Il film è arte, il cinema industria
di Maurizio Schiaretti

"Il cinema dipende enormemente dal contesto sociale. Il neorealismo rifletteva le grandi tensioni morali del dopoguerra. Nella realtà italiana di oggi, un film riuscito è quasi un miracolo, la testarda capacità di un autore di essere creativo in un clima che ha ucciso la creatività", ha dichiarato qualche tempo fa Bernardo Bertolucci, il più internazionale dei registi italiani, tornato a girare nel nostro e suo Paese dopo quattordici anni di volontario esilio, da Tragedia di un uomo ridicolo (1981) a Io ballo da sola (1995) e ora nuovamente in procinto di tornare su un set straniero. Ma nell'area dell'euro e non in quella del dollaro, che, sempre secondo Bertolucci, è la causa principale dell'agonia del cinema europeo, schiacciato economicamente dallo strapotere hollywoodiano. E quando mancano i mezzi per far circolare le idee, anche la capacità di crearle rischia ovviamente di inaridirsi. Anche per questa ragione si sta assistendo ad una proliferazione di piccole opere, realizzate con budget a volte bassissimi (per completare, tra il 1998 e il 2002, la loro opera prima - 500!, - i liguri Giovanni Robbiano, Lorenzo Vignolo, Matteo Zingirian hanno fondato una casa di produzione dal marchio quanto mai significativo: ZeroBudget. Il che non ha scoraggiato attori veri o improvvisati come Marina Massironi, Massimo Olcese, Lella Costa, Ed Bishop, Marcello Cesena e Fernanda Pivano, che hanno collaborato gratuitamente), che inevitabilmente si scontrano con le maggiori difficoltà, una volta che cercano di arrivare al pubblico: senza un adeguato supporto di marketing, nessun gestore accetterà di programmarlo nella propria sala e, di conseguenza, nessuno - ad eccezione di alcuni ignari nottambuli teledipendenti - saprà mai che un film esiste.

Non bastano a far invertire la tendenza iniziative lodevoli ma circoscritte come Accadde domani della Fice Emilia-Romagna, che per una settimana, alla fine di ogni mese di giugno, propone anteprime, riscoperte e incontri con autori e attori, cercando così di aprire i cancelli del "ghetto". Né le sporadiche affermazioni di autori con una forte personalità come Nanni Moretti o Roberto Benigni (amati o odiati, ma mai oggetto di indifferenza). Oltre ai quattrini (spesso diffusi a pioggia per accontentare molti e dunque sprecati per tutti o quasi: cosa che non incoraggia certo la produzione di film d'autore), manca, come ha rilevato Gian Piero Brunetta nel suo Identikit del cinema italiano d'oggi (Marsilio, 2001), "un legame significativo con la grande tradizione del cinema italiano", tanto da parte degli sceneggiatori quanto nel novero dei registi. La cultura si è impoverita, i valori ideali sono in gran parte svaniti, e, entrando nello specifico, Brunetta rileva che la scrittura filmica è generalmente approssimativa, segue modelli televisivi e delega troppo all'inventiva del regista. Tra i film più attesi della stagione 2002-03 c'è naturalmente il Pinocchio di Roberto Benigni, frutto di uno sforzo produttivo massiccio (90 miliardi e, al momento, non è ancora finito) ma prevenduto in tutto il mondo grazie al successo internazionale, clamoroso, inatteso e tuttora "in corso" di La vita è bella, il film non in lingua inglese che ha ottenuto il maggior numero di nominations all'Oscar: ben sette, con tre statuette vinte. Oltre a centinaia di altri premi conquistati praticamente in ogni parte del mondo in cui esistono sale cinematografiche. Tutto oro, o piuttosto una situazione imprevista e anomala (l'attore Benigni è popolare e amato, ma il regista è ancora tutto da costruire), simile a quella di due anni prima quando le luci della ribalta erano tutte per Il postino? All'inizio di quel 1996, in occasione della presentazione dell'Annuario curato da Paolo D'Agostini, alla domanda "Come se la passa il cinema italiano?", il critico cinematografico Michele Anselmi rispondeva inevitabilmente: "Non tanto bene, nominations per gli Oscar a parte". Si riferiva, appunto, alle cinque nominations per Il postino del non dimenticato Massimo Troisi (che alla fine avrebbe ottenuto però solo quella per la colonna sonora di Luis Bacalov) e quella de L'uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore, battuto in volata dal vetero-femminista olandese L'albero di Antonia.

