L’anima cattolica del padre degli Hobbit
di Carlo Stagnaro
Se un libro che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo ed è
stato tradotto nelle lingue più disparate viene trasformato in
film con il budget più gigantesco della storia del cinema è lecito
aspettarsi un successone. Tanto più che, per girare la trilogia de
“Il Signore degli Anelli”, il regista neozelandese Peter Jackson
si è avvalso della consulenza di alcuni tra i maggiori (cioè più
“riconosciuti”) critici tolkieniani e non ha mosso neppure un
passo senza aver prima ricevuto l’assenso dei fans. Il rovescio
della medaglia è che a partire dal 18 gennaio
(quando le sale saranno presumibilmente gremite da curiosi e
appassionati), anche i quotidiani e i mezzi di informazione in
genere si riempiranno di “tolkieniani” - improvvisati, però. I
quali daranno le più diverse interpretazioni del romanzo di John
Ronald Reuel Tolkien, si lanceranno in ardite ricostruzioni,
tenteranno (a seconda della convenienza politica e della linea
editoriale) di annettere lo scrittore inglese al proprio partito
politico oppure di ricoprirlo di insulti; tutto questo senza aver
mai sfogliato neppure una pagina della trilogia (oggi ristampata
da Bompiani) né, tanto meno, degli altri libri di Tolkien.
Proprio contro questo pericolo, quale antidoto all’ignoranza
ottusa e sudaticcia di certi commentatori della domenica, vale la
pena leggere l’ultimo libro di Paolo Gulisano, “Tolkien: il mito e
la grazia” (Ancora Editrice, 210 pagine, 15 euro). Per sgombrare
il campo da dubbi, diciamo pure che con questo saggio la critica
su JRR Tolkien in Italia ha fatto un salto di qualità; finora,
infatti, si era assistito a letture banalizzanti quando non
errate, che tentavano di vedere nel “Signore degli Anelli” le
opinioni politiche dei loro autori. I veri tolkieniani, dunque,
avevano ben poco per soddisfare i propri interessi: fatta
eccezione per una rivista “corsara” come “Endòre” o un libro ben
fatto come l’“Invito alla lettura di Tolkien” di Emilia Lodigiani
(Mursia), e ben poco altro. Nella sua analisi, Gulisano muove da
un punto fermo: Tolkien era un cattolico. Le sue opere vanno lette
con questa consapevolezza - fu lui stesso, d’altronde, ad
ammettere che il Signore degli Anelli “è fondamentalmente un’opera
religiosa e cattolica”. Senza la certezza che, come in controluce,
c’è un Dio che muove le fila del mondo, e che ha disegnato un
Grande Piano per le sue creature, non è possibile comprendere né
apprezzare il romanzo. E, ancora più importante, non si tratta di
un dio capriccioso e cinico, ma di un Padre, che considera dei
Figli quelle imperfette creature a cui ha donato il “Fuoco
segreto” della vita.
“Tolkien - osserva Gulisano - che dei suoi Hobbit aveva in gran
parte l’umiltà, guardava con apprensione oltre che con attenzione
alle umane vicende, all’allontanarsi delle virtù elfiche e
all’affermarsi di una superbia di tipo numenoreano, ma ancora più
esposta al fascino del male; non volle però esplicitare queste
preoccupazioni sotto forma filosofica o morale: preferì parlare al
cuore dell’uomo con il linguaggio che conosceva - quello del mito
e della favola - per ricordargli l’esistenza di cose belle e
preziose, di un bene da perseguire, di sentimenti grandi e nobili,
di un senso ultimo delle cose”. Può forse apparire a occhi
distratti e superficiali che le opere di Tolkien siano “da
bambini” - così hanno affermato anche molti critici. Eppure, le
cose non stanno così; esse sono scritte in un linguaggio che
l’uomo moderno attribuisce ai bambini, ma che fino a poco tempo fa
rappresentava il massimo punto di contatto tra uomo e Dio.
Lo scrittore inglese, riprendendo Chesterton, afferma che “io non
parlo di lampadine elettriche, ma di fulmini”; egli intende
richiamare l’attenzione dei propri lettori su qualcosa di più
importante e profonde dello meschine grettezze della quotidianità.
Al centro e alla fine di tutto vi è il messaggio di salvezza di
Gesù Cristo, segno dell’amore di Dio. “La connessione istituita
tra bambini e fiabe - ha sostenuto l’autore del “Signore degli
Anelli” - non è che un accidente della nostra storia; questi non
amano le fiabe più degli adulti né le capiscono meglio”. E ancora:
i critici “confondono, non sempre in buona fede, l’Evasione del
Prigioniero con la Fuga del Disertore. Un militante politico
avrebbe potuto etichettare allo stesso modo la fuga dalle miserie
del Reich del Führer o di qualcun altro, e definire tradimento la
critica ad esso… Sembrerebbe anzi che [essi] preferiscano
l’acquiescenza del collaborazionista alla resistenza del
patriota”.
11 gennaio 2002
cstagnaro@libero.it
Paolo Gulisano, Tolkien: il mito e la grazia, Ancora Editrice,
2001, pp. 208, 14,98 euro.
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