Cinema italiano: profitti e perdite
di Paolo Priolo
Nel documento di analisi, pubblicato all'inizio di quest'anno, sui
risultati raggiunti dal cinema italiano nel 2001, il presidente dell'Anica,
Gianni Massaro, affermava che, dopo i disastrosi esiti del 2000, si
stavano ponendo "le premesse per un mercato presumibilmente più
equilibrato". E i dati che venivano esposti a sostegno della tesi non
lasciavano dubbi: produzione stabile, coproduzioni in netto aumento,
incremento dei capitali nazionali destinati alla produzione
cinematografica interna, affermazione dei multiplex, abbassamento della
quota dei film importati - soprattutto dagli Stati Uniti - e ampliamento
della quota di mercato dei film italiani. Nel 2001 - si leggeva - sono
stati programmati 188 titoli italiani (12 in più rispetto al 2000) e
sono usciti in sala 106 nuovi film di produzione nazionale e di
coproduzione (20 in più del 2000). Anche in termini di presenze si
registrava una crescita: dai 13 milioni di biglietti venduti nel 2000 ai
15 milioni del 2001. Un quadro incoraggiante. E il 2002 come si
presenta? Non molto bene, secondo le stime del quindicinale Box Office,
che a marzo segnalava gli esiti deludenti dei primi tre mesi, con un
netto calo di presenze - relative al totale dei film, italiani e non -
rispetto allo stesso periodo del 2001: da 30 a 26 milioni di biglietti
venduti. Una flessione dovuta, tra le varie cause, alla "quasi totale
assenza del cinema italiano, a parte qualche film comico". Un'assenza
apparentemente ingiustificata, se pensiamo alle premesse per un sistema
più bilanciato annunciate da Massaro. In realtà, il cinema italiano, e
quindi tutti gli elementi che concorrono alla sua messa in opera
(registi, autori, produttori, distributori, esercenti), è
indiscutibilmente cresciuto negli ultimi anni, ma continua a essere
viziato da un fattore che lo stesso Massaro, nel documento citato,
indica come "il maggior segno di debolezza dell'industria
cinematografica italiana": la concentrazione degli incassi in pochi
titoli. Il 94,7 per cento del totale degli incassi generati da film
italiani nel 2001 è stato assicurato dai primi 30 titoli, riservando ai
rimanenti 158 la copertura di un marginale 5,3 per cento. La maggior
parte dei film prodotti e distribuiti in Italia, dunque, non incide
significativamente sul fatturato complessivo.
Ma quali sono i titoli, gli attori e gli autori che fanno alzare la
curva delle entrate? Detto altrimenti, quali sono i film che, sulla base
dei dati Cinetel, dal 1995 ad oggi, hanno superato i 500.000 euro di
incasso al botteghino? A guidare l'armata vincente troviamo, neanche a
dirlo, il drappello dei comici di estrazione cabarettistica e
televisiva, presenti sia in veste di registi sia in quella di attori,
con risultati che vanno da 2 a 25/30 milioni di euro. Quelli della
scuola lombarda, capeggiati dai fortunatissimi e apprezzabili Aldo,
Giovanni e Giacomo (Tre uomini e una gamba, 1997; Così è la vita, 1998;
Chiedimi se sono felice, 2000) e spalleggiati da Antonio Albanese (Uomo
d'acqua dolce, 1997; La fame e la sete, 1999; Il nostro matrimonio è in
crisi, 2002), deludente al cinema e ormai in fase calante. L'ecumenico
Roberto Benigni, vero sovrano del box office (La vita è bella ha
superato i 30 milioni di euro), e i seguaci o i reduci della corrente
toscana, capitanati dal declinante Leonardo Pieraccioni (I laureati,
1995; Il ciclone, 1996; Fuochi d'artificio, 1997; Il pesce innamorato,
1999; Il principe e il pirata, 2001), portabandiera di una squadra che
affianca l'ineffabile Massimo Ceccherini (Lucignolo, 1999; Faccia di
Picasso, 2000) al pedestre Giorgio Panariello (Bagnomaria, 1999), e
recupera in extremis Francesco Nuti, comico smarrito in un amaro e
ottuso narcisismo, capace però, in almeno due occasioni, di superare i 2
milioni e mezzo di euro (Il signor Quindicipalle, 1998; e Io amo Andrea,
1999). Chiudono il cerchio il monocorde Carlo Verdone (Viaggi di nozze,
1995; Sono pazzo di Iris Blond, 1997; Gallo cedrone, 1998; C'era un
cinese in coma, 2000), sempre teso a una maturazione puntualmente
mancata, il teatrale Vincenzo Salemme (L'amico del cuore, 1998; Amore a
prima vista, 1999; A ruota libera, 2000; Volesse il cielo, 2002) e la
logora e premiata coppia Boldi/De Sica (Vacanze di Natale '95, 1995; A
spasso nel tempo, 1996; Paparazzi, 1998; Tifosi, 1999; Vacanze di Natale
2000, 1999; Bodyguards-Guardie del corpo, 2000; Merry Christmas, 2001).
