Campo Hobbit, quella festa a lungo attesa
intervista a Umberto Croppi di Cristiana Vivenzio
Alla metà degli anni Settanta i giovani della destra italiana
scoprono Tolkien, ne subiscono il fascino e articolano attorno
alle suggestioni nate dalla lettura de “Lo Hobbit” prima e del
“Signore degli Anelli” poi un percorso reale di rilettura della
propria dimensione, in termini non esclusivamente politici ma
piuttosto generazionali. Tra i “fanatici” tolkieniani di quella
generazione vi era Umberto Croppi, oggi quarantacinquenne
direttore della Casa editrice Vallecchi, all’epoca dirigente
giovanile del Msi che all’esperienza di quegli anni ha dovuto,
forse, molto della sua attività di oggi. E che oggi, alla vigilia
dell’uscita del “Signore degli anelli” sugli schermi
cinematografici - mentre molti rievocano il significato di quella
lettura giovanile e chi ha militato nelle fila della destra rivive
l’esperienza tolkieniana come un momento assolutamente
determinante del proprio vissuto personale - ricorda quel
quinquennio hobbitiano degli anni Settanta al di fuori di ogni
forma di nostalgia passatista.
Come avete scoperto Tolkien, autore allora
quasi clandestino per l’Italia? E perché il riferimento a un
autore del tutto al di fuori della dimensione politica?
In Italia Tolkien fu pubblicato per la prima volta da Rusconi nel
1970. Segnalato in quegli anni dalle riviste “L’italiano”, con un
intervento di Gianfranco de Turris, e “Intervento”, con un
articolo di Franco Cardini, l’autore del “Signore degli Anelli”
venne presentato quasi per caso agli ambienti della destra
giovanile. Alcune centinaia di noi lessero Tolkien e se ne
innamorarono. Non che vi fosse un aperto e chiaro legame con la
politica, ma il racconto di fantasia dello scrittore britannico
significava richiamare un primato della dimensione creativa e
fantastica e una rottura esistenziale con i modelli sociali
piccolo-borghesi. Ne subimmo il fascino al punto che quella
lettura creò in noi una sorta di autorappresentazione individuale.
E va subito detto che nella nostra lettura e nella nostra passione
non c’era nessuna ispirazione neo-pagana, come recentemente hanno
scritto i giornali. A noi semplicemente piaceva quel mondo
fantastico. E all’inizio leggere Tolkien significava
esclusivamente un’esperienza individuale.
E poi che cosa accadde, che cosa produsse
l’immedesimazione dei giovani di destra con Tolkien?
Fu la recensione del libro apparsa su “La Voce della Fogna” e
firmata da Marco Tarchi che funzionò da collante per quanti di noi
avevano scoperto la vitalità e la portata innovativa di quella
letteratura. Per la prima volta veniva scoperto e “adottato” un
autore che nulla aveva a che vedere con i testi sacri del
fascismo, che non scriveva saggi politici, che non proponeva
riletture storiografiche, ma era un narratore puro. Quella
scoperta ci consentì per la prima volta di sentirci a tutti gli
effetti parte della contemporaneità, di uscire dalla diversità cui
eravamo stati relegati per la nostra appartenenza politica. Non ci
sentivamo più diversi. Quando Tolkien scriveva “Le radici profonde
non bruciano”, per noi il senso era evidente: riscoprivamo la
possibilità di pensare un universo esistenziale alternativo al di
fuori delle mitologie passatiste della nostra area politica. Da
questa presa di coscienza collettiva cominciarono a prodursi
effetti, altrettanto spontaneamente di quanto era successo
nell’avvicinarsi di ognuno di noi agli scenari tolkieniani:
nacquero gruppi musicali - come “La compagnia dell’Anello” a
Padova - associazioni, circoli culturali - come la nostra “Taverna
di Brea” a Palestrina. Nelle sedi giovanili cominciarono a
circolare i poster di Hildebrandt con Galdalf al posto dei
manifesti sulle rivolte anticomuniste. E da lì prese le mosse
l’avventura dei campi.
Era il giugno del 1977: la destra giovanile
italiana inaugura i campi Hobbit. Che cosa furono? E che
significato ebbero per la vostra generazione?
