Renzo Piano
di Luigi Cavallari

E' stato forse dalla metà degli anni Sessanta che l'architettura italiana ha cominciato a ripiegarsi su se stessa, in un processo di involuzione e accartocciamento che l'ha drammaticamente separata dalla committenza. L'Italia a quel tempo si riempiva di case, ma in gran parte abusive o firmate dal geometra, mentre l'intervento pubblico si limitava all'edilizia cosiddetta "popolare", rinunciando a rappresentare qualcosa che non fosse la semplice necessità abitativa, per di più secondo standard livellati al basso. Gli architetti italiani reagivano chiudendosi nell'accademia, riscoprendo la purezza "tipologica" a garanzia del progetto, evitando accuratamente di rinnovarsi e di rischiare. Anni di piombo, di tristissime architetture monolitiche e carcerarie, di classicismi di finto rigore etico e di vero squallore estetico, di recuperi sottoposti alla regola di una truce omogeneità.

Renzo Piano è cresciuto fuori da questo clima, lontano dall'Italia e da un mondo universitario dominato dai Rossi e dai Gregotti. Si è formato all'interno di un dibattito internazionale meno asfittico di quello che si svolgeva a casa nostra, segnato da una forte tensione innovativa e sperimentale e dalla volontà di restituire all'architettura un ruolo di leadership nell'immaginazione e nella vita delle persone. La vera notorietà arriva a Piano con il progetto (firmato con l'inglese Rogers) del Beaubourg, edificio visitatissimo, che diventa immediatamente un grande polo di attrazione della vita culturale parigina. Il Beaubourg è una sorta di calzino rovesciato, che mostra all'esterno strutture e impianti, trasformandoli in elementi architettonici, e lascia all'interno grandi spazi liberi dall'uso flessibile. Nonostante il successo internazionale, l'Italia aspetterà una quindicina d'anni prima di affidargli progetti importanti (il recupero del porto di Genova e l'acquario, il santuario di Padre Pio, l'auditorium romano). Ciascun progetto di Piano ha un forte carattere di sperimentazione tecnica, senza però cedere alla tentazione dell'autorialità sganciata da ogni referente ambientale e di fruizione. Le sue architetture sono sempre fattibili, vivibili, pensate per essere realizzate e vissute e non -come accade sempre più spesso- soltanto disegnate
 

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