Irak. L'ombra minacciosa di Saddam Hussein
di Laurie Mylroie


Dietro la carneficina di New York e Washington vi è sicuramente uno stato nemico. Solo uno stato ha davvero la capacità di mettere in atto un'operazione così massiccia, complessa e sofisticata. E lo stato più ovvio è l'Irak. Gli Stati Uniti bombardano l'Irak regolarmente e applicano un assedio economico che ha origine dalla guerra del Golfo. Quella guerra, in realtà, non è mai finita. E tuttavia sembriamo incapaci di comprendere la natura degli attacchi della settimana scorsa e forse anche di affrontarli con efficacia. Ci concentriamo su Osama bin Laden. In qualche modo egli sembra essere un colpevole più probabile dell'Irak, anche quando esiste la possibilità che i due operino insieme. Questa confusione ha origine nel modo in cui l'amministrazione Clinton ha gestito il terrorismo, soprattutto i due attentati dinamitardi avvenuti nei primi sei mesi del suo primo mandato.

Il Trade Center fu attaccato per la prima volta il 23 gennaio del 1993, con un tentativo di far crollare la torre più alta di New York sulla sua gemella (un lavoro portato a termine la settimana scorsa). L'Fbi di New York, in particolare il suo capo, Jim Fox, che ha diretto le indagini a New York, credeva che l'Irak fosse responsabile - che si trattasse di un'operazione "con una falsa bandiera", gestita dall'intelligence irachena che aveva poi abbandonato gli estremisti musulmani che vi avevano partecipato, in modo che fossero arrestati e si addossassero la colpa. La bomba era enorme. Creò un cratere profondo sei piani nel basamento. Le informazioni di Fox venivano dal controspionaggio. Capì che gli individui violenti ma stupidi che stava arrestando - come Mohammed Salameh, tenuto in stato di fermo dopo che era ritornato all'autonoleggio Ryder per recuperato il denaro lasciato in deposito per il camioncino che aveva trasportato la bomba - non avevano potuto mettere in atto l'attacco da soli. C'erano iracheni dovunque. Uno è un fuggiasco incriminato che venne da Baghdad prima dell'attentato e vi fece ritorno dopo. L'attacco ebbe luogo in un giorno vicino all'anniversario della tregua della guerra del Golfo (28 febbraio, una domenica del 1993), che era ancora un ricordo molto vivido. Quindi, c'era una buona ragione per sospettare l'Irak. E la Casa Bianca lo sapeva. Però si mise in testa che poteva affrontare il terrorismo a New York senza spiegare pubblicamente cos'era successo. 

Quando l'ex presidente George Bush visitò il Kuwait ad aprile, Saddam cercò di assassinarlo, un'operazione contrastata dagli ufficiali kuwaitiani. Più o meno contemporaneamente, l'Fbi di New York lanciò un'operazione segreta per impartire una lezione agli estremisti musulmani. Un informatore egiziano si comportò da agent provocateur. Un rifugiato politico sudanese abboccò e volle fare la "jihad". Il suo primo obiettivo fu un'armeria di Manhattan. Aveva due "amici" nella missione all'Onu del Sudan, agenti dei servizi segreti, che alla fine scelsero gli obiettivi: le Nazioni Unite, il palazzo federale a New York, e due gallerie. Quando l'Fbi ebbe tutte le prove di cui aveva bisogno - soprattutto il video dei cospiratori che mescolavano quello che credevano esplosivo - li arrestò. Naturalmente le autorità americane sapevano del coinvolgimento dei servizi segreti sudanesi, perché erano loro a gestire l'operazione. La Casa Bianca credette che il Sudan facesse da copertura ad un altro paese, perché i rapporti fra gli Stati Uniti e il Sudan non erano allora così ostili da giustificare un atto di terrorismo di tali proporzioni da essere equivalente a una guerra. Pensò in termini di terrorismo islamico e pensò all'Iran. 

Due giorni dopo l'arresto dei cospiratori, il 26 giugno, Clinton attaccò il quartier generale dell'intelligence irachena. Pubblicamente disse che si trattava di un atto di ritorsione per il tentato omicidio di Bush da parte di Saddam. Ma credeva che sarebbe servito anche come ritorsione per la cospirazione dinamitarda di New York. Avrebbe scoraggiato Saddam dal commettere ulteriori atti terroristici e, allo stesso tempo, sarebbe servito da avvertimento al Sudan e all'Iran per il ruolo che avevano avuto nella seconda operazione. Affrontando il terrorismo in questo modo, Clinton evitò di irritare il pubblico americano, che avrebbe potuto pretendere molto di più, se avesse capito cosa era successo o cosa si pensava che fosse successo. Perché quasi certamente l'Iran non era la mano nascosta della seconda operazione, il cui primo obiettivo erano le Nazioni Unite. L'Iran non aveva questioni in sospeso con l'Onu. Per l'Iran la questione più importante con l'Onu era rappresentata dalla risoluzione del consiglio di sicurezza che poneva fine alla guerra Iran-Irak. La risoluzione stabiliva che l'Irak era stato l'aggressore e che avrebbe dovuto versare all'Iran una somma riparatoria di decine di miliardi di dollari.

E l'Irak intratteneva stretti legami con il Sudan. Entrambi sono stati arabi sunniti. Il Sudan ha appoggiato l'Irak durante la guerra del Golfo. In seguito Khartoum diventò una delle basi principali dell'intelligence irachena. L'Irak aveva avuto un'enorme disputa con l'Onu, sotto la cui egida fu combattuta la guerra del Golfo e furono mantenute le sanzioni. Era molto più probabile che dietro il Sudan ci fosse stato l'Irak e non l'Iran nella seconda operazione. L'attacco al quartier generale dell'intelligence irachena per un po' scoraggiò Saddam e tuttavia, nel dicembre del 1994, l'autore di questo articolo avvisò Martin Indyk, allora consigliere per la sicurezza nazionale per il Medio Oriente, che non sarebbe stato così per sempre. In realtà, già mentre noi parlavamo, Ramzi Yousef - cervello dell'attentato dinamitardo al Trade Center e agente dei servizi segreti iracheni - progettava di bombardare una dozzina di aerei americani nelle Filippine. L'enorme follia dell'amministrazione Clinton fu quella di credere che Saddam sarebbe stato così impressionato da quell'unico attacco di missili cruise da non intraprendere più alcuna azione contro gli Stati Uniti. Il modo furbesco in cui l'amministrazione Clinton ha gestito le azioni dinamitarde del 1993 ha originato la nozione errata di un nuovo tipo di terrorismo che non veniva messo in atto da stati, ma da individui o da "reti slegate". E tuttavia non vi era niente di nuovo nel terrorismo. La sola cosa nuova era il modo in cui gli Stati Uniti lo gestivano. Clinton gestì clandestinamente la questione relativa al coinvolgimento di stati, che riguardava la sicurezza nazionale, e pubblicamente, attraverso processi, la questione criminale relativa alla colpevolezza o all'innocenza degli individui. Come era prevedibile, il terrorismo crebbe senza che venisse mai affrontato il problema del ruolo degli stati in tali attacchi. Questo ha portato direttamente alla tragedia della settimana scorsa e alla nostra incapacità di riconoscerne il vero autore. 

21 settembre 2001

da National Review on line

(traduzione dall'inglese di Barbara Mennitti)