Il ritorno della Compagnia dell'Anello
di Luigi G. de Anna

Vivere all'estero ha i suoi vantaggi. Così, mentre voi italiani dovete aspettare che passino le Feste per poter vedere la prima parte del “Signore degli Anelli”, noi emigrati possiamo godercelo già la Vigilia di Natale. Sono andato a vederlo con mio figlio. Premetto di appartenere alla "vecchia guardia" dei tolkieniani italiani. Intendiamoci bene, non è che avessimo grandi meriti: in realtà ci eravamo limitati a leggere tra i primi l'opus maximum e a scriverne sulle nostre riviste (quelle oggi quasi tutte defunte della Destra un po' alternativa e un po' hobbittiana). Il mio giudizio sul film potrebbe dunque essere poco obiettivo, visto che per la mia generazione la trilogia tolkieniana è veramente stata la Bibbia (anche se non eravamo più hippies). Mio figlio invece, allevato dalla società cibernetica, e quindi facile preda della seduzione sarumaniana, ha guardato il film senza (pre)giudizi. E gli è piaciuto. Parere di sedicenne. So benissimo che il popolo della Terra di Mezzo si dividerà in due schiere, ma questo pare essere una sua tendenza naturale: da una parte chi griderà al capolavoro e dall'altra chi maledirà gli eretici iconoclasti che tanto hanno osato. Parliamone dunque con tranquillità. Magari dopo aver acceso una manciata di erba-pipa, di cui peraltro si fa abbondante uso nel film.

Innanzitutto mi sembra ovvio dire che il film del neozelandese Peter Jackson non ricrea le emozioni del romanzo, parlo di quelle più profonde. E sarebbe impossibile. Nessuno può trasportare un romanzo sullo schermo senza tradirlo. Se il film risulterà bello, come nel caso, per esempio, del “Gattopardo” di Luchino Visconti, non si tratterà dell'originale, ma della sua reinterpretazione. E noi non abbiamo bisogno di reinterpretare il “Signore degli Anelli”, ma solo di trasportarlo dalle pagine del libro, che possiamo leggere ovunque, sotto una quercia fronzuta come sul metro, allo schermo di una sala cinematografica capace, per chi ci crede, di creare grandi illusioni e grandi magie. A noi interessa piuttosto la fedeltà all'originale e, in secondo luogo, la sua purezza rispetto a certe - la parola mi scappa, non ci posso fare nulla - "americanate".

Il film è in massima parte fedele, anche se ovviamente certe scene sono abbreviate, o certi episodi addirittura eliminati, come quello di Tom Bombadill e Baccadoro. Qualcuno viene gonfiato, e qui sta l'infedeltà maggiore, in modo da far apparire Arwen, la mezza elfa amata da Aragorn, in un ruolo più sovrastante di quello che ha nelle pagine del libro. A dire il vero, essendo Arwen interpretata dalla bella Liv Tyler, non dispiacerà vederla un po' più a lungo di quanto il romanzo ci imponeva, ed è anche vero che l'episodio è stato corretto sulla base delle Appendici e quindi tutto sommato, anche qui non si esce dal seminato. Gli attori sono, almeno a me, alquanto poco noti, eccetto Saruman, il Christopher Lee di draculiana memoria, ma ben gli sta, chi male razzola... Qui sta il problema principale del fan tolkieniano. Tutti noi abbiamo nella mente un'immagine dei Nostri (e dei Loro, cioè di Orchi, Orchetti, Uomini Selvaggi e Nazgul) e non è facile azzerarla per lasciare il posto alle nuove icone jacksoniane. Le discussioni tra noi se quello lì era adatto o no non avranno fine, perlomeno fino al terzo episodio (ma perché ci fanno soffrire tanto? non si poteva sostituire il festival di San Remo con una settimana di “Signore degli Anelli”?) Ora esporrò il mio parere, ma senza pretese di avere ragione.

