Gli americani hanno ritrovato un leader
di Andrea Mancia

Nel momento più difficile, i cittadini statunitensi hanno probabilmente trovato nel presidente George W. Bush il leader di cui avevano bisogno. Ma l'aspetto più singolare della vicenda è che qualcuno di loro sembra sia costretto, quasi a malincuore, a doverne prendere atto. Nelle ore immediatamente successive alle sconvolgenti tragedie che hanno colpito New York e Washington, i commentatori liberal dei mass media Usa avevano criticato, senza mezzi termini e con una massiccia dose di cinismo, la decisione del presidente di non tornare immediatamente alla Casa Bianca. Per poi fare precipitosamente marcia indietro quando la Cia ha svelato che la residenza del presidente era (o poteva essere) uno degli obiettivi "sensibili" degli attacchi terroristici. Proprio come aveva fatto Peter Jennings, il vezzeggiatissimo "Michele Santoro della ABC", con le macerie ancora fumanti delle Twin Towers, anche David Broder, editorialista di punta del Washington Post, aveva avanzato l'ipotesi che Bush avesse preferito nascondersi in Nebraska piuttosto che affrontare direttamente qualsiasi responsabilità di comando. 

Sono state polemiche durate lo spazio di 24 ore, spazzate via dal coraggio con cui il presidente Usa ha saputo affrontare la situazione e dall'orgoglio con cui il popolo americano ha voluto stringersi intorno al proprio "Commander-in-Chief". Secondo Gallup, il "tasso di approvazione" per Bush è salito dal 51 all'86 per cento, raggiungendo livelli già toccati soltanto da Bush Sr. durante la Guerra del Golfo e da Harry S. Truman dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Un balzo in avanti che non è possibile spiegare soltanto con la straordinarietà del momento e con il ritrovato patriottismo a stelle e strisce. La verità, come ha dovuto ammettere anche la schiacciante maggioranza dei commentatori liberal, è che Bush - insieme alla sua amministrazione - ha fino ad oggi gestito gli eventi con una lucidità e un'intelligenza fuori dal comune. Ed è anche riuscito a toccare, come durante la sua visita alla martoriata Manhattan, le corde giuste del comune sentire, sfoderando capacità retoriche che non gli venivano riconosciute neppure dai suoi sostenitori più accaniti.

Come durante i giorni decisivi della campagna elettorale per le elezioni presidenziali, insomma, Bush ha trovato nella semplicità, nella fierezza e in una sostanziale chiarezza d'intenti l'arma migliore per sconfiggere i suoi critici e dare forma agli ideali di cui è portatore. Impacciato e nervoso quando è costretto a recitare davanti a fotografi e telecamere la parte che gli è stata assegnata, Bush da il meglio di sé quando il contesto gli permette di essere spontaneo. Ed è diventato un leader commosso e commovente quando, al fianco del sindaco Rudolph Giuliani, ha portato l'affetto di tutti gli americani ad una New York che ancora piangeva le sue vittime.

In quel momento, toccante ma non melenso come le sceneggiate a cui ci aveva abituato il "Mourner-in-Chief" che lo ha preceduto alla Casa Bianca, qualcosa deve essere cambiato in Bush, o almeno nella percezione che aveva di lui una parte dell'opinione pubblica Usa e una gran parte dell'opinione pubblica europea. Il presidente, hanno scritto i giornalisti che lo seguono da vicino, è riuscito ad entrare in una sintonia quasi perfetta con il popolo di cui è il massimo rappresentante. Interpretando le sue aspettative e la sua voglia di riscatto, ma anche l'angoscia e il dolore che lo hanno colpito a tradimento. E una leadership, pacata ma instransigente, è proprio quello che gli Stati Uniti si aspettano dal proprio presidente e che il mondo libero si aspetta dagli Stati Uniti.

21 settembre 2001

anmancia@tin.it