Povero ma bello: quel cinema da riscoprire
di Dino De Laurentiis


Il cinema italiano del terzo millennio? Prima di analizzare chi è questo sconosciuto, ritengo sia importante rivisitare quello che è stato, e anche quello che ha cessato di essere. È inevitabile tornare a un passato che al momento appare remoto, ma i cui effetti si fanno sentire ancora oggi. Nell'immediato dopoguerra della Seconda guerra mondiale, inghiottita l'epoca dei telefoni bianchi, con il Paese pressoché distrutto, i grandi talenti di allora - Visconti, De Sica, Germi, Rossellini, Risi, Monicelli - a tutti gli effetti reinventarono il nostro cinema dalle fondamenta. Il risultato furono film eccezionali, realizzati con una scarsità di mezzi ugualmente eccezionale. Un cinema "povero", che però tramutava in punti di forza gli scenari e le situazioni lasciate dalla guerra. Un cinema che, all'estero, fu percepito non solo come "ricco", ma anche come quell'intero nuovo "genere" filmico - usando un termine troppo usato e decisamente abusato - che venne poi definito Neorealismo.

A dispetto della controversia che ancora continua a circondare il personaggio, Giulio Andreotti fu forse il solo uomo politico di quell'epoca a intuire che il cinema poteva esportare non solo il prodotto cinematografico in sé stesso ma anche la nostra cultura, oltre a importare valuta pregiata e mostrare l'immagine dell'Italia all'estero. Andreotti aveva anche capito i vantaggi economici indiretti del nostro cinema, che precorse e fu co-artefice del boom economico degli anni Sessanta. La Legge Andreotti stabiliva che l'Italia poteva produrre film con il cinquanta per cento di personale tecnico e artistico straniero, in aggiunta alla possibilità di girare in lingua inglese. Quel tempo, dalla metà degli anni Cinquanta fino a tutti i Sessanta, rimane forse il periodo più florido del nostro cinema. Ai film dei grandi maestri autori - da Il gattopardo a La strada, da I soliti ignoti a Per un pugno di dollari - vanno ad aggiungersi lavori più strettamente commerciali: i film delle "muscolate", le commedie brillanti, addirittura film kolossal in grado di rivaleggiare con le proposte americane, molti dei quali (Guerra e pace, La Bibbia) da me prodotti.

Malauguratamente, all'inizio degli anni Settanta, quella stagione venne troncata. E venne troncata dall'autolesionista cecità politica. La famigerata Legge Corona, che non esito a giudicare informata da concezioni e motivazioni quanto mai discutibili, significò la condanna a morte dell'esportabilità del cinema italiano. La Legge Corona stabiliva, infatti, che un film doveva essere "interamente italiano": attori, sceneggiatori, regista, maestranze e, peggio di tutto, linguaggio. Girare obbligatoriamente pellicole in lingua italiana confinò la nostra cinematografia nel ghetto in cui si dibatte ancora oggi. Venne eliminata la libertà culturale e creativa sia dei produttori che degli imprenditori. Uniche eccezioni furono alcuni occasionali "film d'autore", ma nessuno dei nostri prodotti fu più, né è, tuttora, vendibile all'estero.

Concluso questo breve viaggio nel passato, veniamo in fast-forward al presente. Il paradosso del presente è che la Legge Corona, vecchia di più di trent'anni, è ancora in vigore. Continuando a limitare, a fermare, a bloccare. Tristemente, nessuno degli uomini politici che si sono alternati nel nostro Parlamento da quei giorni ad oggi ha fatto nulla né per modificarla, né, tantomeno, per interessarsi del problema. Nel tempo, nessuna delle molte generazioni di politici che si sono alternate al Parlamento italiano sembra essere stata in grado di comprendere i vantaggi che l'esportazione del cinema italiano nel mondo può portare al nostro paese. La situazione attuale è che su cento film prodotti in Italia ogni anno, direi che solamente da due a quattro vengono esportati, una mezza dozzina risultano in successi commerciali sul territorio nazionale, forse un'altra mezza dozzina riesce in qualche modo a recuperare i costi di produzione, sempre e solo sul territorio nazionale. Stiamo parlando di un totale di quindici film su cento. Significa che ottantacinque film all'anno, prodotti in Italia, affondano in un oscuro oblio dal quale mai faranno ritorno.

Non basta. Tornando alla mancanza di una valida legge per la produzione, e alla conseguente fine della libertà creativa e imprenditoriale dei produttori, le fonti di finanziamento per i film destinati al circuito delle sale sono ormai solo i grossi gruppi televisivi, la cui attenzione è inevitabilmente rivolta alla presentazione dei loro prodotti sui rispettivi network. Il che porta a ulteriori limitazioni creative e produttive, continuando a decretare come il novanta per cento delle pellicole realizzate in Italia siano destinate a breve vita e a prematura morte, sempre in Italia. E ancora non basta. Sul mercato mondiale, i proventi ricavati dalla distribuzione nelle sale stanno diventando sempre più secondari se paragonati a quelli ottenuti dalle nuove tecnologie: videocassette, programmazione satellite, Internet e soprattutto la rapida, rapidissima crescita del dvd. Sostanzialmente, il cinema a casa. E agli utenti del cinema a casa non interessa affatto vedere film sottotitolati, né film regionali, né film con cui è impossibile relazionarsi da un punto di vista tematico.

Tutte queste considerazioni portano a un'unica, chiara sentenza: in tutto il mondo oggi non si conosce il cinema italiano semplicemente perché il cinema italiano non si vende più. Ma forse, considerando i nostri prodotti attuali, se anche si vendesse non farebbe poi molta differenza. Esiste una soluzione? Certo: riportare il cinema italiano all'esportabilità. Ma al tempo stesso, forse è arrivato il momento di pensare non più in termini di Italia quanto in termini di Europa. Se l'Europa è veramente questa entità politica e finanziaria che vuole e cerca di essere, perché non scavalcare i confini delle singole nazioni e mettersi a parlare di "cinema europeo", con libero transito e scambio di idee, uomini, fondi? Potrebbe essere ormai troppo tardi per parlare di leggi per il cinema a livello nazionale, più o meno viziate da anacronistico protezionismo. Non dimentichiamo che il continente europeo conta circa quattrocento milioni di potenziali spettatori, circa centoquaranta milioni in più degli Stati Uniti d'America. Se volesse, l'Europa avrebbe sia i mezzi che le capacità di nutrire il più grande mercato audiovisuale del pianeta, battendo di gran lunga la locomotiva americana. L'ipotetico cinema europeo del futuro sarebbe non solo esportabile e vendibile su vasta scala, ma riuscirebbe anche a conservare le singole identità culturali dei suoi artefici. Un'utopia? Se la storia ci ha insegnato qualcosa, compiamo lo sforzo di non dimenticare quante utopie hanno finito con il diventare esplosive realtà.



 

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