Qui Washington. God bless America
di Stefano da Empoli

Lo straniero che si trova in questi giorni negli Stati Uniti dovrebbe considerarsi molto fortunato. Non perché è sfuggito all'apocalisse di New York e Washington ma piuttosto perché è spettatore involontario di una reazione collettiva a cui probabilmente non avrebbe mai assistito rimanendo nel suo paese d'origine. Proprio oggi che appaiono più vulnerabili, gli Stati Uniti ci stanno mostrando per quale motivo sono la nazione più ricca e potente al mondo. La differenza non la fanno né una qualche ragione materiale né un accidente della storia bensì una forza morale che mette i brividi. Tutto ciò suonerà un po' retorico ma descrive fedelmente quello che si vede con crescente intensità girando per le strade e accendendo il televisore.

In un altro paese, sarebbe già partito il gioco delle accuse incrociate e degli scaricabarile sull'inefficienza dell'intelligence (che c'è stata) e sulle responsabilità politiche e diplomatiche (che sono state pesanti negli otto di anni di amministrazione democratica che poco o nulla hanno fatto per preparare l'America al mutato scenario mondiale). Ebbene, negli Stati Uniti nessun leader politico, parente delle vittime o cittadino normale ha puntato l'indice contro altri al di fuori del nemico comune, "il terrorismo codardo" di chi uccide indiscriminatamente. In altre nazioni non avremmo mai visto tante bandiere piantate di fronte al giardino di casa o issate per strada dopo quella che si può tranquillamente definire una sconfitta, sia pure temporanea e contro un nemico che non dichiara la propria identità. Anziché essere contestato duramente durante la sua visita di mercoledì al Pentagono, Bush è stato accolto, con il rispetto dovuto alla guida politica e morale di una nazione colpita nell'intimo, da uomini e donne che hanno perso amici, familiari e colleghi in una struttura che si è rivelata più indifesa del previsto. 

Probabilmente un giorno si discuterà a fondo sulle responsabilità dell'apparato spionistico-militare americano. Non è questo però il momento per farlo e tutti gli americani, dal presidente al cittadino comune, sembrano rendersene conto. Con un senso di responsabilità che abbiamo visto altre volte in passato, in momenti decisivi per la nazione e per il mondo intero, ma che di recente è sembrato sempre più relegato agli schermi televisivi e cinematografici. Da ultimo domenica scorsa, quando su Hbo è andata in onda la prima puntata di "Band of Brothers", serie televisiva in dieci puntate creata da Tom Hanks e Steven Spielberg. Che intendevano celebrare, sulla scia di "Saving Private Ryan", il coraggio di molti americani in un altro momento topico della storia di questo paese, durante la Seconda Guerra Mondiale. L'ennesima speculazione commerciale, devono aver pensato in molti. Un colpo di coda dell'edonismo reaganiano, che sfrutta l'eroismo a scopo di lucro. Oppure l'ulteriore manifestazione di quel materialismo che a Osama bin Laden e soci (ma non solo) non è mai andato giù (un tragico eufemismo, dopo quel che è successo).

E' stato lo stesso show business a smentire per primo accuse di questo tipo. Nei giorni dopo la tragedia, proprio nei momenti di massimo ascolto della storia, in televisione non si è visto un minuto di pubblicità. Eppure negli States il canone non c'è. In quali altri paesi sarebbe successo? Se i terroristi islamici e chi li guida ritengono che l'America sia una società di carta (quella dei dollari) e per questo hanno pensato di doverla e poterla colpire impunemente, hanno commesso un tragico errore. Se chi semina terrore se ne accorgerà probabilmente quando la sua sorte sarà già segnata, le elites intellettuali e politiche europee da sempre critiche del modello americano sono in tempo per trarne qualche insegnamento. Purchè abbiano voglia di aguzzare la vista dopo che la nuvola di forti emozioni si sarà diradata. 

14 settembre 2001

stefanodaempoli@yahoo.com