L’eredità di Christopher Lasch
di Paul Piccone
Fino alla sua morte prematura nel 1994, Christopher Lasch è
stato uno dei più acuti critici della società americana. I suoi
lavori principali, “Rifugio in un mondo senza cuore”, “La
cultura del narcisismo”, “L’io minimo”, “Il paradiso in terra”,
“La ribellione delle élite”, sono ancora molto letti, e le sue
idee – a partire dalla critica delle politiche liberal e della
continua crescita delle burocrazie governative, che minacciano
l’autonomia dei nuclei familiari – si sono dimostrate molto
influenti. Le idee laschiane si rivolgono all’interazione tra la
cultura di massa, la crescita dei consumi e il declino
dell’autorità morale – che si traduce in patologie della persona
– oltre che alla demistificazione del concetto di progresso,
nella sua veste di pietra angolare del liberalismo moderno. Le
sue analisi attingono a numerose discipline ritenute strumenti
necessari per comprendere il cammino della storia, dalla teoria
politica alla filosofia alla psicanalisi. L’oggetto centrale e
costante delle sue critiche sono state le politiche e le
istituzioni che minacciavano l’autonomia individuale e la
capacità di partecipazione attiva al processo democratico. Lasch
ha visto queste precondizioni di una società libera
sistematicamente messe in pericolo dai mass media, dalla
professionalizzazione della politica, e dalle politiche federali
che erodevano le prerogative politiche delle comunità locali.
Egli riteneva che i politici professionisti e le loro burocrazie
partitiche, insieme alle élite imprenditoriali e finanziarie,
avessero smarrito ogni legame con i valori reali condivisi dal
comune cittadino americano.
Lasch mette in luce l’importanza della famiglia americana come
locus dell’autorità morale all’interno della comunità e delle
sue istituzioni. Egli considera le chiese e le organizzazioni
civiche – compresi i ristoranti popolari e le taverne –
altrettanti luoghi in cui i valori comunitari sono articolati e
il dibattito pubblico viene nutrito, nella misura in cui non
vengono inquinati da un welfare state in continua espansione e
terribilmente invasivo. Alla base di tutte queste preoccupazioni
sta, come spiega nella prima frase del suo più recente libro, la
domanda se la democrazia abbia un futuro. Il suo punto di vista
riguardo al tipo di condizioni socio-economiche che permettono
alla democrazia di funzionare è dichiarato esplicitamente
qualche pagina dopo: “La democrazia funziona soprattutto quando
gli uomini e le donne agiscono per se stessi, con la
collaborazione degli amici e dei vicini, invece di dipendere
dallo Stato”. Questa preoccupazione è ciò che sta dietro
l’interesse di Lasch per il populismo, il comunitarismo e il
federalismo.
Oggi, si fa un gran parlare di ridimensionare il governo –
un’ammissione generale che lo Stato non solo si è trasformato in
una burocrazia estesa e ingovernabile che indebolisce le risorse
del Paese, ma che il suo tentativo di intervenire in ogni genere
di problema sociale e volerlo gestire per mezzo del suo apparato
di welfare si è rivelato un fallimento spettacolare. Il modello
originario del federalismo americano, che è stato
sistematicamente disatteso a partire dalla fine della Guerra
civile circa un secolo e mezzo fa, era antitetico al moderno
Stato-nazione e alla sua imposizione di ipotetici valori
superiori attraverso un governo centrale intrusivo e gravido di
potere, dei concetti astratti di individualismo, e un insieme di
diritti civili o umani che legittimavano ovunque l’intervento
statale con lo scopo di irrobustirlo. Storicamente, il
federalismo ha enfatizzato, piuttosto che il potere centrale,
l’autonomia locale e la governance democratica in quanto
detentori di una posizione superiore per esercitare il potere,
sia in chiave legale che politica. Lasch ha suggerito la
riconsiderazione di un populismo ingiustamente screditato come
alternativa politicamente vitale, in grado di sostenere e
probabilmente rivitalizzare quell’idea di democrazia che
presupponeva l’originario modello federalista americano.