E oggi, come se la passa il cinema italiano? Sempre non tanto bene. E per di più, non può contare né su nominations a catena né sugli incassi miliardari della stagione 2000-01 quando La stanza del figlio di Nanni Moretti, Chiedimi se sono felice di Massimo Venier, Aldo Baglio, Giovanni Storti, Giacomo Poretti, L'ultimo bacio di Gabriele Muccino e Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek avevano fatto cadere nell'inganno di una "rinascita" assolutamente priva di fondamenta. Perché il cinema italiano sembra incapace di individuare le cause del proprio malessere e trovare dentro se stesso i rimedi necessari per ricostruire quel credito di cui ha goduto in passato nonostante la convivenza con un limite preciso e determinante, quasi una colpa in un mercato, il cui maggior protagonista parla la lingua inglese: quello di avere quasi sempre il respiro corto, di chiudersi nell'orticello di casa ignorando orizzonti più ampi, di essere, in una parola "provinciale". Anzi: regionale, visto che in questi ultimi anni sono andati molto di moda i prodotti in fotocopia della "fattoria" toscana Cecchi Gori. Il successo - effimero e per qualche verso anche pericoloso - del Il ciclone di Leonardo Pieraccioni ha infatti ridato linfa ad una moda che, con protagonisti diversi, si replica ciclicamente, da una parte illudendo e dall'altra distogliendo risorse ad iniziative più lungimiranti.

Si dice: diamo al pubblico quel che il pubblico vuole. E sotto il profilo commerciale il discorso non fa una grinza. Ma il cinema non è solamente industria, è anche - non so in qual misura, ma oggi probabilmente minima - un'arte, e come tale deve aiutare a capire, a far riflettere, ad elevare. Compiti che se hanno trovato diligenti interpreti nel già citatissimo Benigni e in Paolo Virzì - un regista che possiede una peculiarità non troppo diffusa dalle parti di Cinecittà, vale a dire uno stile: sempre controllato, con un equilibrato rapporto tra commedia e dramma, mai disponibile a cedere alle tentazioni della volgarità - sembrano decisamente al di là delle intenzioni e delle possibilità di pellicole come Bagnomaria, Lucignolo, Paparazzi, Simpatici e antipatici, Svitati, Ogni lasciato è perso e via di seguito. Tutti prodotti che hanno in comune tre elementi: sono film comico-farseschi (e fin qui nulla di male), sono interpretati da personaggi divenuti popolari grazie alla televisione (che come sappiamo, sia essa di Stato o privata, insegue e persegue il "leggero" spingendosi fino all'evanescente per paura di veder calare l'audience di qualche zero virgola zero per cento) e infine sono per lo più diretti da registi improvvisati e inesperti come Giorgio Panariello, Massimo Ceccherini, Ezio Greggio, Piero Chiambretti. Un tempo si doveva far gavetta, si andava a imparare il mestiere da qualche maestro e solo dopo avergli rubato un po' di segreti si poteva sperare di mettere la propria firma nei titoli di un film. Negli ultimi anni, invece, bastava aver partecipato a qualche trasmissione di successo come Domenica in, Scherzi a parte o La sai l'ultima? e aver dilatato in soggetto una barzelletta per presentarsi da un produttore (o pseudo tale), con buone speranze di ottenere qualche miliardo per girare in proprio. Risparmiando la spesa di un regista vero. Con i risultati di qualità che si possono vedere.