Dietro all'agguerrita formazione dei comici, troviamo altre categorie in
grado di garantire risultati che vanno da 500.000 a 7 milioni di euro.
Innanzitutto, quella degli autori a pieno titolo, più o meno giovani,
variamente coccolati da stampa e televisione, e portatori di uno stile e
di un'identità altamente riconoscibili. Si va da Nanni Moretti (Aprile,
1998; La stanza del figlio, 2001), occasionalmente adamantino,
all'analitico Mario Martone (L'amore molesto, 1995), da Bernardo
Bertolucci (Io ballo da sola, 1996; L'assedio, 1998), rigeneratosi negli
anni Novanta, al prodigioso Gianni Amelio (Lamerica, 1995; Così
ridevano, 1998); dal sensibile Silvio Soldini (Pane e tulipani, 2000;
Brucio nel vento, 2002) all'ultimo, formalista Ermanno Olmi (Il mestiere
delle armi, 2001). A seguire, i sacerdoti della fabbrica dei miti on the
road, ammiccanti e scialbamente al passo coi tempi, come Gabriele
Salvatores (Nirvana, 1997; Denti, 2000; Amnèsia, 2001) e Luciano Ligabue
(Radiofreccia, 1998; Dazeroadieci, 2002), efficaci catalizzatori di
involuzioni giovanilistiche transgenerazionali.
Un'altra categoria è quella dei registi che praticano il cinema d'autore
ma ottengono successo non tanto in virtù delle loro poetiche, complesse
e sfaccettate, bensì grazie all'immancabile presenza di volti popolari
nel ruolo di protagonisti. E' il caso di Marco Bellocchio, che sfodera
Fabrizio Bentivoglio per il prezioso La balia (1999) e sceglie Sergio
Castellitto per il vibrante, bellissimo L'ora di religione (2002), o del
valente Mimmo Calopresti, che debutta con Nanni Moretti (La seconda
volta, 1995), procede con Bentivoglio (La parola amore esiste, 1998) e
conclude con Silvio Orlando (Preferisco il rumore del mare, 2000). O,
ancora, del brillante Carlo Mazzacurati, che adotta Antonio Albanese in
Vesna va veloce (1996) e ne La lingua del santo (2000). Garanzia di
ottimi esiti commerciali sono anche i tipici prodotti d'esportazione, le
confezioni internazionali avvolte nel tricolore, realizzate spesso con
l'impiego di ingenti mezzi produttivi. Il cinema barocco e folcloristico
di Giuseppe Tornatore (L'uomo delle stelle, 1995; La leggenda del
pianista sull'oceano, 1998; Malèna, 2000) ne è la manifestazione più
riuscita, ma assolvono la stessa funzione anche titoli come il
modestissimo Canone inverso-Making Love (2000) di Ricky Tognazzi o Il
postino (1995) di Michael Radford: produzione italiana diretta da un
calligrafo anglosassone, ambientata in un meridione da cartolina,
interpretata da un grande comico trasversale (morto prima dell'uscita
del film) e globalizzata dal marchio poetico di Pablo Neruda.
