Cinema: è sempre l'arma più forte
di Maurizio Cabona


Il cinema è la continuazione della politica con altri mezzi, perciò i rapporti cinematografici italo-francesi sono cattivi quanto quelli politici. Se Roma guarda soprattutto Washington, Cinecittà guarda solo Hollywood. E a Parigi spiace non essere guardata. Quando il ghiaccio ideologico stratificatosi nell'ultimo anno si assottiglierà, sarà solo per mostrare il crepaccio che spacca l'Europa e che non deriva dagli estri di questo premier o di quel presidente, e nemmeno dalle convenienze di questa o quella maggioranza parlamentare. La Francia si batte per restare una potenza mondiale, sotto lo pseudonimo di Unione europea. L'Italia si batte per avere un riferimento solo, potente ma lontano: gli Stati Uniti. Impotente e vicina, la Framania (Francia/Germania) non sa reagire. Nella Berlino socialista hanno dimenticato il ruolo della Banca Commerciale nella fedeltà italiana alla Triplice alleanza; nella Parigi ex socialista hanno dimenticato che fu il denaro dato a un ex socialista italiano a favorire il passaggio dell'Italia alla Triplice intesa... Meno alti proclami diramati e più alte cifre investite le aiuterebbero a riconquistare Cinecittà. Oltre che della Germania, la Francia avrebbe bisogno dell'Italia e della Russia per lanciare una "dottrina Monroe" per l'Europa. Ma l'Italia s'è sganciata, ben prima della vittoria del centro-destra nel maggio 2001. Nel maggio 2002 Berlusconi, però, ha favorito l'ingresso della Russia nell'Alleanza atlantica, liquidando lo speciale rapporto di Mosca con Parigi e ancor più con Berlino. "L'Europa dall'Atlantico agli Urali" voluta da Charles de Gaulle potrebbe infine davvero nascere.

Dopo la resa ai tedeschi nel 1940, la Francia ha perso la guerra contro i vietminh nel 1954, gli americani nel 1956 (Suez), gli algerini nel 1962; ora - insieme alla Germania, un'autorità quanto a sconfitte - sta però perdendo una pace. È un danno anche per l'Italia: se è opportuno essere nelle alleanze vittoriose, è inopportuno che si riducano a coalizioni, dove non c'è più un senior partner, ma un padrone. Ora, nella lotta per l'egemonia mondiale, l'audiovisivo è lo strumento per eccellenza della propaganda; e, nella lotta per l'audiovisivo, il cinema è "l'arma più forte", come nel 1937 avrebbe detto l'ex socialista italiano beneficiario nel 1914 del denaro francese, Benito Mussolini. Di destra e di sinistra, i politici in Italia oggi sono affascinati dai gentiluomini di ventura hollywoodiani; ignorano che questi audaci privati servono una politica di potenza, proprio come Capitan Kidd, Francis Drake e il pirata Morgan quattro secoli fa. Contro i gentiluomini di ventura, un gentiluomo di natura, Daniel Toscan du Plantier, il Mattei del cinema francese con un Eni chiamato Unifrance. Toscan ha amato i registi italiani, ma ancor più ha amato le loro figlie: Isabella Rossellini e Francesca Comencini in particolare. Aristocratico e uomo di cinema, stenta a intendersi con Silvio Berlusconi, "cetomediale" e uomo di tv. Ma è un grand commis d'Etat e come tale Toscan mette da parte le antipatie personali, quando dal Festival di Cannes del 2001, vinto da un Nanni Moretti circonfuso di antiberlusconismo, mi dà una lettera aperta a Berlusconi da pubblicare su il Giornale. Merita di essere riletta: "Lei conosce - scrive Toscan, funzionario del governo francese, a un Berlusconi appena diventato capo del governo italiano - la diffidenza che il suo potere suscita da vent'anni in molti di coloro che ideano, producono e diffondono cinema. Le imputano la deculturazione dell'Italia, culla della civiltà occidentale. [...] Spero che la sua carica, unita all'amore per il suo Paese, da noi condiviso, le farà scoprire quanto vasta sia la sua nuova responsabilità: non solo per assicurare la riuscita commerciale e finanziaria, ma forse, finalmente, per restituirle l'aura spirituale che l'ha resa egemone per secoli nel pensiero e nella rappresentazione. Noi, gente di cinema, dobbiamo tutto ai maestri del dopoguerra che hanno forgiato il Neorealismo, padre di tutte le tendenze dell'arte dell'immagine. In Prima della rivoluzione, Bernardo Bertolucci fa dire al suo eroe: "Non si vive senza Rossellini". Trent'anni dopo, è più vero che mai per il cinema europeo, per quello italiano, ma soprattutto per lei, signor presidente".

