Verso Venezia. Un'esibizione di amorosi sensi?
di Michele Anselmi


Alla fine, sbollita la sbornia resistenziale e rientrato lo sdegno dei registi democratici per "le mani di Berlusconi sulla Mostra del cinema", si sono messi tutti in fila. Com'è logico, e giusto, che sia. Alle sirene veneziane di Venezia è difficile sottrarsi. E così Moritz de Hadeln, il direttore venuto dal Nord, esattamente come i suoi predecessori di vario orientamento politico/culturale (da Rondi a Biraghi, da Pontecorvo a Barbera, passando per Laudadio), ha potuto con tutto l'agio necessario visionare una ventina di film italiani pronti per il festival. Alcuni li ha messi in concorso, altri nelle sezioni parallele, senza fare troppi torti, scegliendo con cura i giorni buoni, perché non si dicesse più che lui ce l'ha con il cinema italiano. Perfino Aurelio De Laurentiis, dopo avergli dichiarato guerra sui giornali, ha continuato a finanziare generosamente uno dei premi veneziani, e vedrete che il giorno dell'inaugurazione, il 29 agosto, in platea sarà tutta un'esibizione di amorosi sensi. Poi, magari, a Mostra chiusa, c'è chi si pentirà di esserci ricaduto e darà la colpa delle eventuali stroncature "al meccanismo stritolante", "alla stanchezza dei critici", "alla frenesia dei mass-media", "al film americano piazzato in contemporanea", ecc. Ogni volta è così. Qualcuno, raramente, ringrazia. Tanti, spesso, giurano "mai più", pur sapendo, in cuor loro, che il rischio fa parte del gioco. Parlo a ragion veduta, potrei dire per esperienza vissuta. Qualche anno fa Gillo Pontecorvo mi chiamò a far parte, in qualità di esperto, della commissione di selezione. Esperienza utile, formativa, perfino divertente, benché all'epoca, essendo la Biennale ancora inquadrata nel parastato, non retribuita. Tra giugno e luglio si vedevano centinaia di film, anche cinque al giorno, poi si discuteva, si litigava, si votava, consapevoli che alla fine l'errore ci sarebbe scappato.

Mettere a punto il palinsesto di un festival internazionale, infatti, non è impresa facile. Ti tiri addosso rancori, maldicenze, sospetti. Ricordo che Goffredo Fofi ci accusò di aver fatto una Mostra "Rinascente-cecchigoriana", ovvero con l'estetica della Rinascente e i film di un Cecchi Gori allora potente; un bollettino quotidiano che si stampava durante i giorni del Festival ci paragonò a dei "berluscones", mettendo i nostri nomi sotto quella celebre fotografia che ritrae il Cavaliere e i suoi collaboratori più stretti intenti a fare jogging di prima mattina alle Bermuda. Ciprì e Maresco, infuriati per non essere entrati in concorso con Lo zio di Brooklyn, ci definirono vigliacchi o giù di lì; parimenti, la Betti sparò in conferenza stampa contro tutta la commissione "colpevole" di non aver piazzato in gara quel capolavoro assoluto che era, a suo modo di vedere, I magi randagi di Sergio Citti. Capita sempre così. Tutti esigono la selezione ufficiale, sicuri di meritarla. Poi però, se prospetti loro una collocazione diversa, purché all'interno della Mostra, se possibile in Sala Grande, il giorno in cui non passa Harrison Ford o Tom Cruise, alla fine accettano. Umano e ragionevole. Ogni tanto, però, vale la pena di puntare i piedi. Per includere, non solo per escludere.

Fu una fatica, ricordo bene, convincere Pontecorvo a piazzare in concorso Il toro di Carlo Mazzacurati: non lo voleva proprio, per via di Diego Abatantuono, e invece la giuria si innamorò di Citran e gli assegnò pure la Coppa Volpi. Doppia fatica fu convincere Giuseppe Tornatore, scottato a Cannes l'anno prima, a gareggiare con L'uomo delle stelle: e anche lì fiorì un premio. Per dire, insomma, che una buona Mostra non è solo la risultante dei singoli film. Bisogna saper intrecciare gli argomenti, accoppiare bene i titoli, inventare un possibile percorso estetico: a patto, si intende, di non abbassare paurosamente la media per timore di dire qualche no. Agli amici e ai rompipalle.




 

stampa l'articolo