La via populista al comunitarismo
Sia il populismo che il comunitarismo rifiutano il primato dei
valori del mercato, per cui qualsiasi cosa viene giudicata dalla
prospettiva dell’utile, e del welfare state, che trasforma
cittadini autonomi in individui dipendenti non più in grado e
disposti ad agire come attori responsabili. In questo senso, il
populismo e il comunitarismo non sono allineati né con la
sinistra né con la destra, e ancora meno con il Partito
Repubblicano o i Democratici per come oggi si presentano. Come
afferma Lasch, rappresentano una “terza via”. Questo perché “Il
populismo […] accetta senza riserve il concetto di rispetto. […]
Il populismo ha sempre respinto la politica della deferenza e la
politica della pietà. E’ a favore di un modo di agire sincero e
di un modo franco di parlare. Non si lascia impressionare dai
titoli e dagli altri simboli di Stato sociale superiore, ma non
si lascia impressionare nemmeno dalle pretese di superiorità
morale avanzate a nome degli oppressi. Rifiuta un’ “opzione
preferenziale” a favore dei poveri, se essa significa trattare i
poveri come vittime senza speranza delle circostanze, esimendoli
dalle loro responsabilità o assolvendo le loro trascuratezze
come se la povertà comportasse una presunzione d’innocenza. Il
populismo è la voce autentica della democrazia. Si basa sul
principio che gli individui hanno diritto al rispetto finché non
si dimostrano indegni di averne, ma esige che tutti si assumano
le loro responsabilità. E’ riluttante a fare concessioni o a
sospendere il giudizio in considerazione del fatto che “la colpa
è della società”. Il populismo è giudiziale”.
Come può una riconsiderazione del populismo farci fuoriuscire
dalla situazione presente di impasse, in cui tutte le decisioni
vengono prese da un’élite irresponsabile munita di un esile
mandato elettorale, in collaborazione con una burocrazia giammai
eletta? Quale tipo di istituzioni è necessario per sostenere una
società fiorente, con una sfera pubblica rivitalizzata e
democratizzata? Queste sono le domande a cui Lasch ha cercato di
dare una risposta lungo il corso di tutta la sua vita. Ciò che
ha reso il suo lavoro così interessante è che, a differenza
della maggior parte degli intellettuali, è stato in grado di
operare a due livelli, che di solito non riescono a convivere
bene, specialmente nei contesti accademici. Egli è rimasto
sempre legato alle questioni politiche concrete, e al tempo
stesso – quando era necessario – non ha avuto timore di
rivolgersi a questioni ad un livello molto alto di astrazione.
In un primo periodo, Lasch ha passato molto tempo cercando di
impiegare i concetti psicanalitici come strumenti di analisi.
Egli sperava che la psicanalisi potesse spiegare alcuni degli
sviluppi recenti degli Stati Uniti. Dopo aver speso una grande
quantità di tempo costruendosi un proprio punto di vista in
mezzo alla grande mole di letteratura su questa materia, ad ogni
modo, è arrivato alla conclusione di essersi cacciato in un
vicolo cieco. Poi, per un certo tempo, si è dedicato allo studio
delle opere della Scuola di Francoforte – non tanto ciò che era
stato pubblicato dopo la guerra, che risultava ancora troppo
intriso delle obsolete categorie marxiste e in gran parte non
era disponibile in inglese, quanto ciò che alcuni dei suoi
membri, in primo luogo Theodor W. Adorno, avevano scritto negli
anni Quaranta, prima che molti di loro tornassero in Germania e
mentre erano impegnati in discutibili progetti di taglio
psicologico come lo studio della “personalità autoritaria” (i
cui risultati furono pubblicati in un pretenzioso, e voluminoso,
tomo con questo titolo, e che Lasch ha demolito in maniera
sistematica ne Il paradiso in terra, anche se questo studio non
rispecchia certamente la complessità del pensiero della Scuola
di Francoforte).
Ad ogni modo, anche in questi anni Lasch non aveva mai avuto
timore di frugare in ogni direzione alla ricerca di nuovi
possibili approcci per la ricerca storica. Quando, verso la fine
degli anni Sessanta, prima che si disintegrasse definitivamente,
la New Left stava disperatamente cercando un teorico
“rispettabile” all’interno della tradizione marxista ortodossa
per collocarsi in ciò che riteneva la sinistra storica – o
perlomeno una sinistra che aveva in un certo qual senso avuto
successo in Russia – e cercava di riciclare Antonio Gramsci (a
quel tempo praticamente sconosciuto nel mondo anglosassone),
Lasch fu uno dei primi ad organizzare un simposio sul pensiero
gramsciano e la sua rilevanza per il contesto sociale americano
(probabilmente nel tentativo di scoprire un Gramsci radicalmente
diverso dalla più ortodossa versione stereotipata che era stata
introdotta dal collega di Lasch dell’epoca, Eugene Genovese).