Rossellini? "Un documentarista", lo definiva scherzosamente Dino Risi. Ma Toscan aderisce alla vulgata dei Cahiers du Cinéma, che vogliono Rossellini adamantino antifascista, sebbene lo sia diventato solo a fascisti partiti dalla sua Roma città aperta (1945), rifacimento di segno politico capovolto rispetto al suo L'uomo dalla croce (1943), sceneggiato dal fascistissimo Asvero Gravelli. Quanto a Bertolucci, siamo ormai al "dopo de la rivoluzione", che peraltro non c'è stata, e poi, a pagare i suoi film, è ormai la berlusconiana Medusa. Comunque è evidente, dalla testata cui affida il messaggio, che nel 2001 Toscan spera ancora in un'intesa con l'Italia. Walter Veltroni e Giovanna Melandri gli avevano promesso molto, ma niente avevano mantenuto: non c'era stata in particolare l'adesione italiana all'asse franco-tedesco, concluso a Berlino nel giugno 2000; non c'era stata l'estensione all'Italia, via Rai, della rete televisiva culturale franco-tedesca Arte, che diffonde solo "cinema di qualità", cioè europeo, cioè francese, nei quattrini se non anche nel resto. Nell'ultimo anno, il clima elettorale ha appannato i francesi. Dal messaggio affidato a il Giornale, si è passati alle ripicche. Gennaio 2002, giornate di promozione del cinema francese a Parigi; un distributore cinematografico italiano chiede che s'inviti anche il Giornale. Risposta: no. Il distributore fa notare che si invita il manifesto, molto meno diffuso del Giornale. Risposta: ancora no, e no anche per Canale 5. Aprile 2002: Jéróme Clément della rete televisiva Arte organizza una festa a Venezia, poi, all'ultimo momento, la disdice per fare un dispetto al governo italiano.

Infantilismi che non devono far sottovalutare un'esperienza interessante. Negli ultimi due anni, Toscan ha assistito al rialzo degli incassi per la produzione francese, sia in Francia, sia nel mondo, grazie a film e filmetti come Astérix e Fiumi di porpora, Patto coi lupi e Il favoloso mondo di Amélie. Ma nello scorso maggio Jean-Marc Messier - amministratore di Vivendi-Universal, proprietaria di Canal Daily e Studio Canal, casseforti del cinema francese - dice basta con "l'eccezione culturale", che esenta la cultura dall'Organizzazione mondiale del commercio. È tardi per intralciare l'incombente Festival di Cannes, vetrina consueta dei prodotti Canal, ma la svolta per gettare un'ombra sul prossimo Festival di Berlino (febbraio 2003) e sulla prossima edizione di Cannes, che dovrà trovare dei sostituti per larga parte della produzione "alta", facente capo al gruppo Vivendi. In una logica di "grande spazio", come è l'Unione europea, l'evento è grave: indebolisce la sua unica strategia del cinema. Una strategia non produce capolavori, permette però che si girino ancora film: e, senza film, niente capolavori. Chi s'infischia del destino del cinema francese, italiano, europeo, giudicandolo trastullo di un'accolita di nani e ballerine, di intellettuali e girotondini, probabilmente si preoccupa oggi della Fiat, cioè della General Motors italiana. Ma lamiere e pistoni sono beni fungibili, una lingua e una cultura no: difendendo se stessa, la Francia difende l'Europa, dunque anche l'Italia, che si limita ad amministrare lo status quo. Anche in questo caso, non è affare di una maggioranza piuttosto che di un'altra. Nominare direttore della prossima Mostra d'arte cinematografica di Venezia, la cinquantanovesima, Moritz de Hadeln è stato fare di necessità virtù: dove la "necessità" sembrava solo quella di sostituire il precedente direttore, Alberto Barbera, perché nominato dal precedente governo. Direttore - più che ventennale - del Festival di Berlino, de Hadeln era stato licenziato dopo l'intesa con la Francia del giugno 2000. Post hoc, propter hoc? de Hadeln governava, infatti, la massima manifestazione cinematografica del mercato tedesco, il maggiore d'Europa, con speciale attenzione per Hollywood... Mettere in sella a Venezia il disarcionato di Berlino è stato dunque un ceffone a Parigi.

