Il principio di Tucidide
di Giuseppe Sacco


Il primato della politica tanto sulla forza militare che sull'economia emerge sempre nelle grandi occasioni, siano esse gioiose o tragiche. E lo si è puntualmente rivisto persino in occasione della catastrofe del World Trade Centre, simbolo come nient'altro della potenza economica sprigionata dal fervido mondo del business americano. Ciò non significa che non vi siano - di questa terribile vicenda - aspetti strategici nuovi, importanti e assai allarmanti, nonché complesse conseguenze economiche di cui bisognerà d'ora in avanti tener conto. Significa solo che bisognerà tenerne conto soprattutto per capirne i risvolti politici. 

La prima di queste conseguenze concerne il paese vittima dell'attentato, e i suoi partners del mondo occidentale. Giungendo al termine di un decennio di eccitazione tecnologica e speculativa, conclusosi con una lunga fase di ripiegamento, il tragico sconvolgimento della vita produttiva determinato dal colpo portato nel cuore di Manhattan non può che rendere più cupe le nubi congiunturali che si addensano sull'economia del mondo intero, e dell'America in primo luogo. Col precipitare delle Borse, enormi quantità di ricchezza investita nei mercati mobiliari vengono infatti ridistribuite in maniera assai diversa da come gli strateghi della politica economica avrebbero preferito che avvenisse al fine di rilanciare la crescita. 

Persino dal lato dei terroristi le conseguenze economiche potrebbero essere assai rilevanti. C'è infatti il legittimo sospetto che chi stava per colpire al cuore il centro finanziario dell'Occidente abbia scontato gli effetti borsistici che ne sarebbero conseguiti, e si sia collocato in posizione tale da profittarne, e da raccogliere nuove risorse per la propria causa. Molte anomale tendenze manifestatesi sulle principali borse nella settimana precedente l'11 settembre potrebbero infatti essere spiegate come massicce vendite allo scoperto da parte di chi sapeva che quello sarebbe stato il giorno di un durissimo vulnus inferto all'America, il colpo d'avvio di un nuovo Settembre Nero, di segno contrario rispetto a quello di trentuno anni fa, quando i palestinesi subirono, ad opera delle milizie beduine del Re di Giordania, uno dei più feroci tentativi di sterminio della loro storia. 

Ma anche se ne hanno diabolicamente profittato sul piano finanziario, il fine dei terroristi restava naturalmente un fine politico. Queste oscure forze non cercavano infatti una nuova Pearl Harbor. Non cercavano di indebolire fisicamente, militarmente o economicamente il nemico. Non tentavano - come i Giapponesi sessant'anni fa - di spazzar via la flotta americana dal Pacifico per restare padroni delle acque. E non volevano neanche danneggiare la forza economica degli Stati Uniti. Ciò che esse volevano colpire - ed hanno effettivamente terribilmente ferito - era il senso di sicurezza dell'America, la tranquilla fiducia che a ciascun cittadino degli Stati Uniti veniva dalla consapevolezza del fatto che, dopo il tentativo britannico di riconquistare, nel 1812, le Colonie ribelli, nessun nemico era mai riuscito a colpire i lower forty-eight, la massa continentale che costituisce il cuore del territorio statunitense. 

La potenza economica e militare dell'America, infatti, non può essere facilmente neanche scalfita. E i terroristi lo sapevano bene, ed infatti non si sono posti questo obiettivo. Essi hanno solo voluto dimostrare al mondo intero che - secondo la formula di Mao - gli Stati Uniti sono una tigre di carta. E che un soldato fortissimamente motivato politicamente ed ideologicamente (come solo il sentimento religioso può fare) può passare attraverso i suoi denti atomici e colpirli al cuore. Contemporaneamente, volevano indebolirli politicamente sul fronte interno, renderli esitanti nel proprio impegno internazionale, indurli a chiedersi se la proiezione della propria potenza ai quattro angoli della Terra valga davvero la perdita delle "vite americane". 

E infatti il vero danno subìto dagli Stati Uniti è tutto politico. La perdita economica - tra edifici distrutti, risorse umane perdute, giorni di paralisi produttiva, distruzione di valore azionario - impallidisce di fronte alla perdita di immagine, alla prova di vulnerabilità, all'incapacità dimostrata dai servizi segreti. Tutta politica dovrà perciò essere la risposta. Non basterà l'orgogliosa ricostruzione del centro di New York con grattacieli più belli e più alti di prima. Né la rappresaglia che tanti, sviati dal confronto con Pearl Harbor, vanno invocando. E già oggi, pur in un paese ancora sotto choc, molte autorevoli voci si sono levate a chiedere una risposta tutta politica e ad indicarne i modi in una più intensa collaborazione con i paesi alleati e istituzionalmente omogenei, in un ulteriore abbattimento delle frontiere che separano le società e i sistemi produttivi dell'Occidente. 

Se si avrà il buon senso di farlo, resistendo alla tentazione di pareggiare i conti col semplice uso dello strumento militare - che contro un nemico indistinguibile ed inafferrabile come una polvere, rischia di essere poco più che un segno di rabbia impotente - anche l'economia mondiale farà un nuovo balzo in avanti. Ma soprattutto si sarà dimostrato che anche nelle democrazie moderne vale il principio espresso da Tucidide secondo cui "di tutte le dimostrazioni di forza, quella che più intimorisce l'avversario è la moderazione".

14 settembre 2001

saccogi@hotmail.com