Anche Benigni, lo si è già detto, è un regista dall'esperienza relativa - proprio la regia è uno degli aspetti meno riusciti di La vita è bella che si può apprezzare invece per l'originalità dell'idea e l'interpretazione -, ma non è partito da zero perché in carriera è stato diretto da Jim Jarmush, Massimo Troisi, Blake Edwards, Giuseppe Bertolucci, Marco Ferreri. Ha lavorato sotto la guida del grande Federico Fellini in Le voci della luna e, in una piccola parte de La luna, anche da Bernardo Bertolucci, un autore amato e stimato all'estero, il cui L'ultimo imperatore è stato premiato con nove Oscar. Ma Bertolucci, contrariamente alla banda dei toscani, incontra non poche difficoltà a trovare non solo i finanziamenti necessari ma anche una distribuzione adeguata. La vicenda che ha preceduto il primo ciak de L'assedio (1998) è di dominio pubblico, ma vale la pena di riassumerla perché a suo modo esemplare e comunque significativa di un certo costume. Dunque, Enzo Siciliano allora presidente della Rai contatta l'amico regista parmigiano, raggiungono rapidamente l'accordo per la produzione di un film di un'ora, destinato esclusivamente alla televisione. Il soggetto è tratto da un racconto di uno scrittore inglese, ambientato a Londra all'epoca in cui le dittature sudamericane costringevano alla fuga i non allineati.

Bertolucci sposta la cornice a Roma, cambia nazionalità alla protagonista (non più argentina bensì africana, ma la dittatura rimane sullo sfondo), trova le locations (un appartamento dietro piazza di Spagna) e gli attori adatti, poco conosciuti ma di qualità. Nel frattempo Siciliano si dimette. Tutto è pronto ma quattro giorni prima del lunedì fissato per l'inizio delle riprese, il nuovo Consiglio di amministrazione della Rai, blocca il finanziamento di tre miliardi, chiedendo un supplemento di istruttoria. Uno schiaffo a Bertolucci e allo stesso Siciliano. Il regista si mette in contatto con Mediaset e in poche ore raggiunge un nuovo accordo. Il lunedì può dare, come previsto, il primo ciak. Durante la lavorazione il progetto si dilata, la durata viene portata a un'ora e mezzo, il produttore (c'è di mezzo la Medusa, di cui è proprietario Berlusconi) decide di distribuirlo anche nelle sale, prima di mandarlo sul piccolo schermo. Ma è un film per palati fini, costruito sugli sguardi e non sulle battute grasse, le immagini sono eleganti, raffinate, la musica è la chiave di lettura per comprendere l'evoluzione dei legami tra due esseri umani tanto diversi. Un film che non fa riempire le sale e difatti anche nella sua Parma non va oltre la settimana di programmazione. Magari con un po' di pazienza e di coraggio avrebbe potuto raddoppiare, ma oggi nel cinema chi ha pazienza e coraggio?

Le sale sono poche, i film da proporre parecchi: in una stagione ne bastano una mezza dozzina di successo per bloccare la programmazione e concentrare poi a fine stagione un numero esagerato di pellicole della cui esistenza il pubblico nemmeno si accorge. Nel 1997 in Italia le sale cinematografiche industriali (escluse quindi quelle parrocchiali) erano 2.175, 129 in meno dell'anno precedente, 945 in meno rispetto al 1991. E solo il 66 per cento (1.450) ha tenuto aperto tutto l'anno. I film distribuiti nello stesso anno sono stati 334 - una quarantina in più rispetto al 1996 - di cui 154 statunitensi e 77 di produzione o coproduzione italiana. Quest'ultima cifra rivela un'altra discutibile tendenza del cinema italiano: nel '97, infatti, sono stati prodotti o coprodotti 87 film, dieci dei quali non sono mai arrivati sullo schermo. E non è stato l'anno peggiore: tornando indietro, infatti, troviamo 99 film prodotti e 71 distribuiti nel '96, 75 e 68 nel '95, 95 e 67 nel '94, 106 e 76 nel '93, 127 e 66 nel '92, 129 e 79 nel '91, anni in cui era fin troppo facile attingere al famigerato articolo 28, che ha consentito persino i tremendi debutti di Marina Ripa di Meana e Roberto D'Agostino: Cattive ragazze e Mutande pazze i titoli delle loro nefandezze, che mi vergogno di aver citato e vi prego di cancellare immediatamente dalla memoria. In compenso, sono aumentati gli spettatori: 104 milioni di biglietti venduti nel '97: erano stati 96 milioni e mezzo nel '96, 91 milioni e mezzo nel '95, 98 milioni nel '94, 92 milioni nel '93, appena 83 milioni e mezzo nel '92.

