Infrastrutture per la crescita
di Michele Bagella
Il ministro della Economia Giulio Tremonti ha presentato nei giorni
scorsi a Bruxelles le linee guida per rilanciare la ripresa della
economia europea durante il semestre di presidenza italiano della Ue. Si
tratta di un piano di infrastrutture da 70 miliardi di euro che verrebbe
finanziato tramite la Banca Europea degli Investimenti (BEI), la quale a
sua volta emetterebbe titoli obbligazionari sul mercato il cui rimborso
verrebbe assicurato dai proventi delle opere realizzate. Come è ovvio,
non sono ancora stati forniti i dettagli. Per il momento è stata
sottoposta alla valutazione dei governi la strategia: dare attraverso la
nuova spesa in opere infrastrutturali un impulso alla economia europea,
in questa fase piuttosto fiacca, che vede riviste al ribasso le
previsioni di crescita del Pil da parte della BCE per il 2004 dall’1%
allo 0,7%.
Si tratta, quello proposto, di un rimedio anticiclico quasi da manuale,
dove la novità sta tutta in quel “quasi”. Quando l’economia ristagna e i
tassi di interesse sono molto bassi, la politica monetaria può fare
poco. Se infatti la caduta dei tassi di interesse non è più un incentivo
sufficiente per riattivare la domanda aggregata, ci può pensare lo
Stato, attivando la sua spesa. Questa volta ciò che c’è di diverso è la
modalità attraverso la quale la nuova spesa viene finanziata. Non più a
carico del bilancio dello Stato, già sovraccarico di debiti specie
quello italiano, ma attraverso la mobilitazione della liquidità inerte
presso il sistema bancario europeo, utilizzando una banca
internazionale, la BEI. Questa novità tecnica non è di poco conto.
Infatti con essa non solo si evita di incidere negativamente sui
parametri del Patto di Stabilità che sarebbe pericoloso toccare per non
incrinare la credibilità dell’euro, ma soprattutto si utilizza con
intelligenza la massa di risorse finanziarie che oggi sono in giro per
l’Europa e per il mondo alla ricerca di un impiego più remunerativo di
quello esistente, pari a poco più di uno o due punti percentuali.
Non vi è dubbio infatti che se il Piano-Tremonti dovesse incontrare il
consenso dei governi europei, si metterebbe in moto il meccanismo delle
emissioni da parte della BEI offerte a tassi di interesse più elevati di
quelli attuali per attirare i sottoscrittori. Si uscirebbe dalla attuale
trappola della liquidità e si rimetterebbe in moto il meccanismo della
domanda che dall’industria fornitrice dei beni e servizi per le
infrastrutture si estenderebbe in generale al resto dell’industria
manifatturiera attraverso una ripresa dei consumi. Sarebbe un segnale
importante per i consumatori Ue che la ripresa è alle porte, che farebbe
crescere il loro indice di fiducia e per suo tramite ridarebbe fiato
anche alla borsa.
C’è da credere che così impostato il piano riceverà un buon accoglimento
da parte dei governi Ue. Non bisogna infatti dimenticare che con
l’allargamento a Est, è diventata prioritaria la realizzazione dei
cosiddetti “corridoi” ferroviari e l’ampliamento e l’ammodernamento
delle reti autostradali. Non si può infatti immaginare un Europa
allargata con infrastrutture pensate in occidente soprattutto in
funzione nazionale nei 50 anni passati e nei paesi dell’Est in gran
parte oggi obsolete. Prendiamo per esempio il “corridoio 5”, che da Kiev
dovrebbe consentire ai passeggeri ma soprattutto alle merci trasportate
per ferrovia di arrivare fino a Barcellona, passando per la pianura
padana e per il nuovo traforo del Frejus. Disintossicherebbe il traffico
dei TIR nei trafori alpini, aumenterebbe la mobilità favorendo la
competitività dei sistemi produttivi, realizzerebbe la prima vera
dorsale Est-Ovest dell’Europa del 2000, collegando Torino a Lione
attraverso un nuovo tunnel sotto le Alpi di 56 km. Un’opera epocale di
cui beneficerebbero tutti i paesi membri in modo diretto o indiretto, e
che segnerebbe un importante passo nella costruzione di un’Europa più
integrata perché più interconnessa.
Si potrebbero citare altri esempi per altri percorsi ed altre modalità
di trasporto, tutti a forte impegno finanziario. Ma l’ulteriore aspetto
che nell’insieme essi richiamano è legato al confronto competitivo
dell’Europa con il sistema statunitense. E’ questo il tema al primo
posto dell’agenda di politica economica europea da tempo. Tuttavia
finora si è pensato di risolverlo auspicando la riforma soprattutto
delle regole del mercato dei capitali e del lavoro. Sappiamo che la
riforma dei sistemi di governance è fondamentale per ridurre il gap di
efficienza dei mercati dell’Unione Europea rispetto a quelli americani.
Tuttavia essa è una condizione necessaria ma non sufficiente se non
risulta affiancata dal rafforzamento della variabile chiave della
competitività che è la struttura dei trasporti e della comunicazione. Se
non migliora questa, l’economia europea rischia di rimanere zoppa e di
impantanarsi nelle politiche di breve periodo.
L’idea di combinare un piano di opere che richiederà molto tempo per
essere portato a termine e che quindi darà un contributo determinante
alla crescita della produttività europea in modo differito nel tempo,
con un piano di raccolta immediato di risorse finanziarie sul mercato,
utilizzando come punto di riferimento una banca internazionale, che può
fare da leva per incentivare la partecipazione di soggetti privati
(banche e intermediari) alle proposte di finanziamento, appare
un’operazione che ha in sé un importante valore aggiunto: mette insieme
l’esigenza immediata di rilanciare il ciclo europeo con l’esigenza di
rafforzare la sua struttura produttiva. Dovrebbero sentirsi soddisfatti
sia gli economisti della domanda, i keynesiani, che gli economisti della
offerta, i monetaristi. Dovrebbero sentirsi soddisfatti infine anche gli
Stati, dal momento che i meccanismi di project financing a cui si
intende dare vita non dovrebbero impegnare i loro bilanci al di là del
consentito dal Patto di Stabilità, anche se sarà richiesto di impegnarsi
per le garanzie. E questa è indubbiamente una buona notizia.
(da
Emporion, n.28)
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