Giovanni Papini
di Mauro Mazza
Ora che abbiamo perduto l'illusione d'esser tutto, di assimilare
fagocitare divorare ogni cosa; fino a diventare (come) Dio, o
almeno (ri)conoscerlo… Eccoci qua, faticosamente, adulti in un
tempo che adulto si sente, al punto da non credere più a nulla;
eccoci qua, incapaci di dare e darci una definizione credibile,
cui aggrappare un'identità o una fede o una speranza. Dev'essere
per questo che Giovanni Papini (Firenze 1881-1956) non appartiene
alla categoria degli inattuali da riscoprire perché utili (o
utilizzabili) nell'ora presente. Papini resta dentro la prima metà
del Novecento. Archeologia del nostro passato prossimo. Ma
archeologia. Certo, è stato un vero italiano globale, universale
da tutti i punti di vista, anche per la sua cattolicità. Ma cosa
ce ne facciamo, adesso, d'un intellettuale che a vent'anni sognava
di cambiare il mondo e a ventitré cominciò a cambiarlo sul serio?
Il Leonardo non superò mai le 500 copie; eppure non c'è studio sui
fermenti culturali e politici di quegli anni che non attribuisca a
quel foglio il ruolo di capostipite d'una serie di riviste che
segneranno nel profondo un'epoca di straordinari mutamenti: dopo
Il Leonardo, la nazionalista Il Regno, la futurista e
interventista Lacerba, la "crociana" La Voce, vera fucina del
migliore (e del peggiore) Novecento italiano, non solo letterario.
No. Non sapremmo dove collocare un intellettuale che molte cose è
stato e molte anime ha incarnato, ogni volta soffrendo con tutto
se stesso, attraversando da prim'attore avanguardie artistiche e
movimenti letterari, sempre con un'autentica e sincera
inquietudine. Non riusciremmo nemmeno a sopportare, inerti e pigri
esterofili, quali siamo diventati, la sua capacità d'essere
protagonista della cultura italiana e, insieme, divulgatore della
cultura internazionale e degli autori più vivi e importanti del
suo tempo: James e Bergson, Bloy e Peguy. Produttore e propulsore
di cultura, da lui passano tutti i più grandi, con amicizia e
devozione: Amendola e Gobetti, Prezzolini e Soffici, Giuliotti e
Tozzi, i fratelli De Chirico, Palazzeschi e Martinetti. Col Papini
credente dialogarono fruttuosamente cattolici integrali, destrorsi
(Bargellini, Occhini, Mordini) e democratici; cattocomunismi,
sinistri (De Luca, La Pira, Gozzini). Cosa potremmo farne di
queste storie papiniane, ora che il comunismo è morto e il
cattolicesimo in politica si nasconde, s'occulta fino a sparire?
In letteratura, poi, pensieri minimalisti e post-romanzi senza
pretese non avrebbero parentela alcuna con le opere d'uno
scrittore che sempre sognò il libro definitivo, ne partorì di
bellissimi (Uomo finito, Storie di Cristo), senza riuscire a
sfamare mai il suo bisogno d'assoluto, laddove le risposte danno
un significato e un senso ai dilemmi e all'angoscia dell'uomo.
Meglio di no. Lasciamolo dov'è, Giovanni Papini, tra i reperti
dimenticati del Novecento come quando lo (ri)scoprì Borges come
splendido narratore dello straordinario insinuatosi nella
quotidianità. Visto da vicino potrebbe interrompere il nostro
torpore, costringerci di nuovo a ricominciare. A cercare, a
cercare ancora…
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