Frodo (Elijah Wood) è abbastanza minuto, abbastanza tormentato per essere il vero Frodo. Sam (Sean Astin) generalmente non è molto apprezzato nei nostri circoli, ed è un peccato, infatti in una sua lettera J.R.R. Tolkien aveva parlato di lui come l'immagine del buon soldato inglese, il prototipo dei fedeli Tommies che aveva avuto l'occasione di conoscere nel fango delle trincee della prima guerra mondiale. Il suo segno distintivo è appunto la fedeltà al suo capo, non inteso però come capo politico o ideologico. Si tratta piuttosto della fedeltà che lo scudiero nutre per il cavaliere. Su Aragorn (Viggo Mortensen) si discuterà molto; depongono a suo favore le origini nordiche dell'attore (madre danese) e questo basta a dargli una certa presa da vichingo. Potrebbe sprizzare un po' più di machismo, non guasterebbe. Ben riuscito senza dubbio è Gandalf (Ian Mc Kellen), che fin dagli inizi si impone come protagonista. Legolas (Orlando Bloom) lascia freddini, ma si sa, gli elfi non è che sprizzino proprio l'allegria dei napoletani. Ma non sarà necessario passare in rivista l'intera schiera. Giudicherete voi. Dirò solo che l'assenza quasi totale di volti noti del cinema è certamente un fatto positivo, di conseguenza la bravura dell'attore non si sovrappone al personaggio distraendoci dall'avventura. Che, esteticamente è bellissima. I paesaggi della Nuova Zelanda sono fantastici, anzi realistici. E dove non può il buon Dio, interviene il computer. Indubbiamente oggigiorno si riesce a rendere credibile ciò che una volta rappresentava il maggior ostacolo della fiction, cioè lo scenario. La cartapesta non si addice agli eroi e qui di cartapesta proprio non ce n'è. Basti l'esempio, a mio parere assai suggestivo, della lotta tra Gandalf e il Balrog nelle miniere di Moria. Un po' deludenti invece i Cavalieri Neri, i Sinistri del film. Sono un pochino evanescenti e sciapiti, proprio come i Sinistri di casa nostra.

Ma ora non vorrei buttarla in politica, me ne guarderò bene. Vorrei però solo precisare ciò che dicevo prima, e che cioè il film non risulta essere una "americanata", con tutto il rispetto che nutro per il buon cinema di Hollywood. Voglio dire che la tentazione di “spielbergizzare” il film c'era, oppure di “harrypotterizzarlo”, magari sulla scia del vecchio cartoon di Ralph Bakshi. Il film mi sembra invece indenne da certi submiti d’oltreoceano (Atlantico), anche se non ho idea di quali siano le fonti ispiratrici del cinema neozelandese in generale. Ma c'è ancora un tocco di “british” in quella cultura degli Antipodi da non fare accigliare il buon Maestro di Oxford, in qualunque paradiso egli si trovi.

Ma che cosa ci dice in sostanza questo primo episodio della trilogia? Che cosa dice all'uomo del 2002? Parla, anche se più sommessamente che nel libro, di Eroi e di Malvagi. E' vero, è la lettura più semplice e semplicistica del “Signore degli Anelli”, e ritorneremo presto sull'argomento sulle pagine cartacee di “Ideazione”. Manca il senso della Morale, la condanna della lotta per il potere e soprattutto il dolore della ricerca dell'immortalità. E' vero, mancano molte cose da questo film. Ma quello che resta è sufficiente. Gli Eroi sono eroi, e hanno spade che brillano quando si avvicinano gli orchi o che si riforgiano quando il vero re le impugnerà. E questo mi basta. Mi si permetta dunque di inebriarmi ancora per l'adventure.

Ma dalla Torre c'è chi vigila, e Tullio Kezich sul “Corriere della Sera” ci ricorda che “Il Signore degli Anelli” fu opera cara assai alla nuova destra, che anzi si ricompattò sotto le sue insegne. Il pericolo dell'invasione degli Eroi viene avvertito a sinistra, ed altri gli hanno fatto eco. Nihil sub sole novi, del resto: il "pericolo" insito nel messaggio tolkieniano era stato già sbandierato negli anni Settanta. Peccato che questo romanzo sia divenuto uno dei più importanti del Novecento. Ma Kezich, nel suo articolo del 5 gennaio, ha una chiusa nuova: “Vedremo ora se “Il signore degli Anelli” riaccenderà il dibattito sugli Hobbit fra gli ex-tendopolitici e la destra in doppiopetto che ormai siede al governo”. Giusto: se è chiaro da che parte stanno gli ex tendopolitici, cioè coloro che si sentivano un po' Mezzi Elfi e un po' Hobbit, sarà interessante vedere dove si collocheranno i doppiopettisti. Non mi dispiacerebbe però averli con noi: in fondo un'armatura a doppio petto sarebbe l'ultimo grido. Perfino nella Terra di Mezzo.

11 gennaio 2002






 


 
 

 

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