Le Torri Gemelle dell’Italia
di Giuseppe Sacco
Comunque evolva la difficilissima situazione internazionale creata
dall’attacco suicida alle Twin Towers, è facile previsione che -
al di la di tutte le parole spese sullo “scontro tra le civiltà” -
le già non facili relazioni tra Occidente e paesi islamici
attraverseranno nel prossimo futuro una fase che sarà oltremodo
delicata. Lo si è visto nella premura con cui è stata scartata
l’ipotesi di cercare eventuali responsabilità dei paesi da cui
provenivano gli attentatori, non appena si è intravisto che in
questo modo si rischiava di risalire nientemeno che all’Arabia
Saudita. E’ facile infatti immaginare l’ampiezza delle conseguenze
sul mercato dell’energia che avrebbe un raffreddamento dei
rapporti tra l’America e la principale potenza petrolifera del
mondo. Il mercato, peraltro, ha mostrato di non crederci, tant’è
vero che - dopo la strage di Manhattan - il prezzo del brent è
salito brevemente al di sopra dei trenta dollari, per poi tornare
rapidamente al di sotto (e si ricorderà che al momento della
Guerra del Golfo il prezzo per barile superò i quaranta dollari).
Gli equilibri dello scacchiere mediorientale - e quindi dei
mercati dell’energia - sono comunque quelli maggiormente messi a
rischio dai tragici eventi di New York e Washington. E gli
Americani - soprattutto il Dipartimento di stato - sembrano
esserne fortemente consapevoli. Basta pensare al passo distensivo
che gli Usa hanno praticamente imposto ad Israele, per dar prova
alle capitali arabe di essere in grado di svolgere un ruolo
positivo nel più doloroso punto di crisi. E basta chiedersi in che
misura il fatto che si tratti di paesi irrilevanti sul mercato
dell’energia abbia giocato nella scelta di mettere sotto pressione
l’Afghanistan e il Pakistan.
Ciò che accade in questa parte del mondo non è mai - e non può
essere - senza conseguenze per l’Italia, che è immersa nel
Mediterraneo sino al collo, e che ha intensi rapporti con i paesi
dell’altra sponda. Anzi, l’essenziale della politica estera
italiana (a parte le scelte “istituzionali” effettuate negli anni
Cinquanta per la Nato e per l’Europa) si svolge nei paesi del
Mediterraneo, come peraltro in questi paesi hanno sempre operato
quel po’ di servizi segreti che non risultano in un modo o
nell’altro deviati verso la lotta politica interna. E da questi
paesi l’Italia è oggi fortissimamente dipendente per i suoi
approvvigionamenti energetici. Oltre al petrolio comprato dalla
Libia, c’è poi - per quanto riguarda il gas - una struttura fissa
di collegamento con l’Algeria, un gasdotto, cui si aggiungerà tra
breve un altro gasdotto in costruzione tra la Sicilia e la Libia.
E i contratti che ci legano a questi paesi, per
l’approvvigionamento di un combustibile destinato a diventare
sempre più importante nella struttura dei nostri consumi, anche
per la produzione elettrica, hanno durata venticinquennale, e sono
del tipo take or pay, che ci obbliga a pagare il gas anche se poi
non possiamo prenderlo. Insomma una dipendenza assai forte e un
vincolo rigidissimo.
Naturalmente, questa allarmante connessione strutturale tra il
mercato italiano dell’energia e alcuni fornitori espone l’Italia
alle conseguenze non solo dei venti di guerra che oggi spirano tra
Occidente e mondo islamico, ma anche ad altri fenomeni di durata
probabilmente più lunga e di esito più pericoloso, come
l’estremismo politico nel mondo islamico. Ci espongono cioè alla
instabilità interna di paesi come l’Algeria e alla stessa ipotesi
del terrorismo internazionale. Un attentato al gasdotto sarebbe
infatti meno clamoroso e tragico - in termini di vite umane - di
quello perpetrato a Manhattan, ma altrettanto serio dal punto di
vista dello sconvolgimento della vita di ogni giorno, almeno per
quel che riguarda l’Italia. La Libia e soprattutto l’Algeria
rischiano insomma di diventare le nostri Torri gemelle.
Di fronte a questi rischi, appaiono assai miopi, e passabilmente
ridicoli, i pretesti partigiani e le difficoltà burocratiche che
vengono opposte sia alle grandi interconnessioni per trasportare
energia attraverso le Alpi sia ai porti attrezzati che
consentirebbero l’importazione di gas liquefatto via nave e ci
liberebbero dal vincolo con uno specifico fornitore. Sono
difficoltà che finiscono per accentuare la debolezza principale
dell’Italia in campo energetico, quella di essere una specie di
isola gravitante più verso le coste del mondo islamico, che verso
le coste dell’Europa. E’ vero che una parte decrescente, ma non
ancora irrilevante, della nostra produzione elettrica è fondata
sul carbone, che è una materia prima nettamente più economica - a
parità di potere calorifico - degli idrocarburi, e per la quale
esiste un mercato mondiale con molti fornitori importanti e non
soggetto ad oscillazioni violente come quelle del petrolio, se non
come contraccolpo di queste ultime. Non a caso, l’Enel - sia per
ragioni di costo che di sicurezza degli approvvigionamenti - ha
sempre insistito nella difesa di questo combustibile nel mix
energetico italiano. Per ragioni ambientali, tuttavia, tale quota
sembra - a meno di cambiamenti successivi alla crisi del settembre
2001 - destinata a diminuire, a vantaggio del gas. Va comunque
detto che anche per il carbone esiste il problema di ridurre la
nostra dipendenza dalle importazioni provenienti dall’Indonesia,
paese che oltre ad essere islamico è già in preda ad una violenta
crisi e minato dal fatto di essere composto da oltre 10 mila isole
e con 40 gruppi etnico-culturali diversi, uno dei quali - Timor
Est - è già riuscito a fare un sostanzioso passo verso
l’indipendenza.
21
settembre 2001
saccogi@hotmail.com
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