Grazia Deledda
di Eugenia Roccella
Una donna come tante, Grazia Deledda. Visceralmente legata alle
tradizioni della sua terra, divoratrice entusiasta di romanzi
d'ogni genere, sentimentale ma solida nei principi come nel
fisico. Quasi autodidatta, comincia a scrivere racconti che già
nei titoli (Fior di Sardegna, Sangue sardo) echeggiano l'amata
letteratura d'appendice; a trent'anni sposa l'impiegato Palmiro
Madesani, e da Nuoro si trasferisce a Roma. Qui, con stile più
maturo, continua a scrivere della sua Sardegna, di gente chiusa,
paesaggi arcaici e atmosfere isolane. La Deledda appartiene a quel
piccolo esercito di pioniere che fondano, tra Otto e Novecento, la
narrativa femminile italiana: donne che scoprono la qualità
liberatoria, l'incantamento e la vertigine narcisistica della
scrittura, e inoltre le emozionanti opportunità di un mestiere che
apre loro le porte del mondo esterno senza che debbano nemmeno
uscire di casa.
Sono "un infinito pulviscolo di romanzatrici, instancabili
romanzatrici...", come le definisce, con un filo di maschile
condiscendenza, Benedetto Croce, che pure è tra i pochi a dedicare
loro una costante attenzione. Non si può dire che, in questo
pulviscolo, la Deledda brilli di luce propria: è meno acuta di
Matilde Serao, meno disincantata di Neera, meno audace di Sibilla
Aleramo, ha meno successo di Carolina Invernizio. Onesta autrice
di romanzi situabili tra un verismo attardato e un decadentismo
appena sfiorato, sarebbe oggi un nome di repertorio, se nel 1926
non avesse ottenuto il Nobel per la letteratura.
Da allora, uno strisciante e implicito interrogativo accompagna
ogni suo profilo critico. Perché? Perché un premio così ambito
proprio a lei, scrittrice "come tante"? Perché i giurati del Nobel
raramente ci azzeccano, è la risposta più semplice. Oppure perché
gli scandinavi coltivano un'immagine affettuosamente stereotipata
dell'Italia, in cui la Deledda può essere considerata l'altra
faccia di Dario Fo: tipicità di maniera, che sia realismo in
scialli neri o tradizione teatrale e carnascialesca. Ma ci piace
di più pensare che la Deledda sia il simbolo, forse prescelto a
caso, della narratrice appassionata, piena di sacro fuoco
letterario, che inventando intrecci, ammucchiando fogli su fogli,
rompe un isolamento antico, conquista un nuovo territorio. Un
premio dato a lei anche per tutte le "instancabili romanzatrici".
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