In un’epoca in cui la maggior parte degli storici americani
ancora pensavano che Gramsci fosse probabilmente un’altra marca
importata di pasta, questo tentativo non portò da nessuna parte,
dopo aver concluso che, a partire dal 1935, con il suo famoso
saggio su Americanismo e fordismo, Gramsci aveva effettivamente
abbandonato qualsiasi illusione sulla possibilità di una
rivoluzione in Occidente – un qualcosa che molti epigoni
marxisti, specialmente in Inghilterra quelli legati alle riviste
New Left Review, Capital and Class e Economy and Society devono
ancora comprendere mezzo secolo dopo. Come risultato della sua
costante enfasi sulla concretezza, Lasch non è mai rimasto
invischiato in alcuna particolare ideologia o prospettiva
teorica, mentre ha sempre attentamente valutato il loro valore
euristico. Ciò gli ha permesso di affrontare i problemi concreti
da un certo numero di prospettive relativamente sofisticate,
senza mai perdere di vista le limitazioni di ciascuna teoria o
ideologia di fronte ad una realtà sociale recalcitrante.
Certamente, egli ha fatto proprie molte delle critiche
usualmente rivolte al liberalismo, al progresso e a molte altre
idee sviluppate in un gran numero di discipline.
Alcune di queste critiche lo hanno spinto in nuove interessanti
direzioni. Così, prendendo sul serio la critica del progresso,
ha riscoperto la tradizione populista americana. La maggior
parte degli accademici, in special modo quelli con inclinazioni
di sinistra, leggono, ad esempio, Walter Benjamin, le sue ben
note tesi sulla storia e la riproduzione meccanica, e ancora
continuano a fantasticare sul “progresso” e sulle politiche
“progressiste” in quanto automaticamente superiori a tutte le
altre. Lasch ha sempre considerato questo discorso come parte di
un’ideologia illuministica da lungo tempo screditata:
un’insostenibile visione da cristianesimo secolarizzato non più
ancorata in alcuna rivelazione trascendentale, e così incapace
di avere un qualsiasi impatto normativo; trae le sue origini da
Adamo ed Eva ma, anziché finire in paradiso, come sostiene
Adorno, finisce nei recinti dei Gulag, di Hiroshima o Auschwitz.
Di conseguenza, Lasch non ha esitato a identificare il mito del
progresso come uno dei principali puntelli per la Nuova classe
di professionisti, esperti, politici o, nelle parole di Robert
Reich, “analisti simbolici”, il cui status socio-economico
privilegiato viene giustificato dal loro supposto ruolo nella
razionalizzazione della società e nella garanzia di costanti
miglioramenti sociali.
A differenza dei marxisti e di altri “progressisti”, che sono
sempre pronti ad abbandonare tutti i fallimenti nelle politiche
e nei progetti di ricostruzione sociale nella proverbiale
“pattumiera della storia”, il congedo di Lasch dal progresso
come ideologia dell’Illuminismo lo ha spinto a valorizzare come
miniera in cui riscoprire un intero patrimonio storico ciò che i
marxisti consideravano un deposito di vecchiume storico. Ben
lungi dal considerare i progetti storici falliti alla stregua di
una paccottiglia buona solo per la ricerca archeologica, Lasch
li considerava alternative possibili al modello predominante di
organizzazione socio-politica. Nei trent’anni precedenti, prima
che Lasch, Lawrence Goodwyn e pochi altri storici
non-conformisti cominciassero a studiarlo, il populismo veniva
di solito ridotto dai principali scienziati sociali e
intellettuali americani in generale, ad un movimento
proto-fascista – una sorta di vicolo cieco della fine del XVIII
secolo che divenne razzista, xenofobo e di destra, prima di
scomparire dal quadro politico. Con buona probabilità, le
migliori caratteristiche del populismo sono state assorbite dal
progressivismo di inizio secolo, che ha prefigurato il
successivo Welfare State e il New Deal.
Questo è il genere di resoconto che troviamo in Seymour Martin
Lipset e nel resto degli ideologi della “fine delle ideologie” –
incluso il maestro di Lasch, Richard Hofstedter, nei cui
confronti Lasch ha sempre nutrito un grande rispetto, ma che non
ha esitato a criticare ogni volta che lo ha ritenuto necessario.
