E se gli Usa tornassero al non interventismo?
di Carlo Stagnaro


Non ci sono parole per descrivere quello che è accaduto martedì 11 settembre 2001. Le abbiamo sprecate tutte. Aveva ragione Beppe Grillo quando, molti anni fa, criticava il mondo dell'informazione. Se una pioggia un po' più violenta del solito, capace di allagare qualche sottopasso, è una "tragedia", cosa è quello che si è verificato a New York e Washington? Solo il silenzio può dare la misura del dramma che si è consumato. Solo le parole di condoglianze o di solidarietà per l'America hanno un senso. Tutto il resto è speculazione inutile, sensazionalismo da scoop o sottile cinismo.

Non è inutile, invece, chiedersi le ragioni di tutto ciò. E interrogarsi sulle conseguenze. Paradossalmente, coloro i quali hanno inquadrato correttamente la questione sono quanti hanno affermato: "Chi la fa, l'aspetti". La politica estera degli Stati Uniti è stata improntata, nell'ultimo secolo, all'interventismo in tutto il mondo. In quasi ogni paese del globo sono stanziate truppe americane; non di rado, la loro presenza è mal tollerata, o percepita, come aggressiva.

La situazione è stata ben chiarita da Joseph Sobran: "Questo non era terrorismo. Era guerra. Non è stato un tentativo occasionale di spaventare la gente con un'atrocità arbitraria; si è trattato del serio tentativo di uccidere il maggior numero di persone, e di procurare il maggior danno possibile a due obiettivi strategici, le Twin Towers e il Pentagono. Ma, come ho già scritto, nonostante siano passate diverse ore dall'attacco, non sappiamo ancora chi ci ha dichiarato guerra. Forse non lo sapremo mai. Chi ha motivo di odiare questo paese? Solo qualche centinaio di milioni di persone - arabi, musulmani, serbi e molti i altri i cui paesi sono stati flagellati dalle bombe americane".

In un bellissimo libro, significativamente intitolato "The Costs of War", John W. Denson ha scritto: "E' la gente, nel senso più ampio possibile, che perde la vita, la salute, la libertà e la proprietà, a sostenere tutti i costi della guerra". Parole che, col senno di poi, si rivelano profetiche. Purtroppo, martedì scorso i cittadini americani hanno pagato - con gli interessi - il prezzo di tutto ciò che i loro governanti hanno fatto nei decenni precedenti. Un prezzo quanto mai salato: che ha assunto la forma di un attacco micidiale non solo alla nazione americana, ma anche all'idea di libertà che l'America incarna e al capitalismo come modello sociale giusto in quanto liberale; un colpo micidiale al cuore stesso dell'Occidente.

Il vero problema è che, spinti spesso dai migliori sentimenti, i governi americani hanno inviato le proprie truppe ovunque, con lo scopo di estirpare tutti mali del mondo. Il risultato che hanno ottenuto, però, è stato di seminare morte e distruzione: e chi semina vento, si sa, raccoglie tempesta. Con la convinzione di esportare le proprie libertà repubblicane, gli Stati Uniti hanno costruito un impero. Esso, scrive ancora Sobran, "è oggi un impero globale, che vuole pensare a se stesso come a un benefattore universale, e restano sconcertati quando scoprono che gli stranieri non la vedono così. Nessuno dei precedenti imperi del mondo, per quanto ne so, ha subito la stessa delusione; i romani, i mongoli, gli inglesi, i russi e i sovietici non si aspettavano di dominare e, al tempo stesso, essere amati. Perché noi lo facciamo?".

Sentimenti analoghi vengono espressi - e non da ieri - da molti cittadini. E uniscono, per una volta, i libertari più intransigenti, come Lew Rockwell e Ralph Raico, agli eredi della "vecchia destra" (l'ultimo libro di Pat Buchanan si intitola "Una repubblica, non un impero") e agli esponenti della sinistra radicale, come Gore Vidal. Quella del non-interventismo, inoltre, è la vecchia tradizione americana. Il motto del presidente George Washington e dei suoi successori, per quanto riguarda la politica estera, era: buoni rapporti con tutti, stabili alleanze con nessuno. Henry Clay definiva gli States la "lampada che arde sulla riva occidentale", con ciò intendendo che l'America doveva essere la guida morale, non il dittatore del mondo.

Non è importante, insomma, quello che accadrà nell'immediato futuro. E' anzi doveroso che il responsabile della tragedia venga trovato e schiacciato. Si parla di Osama bin Laden; lo si ammazzi, senza troppi pensieri. Che sia o no l'autore del dirottamento degli aerei, ha già commesso crimini sufficienti a giustificare questo e altro. L'augurio da rivolgersi è che George W. Bush abbia la forza di mantenere le proprie promesse elettorali: di ritirare le truppe americane del mondo, e di schierarle solo dove sono davvero in gioco gli interessi e i diritti dei cittadini americani. Il paese a stelle e strisce deve fare appello a tutta la sua storica grandezza; esso deve chiamare tutte le proprie forze. Bisogna che il popolo sia saldo nella propria fede, che la nazione riesca a sfruttare al meglio i propri anticorpi libertari, che il governo sappia esercitare, lealmente e in modo illuminato, i propri poteri. Senza trasformare la tragedia nell'ennesima scusa per sottrarre libertà ai cittadini e imprimere all'ordinamento istituzionale una nuova virata centralizzatrice e militarista. Oggi più che mai, Dio benedica l'America.

14 settembre 2001

cstagnaro@libero.it

 


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