Telefono a de Hadeln per sentire la sua opinione sul cinema italiano. "Che cos'è Ideazione?", mi chiede. "Il Micromega di Berlusconi", rispondo ironicamente. de Hadeln: "Sono occupato". Insisto. "Non posso parlare della Mostra", si schermisce. "Non le ho chiesto della Mostra, ma del cinema italiano". "Non so", si trincera. "Un'idea l'avrà...", presso. "Chiami Angela Savoldi. Arrivederci". Due giorni dopo ricevo per posta elettronica dalla signora Savoldi: "Dopo un periodo difficile, il cinema italiano sta mostrando di nuovo la sua vitalità, anche grazie a una nuova generazione di autori. Questo mi rallegra non solo per la cultura italiana, ma anche per il contributo dell'Italia alla cultura europea. Firmato de Hadeln". Poche ma sentite parole. Ma al Giornale dello spettacolo del 10 maggio de Hadeln aveva dato un'intervista di mezza pagina. Dicendo: "Spaventa in Italia la spaccatura che sembra esistere, in questo momento, tra i cineasti e le istituzioni, fra buona parte del mondo del cinema e i politici. [...] Come alla Berlinale, cercherò di avere un programma equilibrato, nel quale, da una parte, ci sarà il grande cinema americano e, dall'altra, un'apertura verso cinematografie esordienti e nuove". "Programma equilibrato" della Berlinale? L'ultima edizione di de Hadeln (2001) era stata inaugurata da Il nemico alle porte di Jean-Jacques Annaud. Per Toscan, "il 30 per cento degli ottantacinque milioni di dollari che costava, l'aveva pagato il contribuente tedesco, ma gli incassi erano finiti in America. Gli altri danno, l'America prende" (il Giornale, 8 maggio 2001). Fiasco artistico e commerciale, Il nemico alle porte era stato girato in Germania da un regista francese con cast anglo-americano che recitava in inglese. Attenti poi alla trama. A quarant'anni dalla costruzione del Muro, il film canta la gloria di un cekista e di un tiratore scelto dell'esercito rosso, sterminatore di tedeschi, i padri o i nonni degli spettatori. Film pensato per conquistare i mercati dell'Est europeo? Ma chi, dopo mezzo secolo di polpettoni russi su Stalingrado, ne avrebbe visto un altro, tedesco, ma sempre dalla parte dei russi?

Quello di girare in inglese è un vecchio stratagemma per piazzare un film europeo sul mercato americano. C'è una foto di Gian Maria Volontè nel 1976, sorpreso accanto a un cartello che sottolinea il contrasto: "Soldi, regista e attori: italiani. Lingua: inglese". E c'è Ritorno a casa, il bel film di Manoel de Oliveira (2001), con Michel Piccoli nella parte di un attore francese messo in difficoltà dal dovere girare un film francese in inglese. L'espropriazione della lingua e del passato è anche al centro di Eloge de l'amour di Jean-Luc Godard (2001), anche questo un film in concorso a Cannes, che uscirà in Italia solo nel prossimo agosto, si può immaginare con quanto pubblico. Ma Dino De Laurentiis sostiene da decenni, e anche su questo numero di Ideazione, che i film vanno girati in inglese e poi doppiati per i Paesi di altra lingua: produttore, da produttore ragiona. Quanti film non americani per sfondo o per concezione, ma girati in inglese da attori non americani o comunque non anglosassoni, hanno però sfondato negli Stati Uniti? Per un film di effetti speciali, dove meno si recita e meglio è, il discorso ha ancora un senso. Ma per gli altri? Si sa, un film è arte, il cinema è industria. Comunque la questione del radicamento non pare aggirabile. I film cosmopoliti come Il nemico alle porte non vengono premiati spesso dal botteghino. Neanche i film europoliti, quelli finanziati dal Fondo Eurimages: quando se ne vede uno discreto o bello - è il caso del recente Le Fils dei Dardenne premiato all'ultimo Festival di Cannes - lo si scrive nel diario.

Per Aki Kaurismaki, regista finlandese (Nuvole in viaggio, L'uomo senza memoria, Gran premio della giuria all'ultimo Festival di Cannes), "è vano inseguire il cinema americano: non è più cinema, anche se una volta ha prodotto capolavori. A competere con gli americani sul loro terreno, non vinceremo mai. Non credo neanche nel protezionismo, però: se un film aiuta una sala a non chiudere, il mio film europeo ne avrà vantaggio. Ma bisogna che il film si faccia. Va sostenuto il momento produttivo coinvolgendo i grossi imprenditori privati. Il cinema irlandese e quello australiano sono rifioriti così". Ma va sostenuto anche il momento distributivo. Italiani, francesi, tedeschi, spagnoli, inglesi da vent'anni vedono quasi solo film americani: nell'Ue, le cinematografie europee occupano il 6 per cento del mercato. La cinematografia non americana più di richiamo in Italia, la francese, ha il 4 per cento degli incassi, dopo essere scivolata fino al 2,5 per cento. In Francia la cinematografia italiana - che era seconda, dopo quella americana - ora non arriva all'1 per cento. Gli europei sotto i quarant'anni non hanno più ricordi cinematografici europei comuni. Cercano di cantare un inno di quasi due secoli fa mettendo la mano sul cuore, come hanno visto fare agli americani proprio nei film. Tornano al patriottismo italiano come Veltroni o la Fallaci, solo passando per quello americano, ignari che patriottismo è identità. Chi ne ha una doppia, è schizofrenico.



 

stampa l'articolo