Un'ultima categoria, multiforme e decisamente premiante, riguarda quei
film che, con esiti e prospettive differenti, affrontano il caos dei
sentimenti e l'epica minore delle svolte personali, attraverso un forte
radicamento nelle dinamiche psicologiche e nei comportamenti più diffusi
- in modo da attivare processi di identificazione con il pubblico - e
l'adozione di uno stile accattivante e smaliziato. Il caso più
emblematico e pregevole è quello di Gabriele Muccino, capace di riempire
le sale ritraendo vivacemente gli affanni amorosi dei liceali (Come te
nessuno mai, 1999) o l'incapacità di crescere dei trentenni borghesi
(L'ultimo bacio, 2001), dosando abilmente brio e amarezza. C'è poi
l'occhio più debole ma vigile dell'italo-turco Ferzan Ozpetek (Il bagno
turco, 1997; Harem Suare, 1999; Le fate ignoranti, 2001), distratto da
una privata battaglia contro i costumi, l'appassionata retrospezione di
Sergio Rubini (Tutto l'amore che c'è, 1999), lo scaltro manierismo di
Marco Ponti (Santa Maradona, 2001) e Alessandro D'Alatri (Casomai, 2002)
e il poeticismo di Giuseppe Piccioni (Luce dei miei occhi, 2001). Tra i
precursori di questa tendenza, ancora oggi attivi fautori, troviamo,
invece, Cristina Comencini e i suoi schematismi domestico-esistenziali
(Va' dove ti porta il cuore, 1996; Matrimoni, 1998; Liberate i pesci,
2000; Il più bel giorno della mia vita, 2002) e Paolo Virzì, l'unico
vero erede della migliore commedia all'italiana, creatore di arguti
affreschi antropologici (La bella vita, 1995; Ferie d'agosto, 1996;
Ovosodo, 1997; Baci e abbracci, 1999).
Al di fuori di queste regole, il cinema italiano latita: si aggroviglia
in centinaia di titoli che superano di poco il 5 per cento del totale
degli incassi. In tal senso, rispetto a trenta o quaranta anni fa la
ripartizione dei successi è radicalmente cambiata. L'attività prolifica
di maestri della commedia quali Dino Risi, Mario Monicelli, Pietro Germi
e Luigi Comencini, e dei loro sceneggiatori, capaci di assecondare i
desideri degli spettatori senza rinunciare allo spirito critico, non
esiste più. E non è una novità. Oggi si avverte, piuttosto, la tendenza
all'affermazione di una presunta autorialità, anche nell'orbita della
commedia: molti dei registi elencati si posizionano, in termini di
marketing, come autori, poiché oggi l'autorialità è diventata un brand.
Un marchio che assicura un'affermazione commerciale solamente sognata da
autori come Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni o Federico Fellini,
che gremivano le sale solo se le loro opere erano in odore di scandalo
(si ricordano i trionfi de La dolce vita di Fellini nel 1960, Il
Decameron di Pasolini nel 1971 e Ultimo tango a Parigi di Bertolucci nel
1972). Ma il grande assente, rispetto al passato, è il cosiddetto cinema
popolare o di genere, garanzia di ingressi elevati e costanti. Quello di
Sergio Leone, illecitamente rivalutato dal punto di vista critico, di
Enzo Barboni (alias E.B. Clucher) e di tutti i grandi, piccoli e fecondi
artigiani della macchina da presa: Duccio Tessari, Umberto Lenzi,
Fernando di Leo, Lucio Fulci, Mario Bava, Mino Guerrini e tanti altri.
Il declino del cinema di genere, si sa, cominciò circa vent'anni anni fa
con l'avvento delle televisioni commerciali, valide supplenti
dell'immaginario nazional-popolare. E forse è proprio la televisione
che dovrebbe favorire, oggi, un nuovo equilibrio in ambito
cinematografico. Non solo attraverso le pre-acquisizioni e i
co-finanziamenti, che condizionano la vita e il destino di un film,
modellandolo, anche esteticamente, sulle esigenze del piccolo schermo -
esigenze, peraltro, che confinano il 58,3 per cento del totale dei film
programmati nella fascia notturna, magari sforbiciati in ossequio alla
tristemente nota Legge Mammì (che proibisce a qualsiasi ora la
trasmissione integrale di contenuti vietati ai minori di diciotto anni e
relega dopo le 22.30 quelli vietati ai minori di quattordici). Ci
vorrebbe un nuovo indirizzo, che vada anche oltre lo spirito della Legge
122 - che si propone di agevolare i rapporti tra le emittenti televisive
e le produzioni indipendenti. Quale sia il nuovo indirizzo, se ci sarà,
lo vedremo.
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