8, Brindisi-Bari-Durazzo-Tirana-Skoplie-Sofia-Varna (porto bulgaro sul Mar Nero) con diramazioni per Istambul ed un agganciamento a Varna al corridoio 10, che dal porto greco di Alexandropolis porterebbe ad Odessa. All’Italia centrale interessa la tratta Ploce (l’unico porto bosniaco) – Budapest. Con una simile rete l’Italia sarebbe in grado di affrontare la concorrenza delle vie di comunicazioni nordiche sostenute dal sistema fluviale navigabile Reno-Oder-Danubio3.

La sponda perduta

A favore dell’Europa dell’Est agisce anche un altro fattore. Verso l’Est c’è stata storicamente una frequentazione politico-militare, in cui spesso la solidarietà ha prevalso sulla contrapposizione: è il caso del Kosovo, liberato dal dominio ottomano nel 1689 da due reggimenti di cavalleria imperiale comandati da un generale italiano, Piccolomini. Quando il Kosovo verrà riconquistato dall’esercito ottomano, cento mila profughi serbi seguiranno le truppe austriache comandate da un altro italiano, Veterani, che si era opposto fino all’ultimo alla ritirata. Nel 1918 il Kosovo venne occupato dalla XXXV divisione italiana e da una divisione coloniale francese, nel 1941 dalle divisioni italiane Puglie e Firenze nonché da una divisione tedesca. Questi corsi e ricorsi secolari valgono anche per altri luoghi balcanici: in diversi casi in Bosnia, nel Kosovo, in Macedonia i reparti italiani impegnati nel peace keeping sono stati stanziati nelle stesse località, un tempo guarnite dai loro nonni o bisnonni. C’è per certi luoghi balcanici una famigliarità istintiva che in un’Africa del Nord, completamente arabizzata, non esiste più.

Tutto sommato è in quest’area che l’Italia è in gara con la Germania per il primato nei traffici commerciali. È sui Balcani che sembra puntare il sistema bancario italiano. Ed è proprio in alcune località balcaniche che si sono formate delle vere e proprie colonie industriali italiane.

All’epoca fascista la striscia costiera libica sotto la sovranità italiana era definita romanticamente la “quarta sponda”. Dopo gli stentati e falliti tentativi di ricupero del secondo dopoguerra si sono appassiti anche i richiami sentimentali. L’Eni ha cercato invano di ricuperare la grande occasione perduta: quello che era considerato uno scatolone di sabbia, era in realtà un grosso barile di petrolio. Dopo aver fatto una certa anticamera anche l’impresa italiana avrà la sua parte tanto che oggi la Libia è per il fabbisogno italiano in combustibile una delle più copiose fonti di approvvigionamento. Non soltanto ma capitalisti libici investono in Italia. Dovrebbe esserci tra i due Paesi, fondamentalmente complementari, una forma di associazione. Forse l’ostacolo è costituito da un’eredità di risentimenti, dalle richieste di rivalse su fatti e misfatti che, a più di un secolo di distanza dalla fine del dominio italiano, appaiono sempre più remoti e sfocati. Probabilmente per quella sponda è su questi fatti e misfatti che si fonda un’identità nazionale. Ma con tali residui psicologici è difficile immaginare un dialogo. Né aiutano, tenendo presente il carattere più nazionalista che fondamentalista del regime di Gheddafi, le iniziative volte a basare la riconciliazione sulle ispirazioni ecumeniche, su presunte convergenze interconfessionali.

Una memoria storica negativa grava egualmente sui rapporti tra il Nord Africa e gli altri ex colonizzatori. Le contraddizioni più vistose riguardano il rapporto Parigi-Algeri: la popolazione algerina rumorosamente protesta perché la Francia non spalanca le sue porte, il regime resiste con fatica alle pressioni di bande di fanatici che pretendono l’islamizzazione del Paese. Il dilemma drammatico sull’accettazione o meno della modernità occidentale è vissuto anche in Marocco sia pure con minore tormento interiore.
La sindrome dell’identità impedisce un raccordo organico con l’esterno, con la sponda europea, donde la fragilità dell’ordito comune. Nonostante milioni di immigrati in Francia, Germania, Spagna e anche Italia, da una parte e dall’altra le forniture di gas naturale e petrolio. Emerge così una forma di complementarità sgradita e riluttante, ben differente dalla quasi affettuosa fraternizzazione che esiste tra gli europei dell’Est e dell’Ovest. Talché pochi sono stati i passi avanti nella direzione del Sud. I rapporti con la costa nord-africana araba sono rinviati alla buona volontà di un’Unione europea, già poco sensibile nella sua ala nordica e baltica al mondo mediterraneo, e prevedibilmente ad esso ancora meno sensibile dopo l’allargamento.

La creazione di un’area di libero scambio, prevista dalla conferenza di Barcellona del 1995 è ancora di là da venire. Su di essa si proietta un’ombra ulteriore. Il dialogo euro-arabo, così vischioso e inconcludente, è ormai condizionato dalla ricomposizione del Medio Oriente assunta dagli Stati Uniti con l’occupazione dell’Iraq. Sarà più indicativo per il futuro ciò che americani ed europei faranno insieme a Baghdad, anziché il volenteroso ma incerto approccio di Bruxelles. A questo punto è ovvio che per l’Europa e per l’Italia la controparte più promettente sia l’Europa dell’Est. Sul Fronte Sud c’è sempre il rischio di perdere.

(da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)