Giorgio Perlasca
di Gianni Scipione Rossi

Partigiani, soldati del Re, repubblichini. Italiani in fuga. Italiani che si uccidono "per la Patria", o forse per superare la morte della Patria. I tanti volti della guerra civile. Italiani provinciali, normali, in cerca di una nuova tranquillità. Italiani delatori, italiani, come Giorgio Perlasca, che salvano gli ebrei. Italiani che "non capiscono le leggi razziali" ma fanno finta di niente se il vicino di casa perde i diritti civili o si affrettano a prenderne il posto (pubblico) perduto. Storie minime che affiorano, oggi con meno fatica di qualche anno fa. Ne scaturirà forse, finalmente, una grande storia. Con tutti i suoi protagonisti. Giovanni Preziosi che pretende da Mussolini il rango di ambasciatore e vorrebbe portare alle conseguenze estreme il settimo dei 18 punti di Verona: "Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri".

E s'ingegna a compilar progetti per introdurre una carta d'identità genealogica alla ricerca dell'ultima goccia di sangue semita. E vorrebbe abolire le eccezioni del '38: che anche le sciarpe littorie e gli antemarcia siano, infine, giudei e basta. Mussolini, ricorda Angelo Tarchi (Teste dure, 1967), lo disprezza, il Preziosi. Ma non va oltre, mentre persino il collaborazionista francese Brasillach scrive in punto di morte: "Mi sembra inammissibile che si siano strappati via i bambini, organizzate delle deportazioni che sarebbero state ugualmente illegittime anche se non avessero avuto come fine recondito la morte pura e semplice" (Lettera a un soldato della classe 40, 1945). Ma non c'erano solo piccoli italiani nella guerra. Hannah Arendt riconosce, in margine al processo Eichmann (La banalità del male, 1964), la "generale, spontanea umanità di un popolo di antica civiltà". Gli italiani brava gente. I Palatucci, gli Zamboni, i Pietromarchi, ma anche i tanti ancora senza nome che hanno salvato una sola vita. Di questi italiani-eroi si è parlato poco. Anche perché loro stessi - i sopravvissuti - hanno preferito tacere. Figure diverse, tra le quali emerge quella di Giorgio Perlasca.

A Budapest, l'8 settembre, si trova per caso e da privato. Non è un funzionario dello Stato. Non ha poteri. Volontario prima in Abissinia e poi in Spagna, dalla parte di Franco, naturalmente. Di quella guerra ricorda il comandante di battaglione Vita Finzi, ebreo come il barone Treves de' Bonfili, finanziatore del fascio padovano. Le leggi razziali lo indignano. Per lui gli ebrei sono solo italiani che praticano un'altra religione. Perde la fiducia in Mussolini, ma non diventa antifascista. Torna al suo lavoro, che lo porta nella capitale ungherese. Rifugiato nell'ambasciata della Spagna franchista, che in tutta Europa aiuta gli ebrei a sottrarsi alla deportazione, resta solo. Parla il castigliano. S'inventa console di Madrid e salva, a rischio della vita, oltre cinquemila ebrei, fornendo falsi lasciapassare. Falsi come il suo nome, Jorge, il titolo, la nazionalità. Lo fa, spiegherà a Enrico Deaglio nel 1989, semplicemente perché gli sembra giusto. E chiede: "Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?". Dalla banalità del male di Eichmann (che Perlasca incrocia a Budapest) alla banalità del bene.

Torna a Padova, Perlasca. Racconta a qualcuno la sua incredibile storia. Ma nel processo trasversale di rimozione che caratterizza l'immediato dopoguerra, nessuno gli dà peso. Lascia scorrere i decenni. Senza nulla pretendere. Se alcune ebree ungheresi salvate nel '44 non lo avessero rintracciato, oggi la memoria di Giorgio Perlasca apparterrebbe solo ai familiari e agli amici. E invece questo italiano, non più fascista né antifascista, nato a Como nel 1910 e morto a Padova nel 1992 dopo una vita "normale", è diventato un simbolo internazionale. Italiano, fino in fondo, ma di "proprietà" del mondo. Forse l'unico lascito "universale" di un regime che a lungo s'interrogò sulla propria esportabilità. Nel Parco dei Giusti di Gerusalemme c'è un albero con il suo nome ed ebbe la cittadinanza onoraria di Israele. La Spagna lo ha nominato commendatore di numero dell'Ordine di Isabella (per paradosso, la regina che espulse gli ebrei). L'Ungheria gli ha conferito l'Ordine della Stella d'Oro. Fu onorato dall'Holocaust memorial Council di Whashington e dal comitato Wallemberg di New York. Il titolo di Commendatore Grand'Ufficiale della Repubblica Italiana arrivò per ultimo, insieme al vitalizio della "legge Bacchelli". E' scomodo essere un "eroe italiano".


 

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