La prima volta degli Stati Uniti d’America
di Stefano da Empoli

In questi giorni molti hanno percorso a ritroso la storia degli Stati Uniti per cercare un episodio o un periodo che potesse essere paragonabile ai terribili eventi dell’11 settembre. Non è stato facile trovarne e i pochi che sono stati citati appaiono inadeguati per difetto, almeno dai tempi della Guerra di Secessione in poi. L’esempio più menzionato, cioè l’attacco a Pearl Harbor del 7 dicembre del 1941, “un giorno che vivrà nell’infamia” come lo definì Franklin Delano Roosevelt, fece meno della metà dei morti e, macabra contabilità a parte, avvenne soprattutto a migliaia di miglia dal continente americano. Se è vero poi che l’attacco fu a sorpresa e moralmente riprovevole, a subirne le conseguenze furono dei soldati, cioè persone che per dovere professionale rischiano la propria vita. Se è vero che durante la Seconda Guerra Mondiale si temevano incursioni aeree giapponesi sulla costa ovest degli Stati Uniti e c’era perfino chi pronosticava invasioni della California, la vita della maggioranza degli americani non subì alcuna conseguenza. Tranne per le centinaia di migliaia di immigranti giapponesi e i milioni di americani in armi nel Pacifico e in Africa e poi Europa. Per chi rimaneva a casa, però, nulla cambiò, se non la preoccupazione delle famiglie di chi era al fronte. La routine tuttavia era largamente immutata, cioè libera come sempre dalle interferenze di uno stato che mostrava i muscoli a migliaia di chilometri di distanza ma si guardava bene dal farlo a casa propria, giapponesi a parte (e in misura molto minore italiani e tedeschi).

Oggi, a parte una episodica caccia alle streghe alla minoranza di turno (in questo caso gli arabi), il rischio reale e senza precedenti dai tempi di Lincoln ai nostri giorni è che si incrini il principio di non interferenza dello stato nella società americana. Cioè le fondamenta stessa sulle quali poggia “l’eccezionalità americana”, come la definì per primo Tocqueville. E alla quale occorre rifarsi per capire istituzioni e anche dibattiti politici che altrimenti rimangono oscuri ad un osservatore esterno. Tanto per fare un esempio, gli Stati Uniti sono forse l’unico paese al mondo dove il principio “libera chiesa in libero stato” non vuole tutelare lo stato dalla chiesa bensì l’autonomia delle molte confessioni religiose dall’ingerenza statale. Lo stesso dibattito sul porto d’armi, che agli occhi europei appare un episodio di costume, una forma di tributo post-mortem a John Wayne, è vissuto da molti negli States come una guerra di trincea contro l’invadenza dello stato.

Si dirà che tutto sommato le limitazioni alla libertà personale che possono derivare dal terrorismo sono limitate. Al massimo, qualche modifica al codice penale, per dare qualche grado di libertà in più alle investigazioni dell’Fbi, e un controllo più frequente ed esteso dei documenti negli aeroporti e negli altri luoghi che potrebbero essere oggetto di attentati. Se per un europeo questi cambiamenti sono poca cosa, per un americano rappresentano molto. Gran parte del dibattito sul possesso di armi ruota intorno alla creazione di una licenza che permetta all’autorità pubblica di schedare e tenere sotto controllo potenziali autori di crimini da arma da fuoco. Infatti contrariamente a quanto si pensa all’estero, quasi nessuno, neanche tra i democratici, ha mai pensato di mettere in discussione il diritto al possesso di armi, sancito dal secondo emendamento della costituzione. Tutto o quasi verte sulla questione della licenza. Piccola questione per chi sta dall’altra parte dell’Atlantico, principio sul quale non sono disposti a transigere molti milioni di americani. Che infatti si sorprendono quando scoprono che altri paesi, tra cui il nostro, hanno carte d’identità. Di cui nella migliore delle ipotesi non capiscono la funzione o, meno benevolmente, l’attribuiscono alle voluttà sospette di un’autorità che vigila troppo sui destini delle persone.

Combattendo il terrorismo gli americani difendono i principi basilari sui quali si basa la loro filosofia di vita. Perché sul suolo statunitense si continui a vivere così come si è sempre vissuto dallo sbarco dei Padri Pellegrini in poi, hanno però bisogno di spostare il baricentro del fronte sul territorio nemico. In ballo non ci sono solo cinque, dieci o anche centomila vite umane da difendere ma soprattutto gli ideali di chi è emigrato qui da quattro secoli a questa parte, un patrimonio di valore inestimabile. Che si esprime anche e soprattutto nei più piccoli dettagli. Perchè da quelli parte la presa mortale del Leviatano statale. Per questo quella al terrorismo non solo è una guerra in piena regola ma è forse la guerra più importante combattuta dagli americani dalla guerra d’indipendenza in poi.

21 settembre 2001

stefanodaempoli@yahoo.com