Malgrado una leggera flessione nelle presenze, il cinema è dunque tornato ad essere uno degli svaghi preferiti degli italiani, ma a beneficiarne maggiormente è la cinematografia statunitense, anche se nelle ultime stagioni anche film italiani hanno conquistato la pole position degli incassi. La stagione peggiore per i nostri colori è stata quella del 1993-94: miglior piazzamento il tredicesimo posto di Anni 90. Parte seconda di Carlo Vanzina, anche se ci si può parzialmente consolare con l'ottavo posto del Il piccolo Buddha, firmata dall'italiano Bertolucci. Ma non sono tanti i film italiani che riescono a toccare quote miliardarie. La maggior parte di quelli che raggiungono le sale si ferma a qualche decina di milioni e ci sono pellicole che non hanno superato la misera soglia del milione di lire. Quello che sorprende tuttavia non è il fatto che negli anni scorsi Caffè La Mama di Gianluca Fumagalli abbia goduto di un solo giorno di programmazione, incassando 175.000 lire, o che Racconti di Vittoria di Antonietta De Lillo abbia registrato 943.000 lire, uscendo solo a Napoli o che Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco, nonostante la pubblicità regalatagli dalla censura, si sia fermato a 147.565.000, ma che nell'elenco degli incassi insufficienti (da 135 a 680 milioni di lire) figurino opere di autori prestigiosi come Marco Risi (L'ultimo capodanno), Mario Martone (Teatro di guerra), Marco Ferreri (Nitrato d'argento), Pupi Avati (Festival), Maurizio Nichetti (Luna e l'altra e Honolulu Baby), Marco Bellocchio (Il sogno della farfalla, La balia), Liliana Cavani (Dove siete? Io sono qui, ritirato dalla distribuzione pochi giorni dopo l'uscita, in attesa di tempi migliori che devono ancora arrivare), Alberto Sordi (Nestore, l'ultima corsa), Ermanno Olmi (Il segreto del bosco vecchio), che si è però parzialmente riscattato con Il mestiere delle armi. Un destino peraltro condiviso per tutta la vita da Federico Fellini: oggi riconosciuto come un maestro inimitabile, ha sempre dovuto lottare per poter realizzare i suoi film che poche migliaia di spettatori hanno visto quando sono usciti nelle sale, salvo poi riscoprirne le qualità a distanza di anni.

Commentando i risultati di un convegno svoltosi un paio d'anni fa a Roma e che aveva come oggetto una ricerca di Forza Italia sull'attuale politica di governo nel campo dello spettacolo, il regista e produttore Turi Vasile si è chiesto se "esiste ancora il cinema italiano", giungendo alla conclusione che chi "ha dedicato le migliori stagioni della propria vita all'appassionante avventura del cinema italiano non può che sentirsi tradito e dalle nuove e dalle medie e dalle vecchie generazioni. Il colpo di grazia l'hanno dato artisti consolidati, autori in passato di opere alle soglie del capolavoro". Come si possono dimenticare, per esempio, alcuni film dei fratelli Taviani, o ancora di Gianni Amelio? Eppure Così ridevano o Tu ridi li rendono irriconoscibili, come se un sortilegio si sia impossessato di loro. Forse non varrebbe nemmeno la pena di ricordare che il Leone d'oro assegnato ad Amelio nel 1998 ha avuto il sapore di un favore fatto dal presidente della giuria, Ettore Scola, all'allora vice premier Walter Veltroni. Profeticamente, tre giorni prima della cerimonia conclusiva veneziana Natalia Aspesi aveva scritto su la Repubblica che, se un film italiano non avesse vinto qualcosa d'importante, Veltroni si sarebbe intristito.

