Dalla parte dell’Occidente
di Franco Frattini

La difficile crisi diplomatica che ha preceduto l’intervento in Iraq contiene in sè tre lezioni importanti per il futuro dell’Unione europea. La prima è che l’identità europea non può essere costruita in opposizione agli Stati Uniti. Semmai vi fossero tentazioni in questo senso, esse non danneggerebbero solo i rapporti transatlantici, ma dividerebbero anzitutto l’Europa. I Paesi dell’Unione debbono concepire in modo complementare la solidità del legame con gli Stati Uniti e la loro adesione all’Unione europea e non essere chiamati a scegliere. Questa è la posizione convinta dell’Italia, Paese fondatore dell’Europa, che sa bene quanto il processo di integrazione europeo sia stato storicamente sostenuto e talora garantito dagli Stati Uniti. Da parte loro, i nostri amici americani devono essere consapevoli – come lo sono stati in passato e come il presidente Bush ha riaffermato a Varsavia – che l’integrazione europea rientra nei loro migliori interessi, come fattore di coesione e dunque di solidità della comunità internazionale.

La seconda lezione è che l’Europa – se vuole restare un alleato rilevante degli Stati Uniti, perché realmente utile alla gestione della sicurezza globale – deve essere in grado di darsi una politica estera più unitaria ed efficace. Sul piano istituzionale, i risultati della Convenzione europea vanno in questo senso, con la presidenza stabile dell’Unione, la presenza di un ministro degli Esteri e il rispetto di un equilibrio tra Consiglio e Commissione.

E’ sulla base di questa impostazione – conscia del bisogno di Europa ma realistica nel modo per garantirlo – che l’Italia può aspirare a guidare con successo la Conferenza intergovernativa, e quindi la traiettoria verso l’approvazione della nuova Costituzione europea. La terza lezione che l’Europa deve trarre dal dibattito sull’Iraq riguarda il modo di affrontare un dossier cruciale come quello mediorientale. L’Europa deve anzitutto accettare fino in fondo le sfide dell’agenda post 11 settembre (come del resto è stato ribadito con chiarezza anche al vertice del G8 di Evian in cui erano presenti, per l’Europa, Italia, Francia, Germania e Regno Unito). E cioè riconoscere che le nuove priorità di sicurezza – lotta a terrorismo e proliferazione di armi di distruzione di massa – non possono prescindere anche da una profonda riflessione sul cambiamento politico in Medio Oriente che accompagni e segua una pace stabile e giusta per l’intera regione. La difesa dello status quo, cui l’Europa può essere sembrata incline, è ormai insostenibile. Guardando alle difficoltà del dopo-Saddam in Iraq, diventa ancora più ovvio che la pacificazione ed il cambiamento politico in Medio Oriente non richiederanno mesi, ma richiederanno anni e sforzi internazionali continuativi e consistenti, che avranno successo solo se saranno basati su un forte grado di coesione fra Stati Uniti ed Europa.

Sulla base di queste premesse, l’Europa deve intanto proporsi due obiettivi essenziali: 1. contribuire alla pacificazione e alla ricostruzione dell’Iraq, con forze sul terreno (il contingente italiano di tremila uomini è in parte già dispiegato nel Sud del Paese) favorendo la creazione di un governo transitorio che possa, con una ampia legittimazione internazionale, far ricominciare a funzionare le varie istituzioni sul territorio. È interesse degli europei, ancora più che degli Stati Uniti, che per i compiti di stabilizzazione venga progressivamente attribuito, come già avvenuto in Afghanistan, un ruolo centrale alla Nato, il tutto nella prospettiva di aiutare a creare le condizioni per un governo iracheno rispettoso dell’integrità territoriale e delle diverse componenti etniche. 2. Contribuire al successo della road map, attraverso uno sforzo continuativo di azione e persuasione sulle parti, incoraggiando e stimolando anche altri Paesi della regione ad essere maggiormente coinvolti negli sforzi della Comunità internazionale per raggiungere la pace. I nemici della pace, come anche i più recenti tragici avvenimenti purtroppo dimostrano, sono tanti. Non dobbiamo abbassare la guardia, né perdere le speranze: occorre dare presto risultati concreti e visibili.