I campi Hobbit furono un’idea di Generoso Simeone, un dirigente
politico giovanile e operatore culturale di Benevento. Non so se
realmente Simeone avesse letto “Il Signore degli Anelli”. Certo,
la brillantezza dell’idea consistette comunque nell’averne intuito
la portata innovativa per quei tempi. Siamo nel 1977, dicevamo. Il
primo campo fu organizzato in un paesino del beneventano, con il
divieto formale di Almirante e Fini. Praticamente blindato dalla
polizia, per paura di scontri. Un’immagine, ripensandoci a
distanza di anni, “raccapricciante”. Tre torridi giorni di fine
giugno, 700-800 di noi accampati in un campo sportivo,
improvvisando dibatti sui generis e giochi assurdi. Ricordo che in
quel primo “raduno” si improvvisò addirittura un corteo interno,
tanto la politica in quegli anni era concepita come scontro e a
dimostrare quanto da quel clima di scontro fossimo lontani. Per
noi che vivevamo quell’esperienza fu un’emozione straordinaria.
Come fu accolta l’organizzazione dei campi?
Qualche giornalista partecipò all’iniziativa. E in ogni caso, la
grande rottura antropologica si era consumata. E l’esperienza del
campo si ripeté appena tre mesi dopo. Una formula più aggiornata,
un titolo “Programma domani” e un simbolo, un tubetto di
dentifricio, che già diceva tutto delle intenzioni degli
organizzatori. Volevamo superare ad ogni costo gli schemi
precostituiti della comunicazione retorica. I temi più aggiornati,
gli interventi qualitativamente più validi. Le cose però erano
cambiate in seno al partito. La gestione unitaria del Msi
trasformò il secondo campo in un fallimento. Quella visione
unitaria aveva svuotato i contenuti di significato, annacquandone
il valore innovativo. Sul piano emotivo l’esperienza del campo
venne vissuto come una sorta di psicodramma.
Eppure quel fallimento non segnò la deriva
di quell’esperimento…
Passarono tra anni prima di ritentare l’esperienza e fui io stesso
ad assumermi l’incarico di organizzare il terzo campo Hobbit,
quello che riuscì meglio. Fu concepito come una vera e propria
presa di distanza dal passato, per superare il problema
dell’isolamento cui ci sentivamo confinati, decisi di scegliere un
centro urbano - non più centri disabitati, dunque - anche se non
una città. La scelta ricadde su Castel Camponeschi, in Abruzzo.
Partimmo con due mila lire e riuscimmo a mobilitare uomini e mezzi
per 20 milioni, grazie alle sottoscrizioni di tutti quei volontari
che contribuirono al successo dell’iniziativa. Pensammo ad una
qualità dell’offerta che fosse fruibile da tutti e cercammo di
realizzare tutto tenendo fede alle forme più spettacolari della
comunicazione.
Qual era il motore portante?
La dimensione politica certamente era fortissima, ma era il
progetto ad essere entusiasmante e l’esperienza fu tale da
condizionare le iniziative successive di ciascuno di noi.
L’elemento di maggior distanza dal passato si realizzò nel
rapporto con i mezzi di comunicazione di massa. Accettammo la
presenza dei giornalisti. Il giorno dopo su L’Europeo usciva un
servizio dal titolo “Come Duce vogliamo il Signore degli Anelli”.
Su questa scia appariva sulla prima pagina del Manifesto a firma
di Pierluigi Sullo “Evoluzione della razza fascista in un paesino
dell’Abruzzo”. E Giampiero Mughini per una trasmissione di Rai 1
intitolata “Nero è bello” fece per la prima volta nella nostra
storia una trasmissione interamente dedicata a noi. Una
ricognizione sulla destra che passava in rassegna case editrici,
iniziative culturali, giornali, movimenti femministi.
E il mondo politico come reagì a tanta
visibilità?
In quell’occasione sia Fini sia Almirante rifiutarono di
rilasciare interviste. Ma in poco tempo tutto cambiò. Qualche
giorno dopo ci fu la strage di Bologna, che impose una
normalizzazione interna al partito rispetto alle aperture
creative. Il gruppo di persone che si riunivano attorno alle
iniziative dei campi Hobbit cominciò a disarticolarsi. Questo fu
dovuto soprattutto al fatto che le nostre iniziative, riportando
il confronto sul terreno delle idee e abbandonando quello della
violenza e dello scontro fisico, di fatto sottraevano il movimento
giovanile ad una strumentalizzazione, portando, anzi in luce gli
elementi di similitudine, le analogie generazionali. Questo
percorso di coesione generazionale ci portava a continuare a
cogliere le contraddizioni interne del comunismo ma non portando
la contrapposizione su posizioni oltranziste. L’esperienza dei
campi Hobbit finì lì, molti di noi partirono da lì per occuparsi a
tempo pieno di musica, comunicazione, giornalismo… Avevamo
scoperto la metapolitica.
11 gennaio 2002
c.vivenzio@libero.it
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