Al Lido, quell'anno, c'erano più di venti opere italiane, addirittura quattro in concorso, che avrebbero dovuto testimoniare al mondo l'effettiva ripresa della nostra cinematografia. Ma la quantità non sempre va di pari passo con la qualità. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: il citato e discusso Leone d'oro ad Amelio, poi due premi a L'albero delle pere di Francesca Archibugi, critiche severe e incassi scarsi per l'ambiguo I piccoli maestri di Daniele Luchetti, il patinato I giardini dell'Eden di Alessandro D'Alatri, il fiacco e presuntuoso Tu ridi di Paolo e Vittorio Taviani, gli improponibili Incontri proibiti di Alberto Sordi con Valeria Marini, praticamente invisibile nelle sale, La ballata dei lavavetri di Peter Del Monte, nonostante la presenza di Kim Rossi Stuart. I registi conoscono la risposta: la colpa è tutta della critica che stronca i loro film per partito preso. Personalmente però mi diverto di più a scrivere di un film che mi è piaciuto, piuttosto che il contrario.

E non è un caso se, ai Festival di Berlino e di Cannes, talora non ci sono stati film italiani in concorso (con conseguenti sterili polemiche, e ora a dirigere Venezia è stato chiamato proprio l'ex-direttore di quella kermesse) e a Cannes si è dovuto aspettare il "tragico" Moretti per tornare a sorridere. Francesco Barilli, regista, attore, sceneggiatore oltre che pittore, mi confidava qualche tempo fa: "Il problema è che non ci sono più i produttori come trenta, quarant'anni fa. Non ci sono più gli imprenditori appassionati che rischiano in proprio per qualcosa in cui credono. Va bene, va benissimo fare film di cassetta, anche se in Italia ormai ce ne sono solamente tre/quattro all'anno, ma gli incassi dovrebbero servire anche per produrre opere di qualità. Senza i successi di botteghino dei Pane, amore e fantasia e dei film di Matarazzo negli anni Cinquanta, Fellini e Antonioni non avrebbero avuto opportunità e il cinema oggi sarebbe più povero".

Concetto ribadito anche da Turi Vasile: "All'attuale cinema italiano manca la figura del produttore di una volta in grado di stabilire un contraddittorio col regista fino, occorrendo, allo scontro. Manca la scintilla capace di favorire la vitalità dell'estro. Oggi il produttore è molto spesso un esecutore, anzi, addirittura un appaltatore, messo da parte dall'opulenza delle sovvenzioni ministeriali, dal duopolio della distribuzione e da quello della televisione che hanno tolto iniziativa alla fantasia e all'avventura. De Laurentiis attribuisce la colpa della crisi al prepotere dei registi. Questi denunciano invece la responsabilità dei produttori inetti o pressoché inesistenti. Piuttosto che rinfacciarsi colpe e responsabilità bisognerebbe sollecitare, insieme, il cambiamento delle regole del gioco, togliere alle commissioni ministeriali ogni discrezionalità sulle sceneggiature, semplici pro-memoria letterari di opere imperscrutabili che verranno. Bisognerebbe infliggere a registi e produttori maggiori e più sofferti impegni, restituire loro la libertà perduta e conferire alla legge sul cinema un calcolato automatismo". Una ricetta meno semplice di quanto possa sembrare. E sempre ammesso che la realtà di oggi non abbia davvero ucciso la creatività.




 

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