D’altra parte, la decisione del presidente americano di impegnarsi direttamente e personalmente sul fronte israelo-palestinese indica la fondatezza delle posizioni assunte, nel lungo dibattito sull’Iraq, da quei Paesi europei – anzitutto Italia, Gran Bretagna e Spagna – che hanno sempre sostenuto che all’intervento in Iraq avrebbe dovuto seguire uno sforzo mirato per pacificare il fronte israelo-palestinese e per trovare soluzioni che coinvolgano progressivamente e positivamente anche Siria e Libano nel processo di stabilizzazione e pacificazione della regione. Al tempo stesso, l’Italia ha sempre ritenuto che una svolta effettiva sul fronte israelo-palestinese renderebbe possibile un rilancio – ma su basi radicalmente innovative – del processo di Barcellona: il chè costituisce una delle priorità assolute della presidenza di un Paese che ha tutto l’interesse a tutelare la dimensione mediterranea dell’Europa, evitando che l’allargamento segni di fatto uno spostamento del baricentro geo-politico europeo verso Nord e verso Est.

Mettendo insieme queste tre lezioni diventa chiara la necessità che Stati Uniti ed Europa si intendano su come affrontare i problemi della governance internazionale. L’Iraq ha in effetti segnato la più grave crisi che si sia mai avuta, dal 1956 in poi nei rapporti transatlantici; perché l’esito finale sia una coesione duratura non è sufficiente ricucire le ferite – come peraltro si sta facendo – ma è necessario gettare le basi per una cooperazione nel lavoro funzionale alle nuove sfide che il mondo occidentale ha di fronte. È indubbio che l’Europa sarà interessata e disponibile ad assumere responsabilità prevalenti nella propria area naturale di influenza, alla sua diretta periferia: va in questo senso la decisione di assumere la guida della missione di stabilizzazione in Macedonia (sostituendo così l’Ue alla Nato), cui dovrebbe auspicabilmente seguire la stessa scelta, a partire dal 2004, per la Bosnia. Va inoltre tenuto conto, ragionando in termini di area di proiezione geografica dell’Europa, che il round di allargamento in corso aumenta di un terzo circa il territorio europeo, spostando i confini del Vecchio Continente verso la Russia, il Caucaso e il Medio Oriente.

Quando la Turchia sarà entrata nell’Unione – ed è augurabile che questo avvenga, perché ciò significherà che un grande Paese islamico avrà attuato con successo la propria transizione democratica dandosi standard europei – l’Europa confinerà con Paesi come l’Iraq e l’Iran. Da molti punti di vista, l’allargamento – e cioè gli incentivi alla stabilità e al cambiamento democratico che la forza di attrazione dell’Unione riesce a generare all’esterno – è la “grande” politica estera di cui è stata capace l’Europa. Ma è evidente che il “club europeo” – dopo le probabili future adesioni dei Paesi balcanici a cominciare dalla Croazia – non potrà estendersi all’infinito; compito dell’Unione è anche quello di definire e di attuare una politica di “vicinato”, capace di rafforzare la partnership strategica con Paesi cruciali che, come la Russia, entreranno di fatto nello spazio europeo.

A questa dimensione geografica deve combinarsi, nel rapporto con gli Stati Uniti, l’obiettiva constatazione che la gestione delle crisi internazionali – che necessitano al tempo stesso di strumenti militari, di forze di peace keeping, di impegno economici e così via – deve poter contare su un’integrazione delle rispettive capacità di Usa ed Europa, facendo sì che l’Europa diventi anch’essa un produttore di sicurezza e quindi un migliore alleato degli Usa. Dobbiamo prendere atto che, oggi, una sola grande potenza globale esiste nel mondo. Ma che ciò non significa negare il ruolo delle azioni e delle iniziative multilaterali, pur se il ruolo delle Nazioni Unite è al centro di un dibattito che spero condurrà ad una riforma complessiva. Creare “poli” alternativi o antagonistici sarebbe velleitario e inutile per conseguire gli obiettivi comuni. Occorre invece un’Europa più coesa, più forte, con capacità militari effettive, convinta sostenitrice non solo dei valori comuni che ci uniscono da cinquant’anni almeno agli Stati Uniti, ma anche capace di tradurre valori e princìpi in azioni comuni da compiere, in sfide da affrontare insieme. Sarà, questo, uno degli impegni più rilevanti della presidenza italiana dell’Unione europea.

(da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)