Esso era ciò che John Kenneth Gailbraith prendeva in giro come
il punto di vista convenzionale dei principali scienziati
sociali, storici e intellettuali durante gli anni Cinquanta, che
associavano costantemente il populismo a Joe McCarthy, il
reazionarismo e l’irrazionalismo della destra anticomunista.
Tutto questo ha fatto in modo che scomparisse qualsiasi seria
discussione politica o teorica del populismo. Si può infatti
scorrere l’intera letteratura del secolo precedente senza
trovare un solo serio tentativo di capire il senso di quel
movimento. Tutto ciò che si può trovare sono illazioni,
disinformazione, insulti e stroncature sommarie. Prima di Lasch
e Goodwyn, nessuno osava accostare il populismo alla democrazia
diretta: un autentico fenomeno americano che incorporava il
meglio di ciò che rappresentavano gli Usa. I politologi liberali
solitamente seguono Bobbio nel rifiuto di qualsiasi forma di
democrazia diretta in quanto impraticabile, senza considerare se
la democrazia rappresentativa, o ciò che oggi va sotto questo
nome, sia davvero democrazia.
Democrazia e libertà locali
Un’analisi accurata del perché il populismo emerse quando emerse
(subito dopo la Guerra civile, quando il nation-building divenne
il principale obiettivo del governo), per poi scomparire con lo
sviluppo del progressismo all’inizio del XX° secolo aiuta a
spiegare molto di quello che accadde dopo: la
professionalizzazione della società, l’affermazione della Nuova
classe, e la perdita sistematica di potere delle comunità e
delle forme di autogoverno locale. All’inizio, il populismo fu
una reazione alla centralizzazione del potere, durante le crisi
economiche che seguirono alla Guerra civile, quando le comunità
locali si ritrovarono non in grado di controllare il proprio
destino così come avevano fatto durante la prima metà del XIX
secolo. Questa centralizzazione del potere finì per trasformare
cittadini responsabili in clienti dipendenti incapaci e nemmeno
disposti a sostenere le istituzioni democratiche che, come
risultato di ciò, si sono gradualmente degradate a quel genere
di competizione per la popolarità mediatica quali sono divenute
oggi. La partecipazione ai processi decisionali è scarsa, e
davvero poca è la spinta popolare nella formazione dell’agenda
politica. Nel complesso, oggi ciascuno di noi parla della
democrazia, ma davvero pochi hanno delle idee concrete riguardo
a cosa voglia dire praticare la democrazia, oltre la routine
plebiscitaria della scelta tra due gruppi di candidati già
preselezionati dagli apparati di partito. Christopher Lasch è
stato il primo a vedere questa situazione per quello che era. A
differenza di Goodwyn, che ha ricostruito una storia molto
interessante che, però, lo porta ad accantonare il populismo
come un’esperienza storica conclusa, Lasch intravedeva la
possibilità concreta che il populismo potesse divenire un
potenziale movimento che prometteva di ricostruire la democrazia
americana.
Parliamo di qualcosa di completamente differente dal modello
europeo. La tradizionale democrazia americana – la democrazia
partecipativa – ha un carattere locale, caratterizzato dalle
interazioni faccia a faccia, ed è molto differente dal modello
burocratico che distrugge ogni possibilità di comunicazione, dà
potere dalla Nuova classe, e trasforma la corruzione in un modus
operandi standard in assenza del quale la società non può
funzionare. Uno non ha bisogno di guardarsi molto intorno per
vedere ciò che è accaduto in Italia, dall’operazione Mani pulite
alle più recenti rivelazioni di Berlusconi per comprendere che
la società italiana si sarebbe bloccata senza quelle pratiche di
corruzione sempre condannate ma assolutamente essenziali. Data
questa situazione complessa, che non è semplicemente
un’idiosincrasia italiana ma, anche se in misura minore, una
procedura operativa comune a tutte le società post-industriali
avanzate con potenti governi centralizzati, la critica di Lasch
comincia ad acquistare un senso profondo, pur non essendo essa
stessa priva di contraddizioni interne. Così, il primo capitolo
de “La ribellione delle élites” si apre con la messa in stato
d’accusa dell’attuale stridente separazione tra il popolo e gli
intellettuali, e con il tentativo di superare il problema. Ma
quali sono a questo punto le possibilità di riattivare la
partecipazione diretta e la democrazia diretta, ridestare la
cittadinanza, incoraggiare la responsabilità ecc.? Lasch
sviluppa una critica dei valori predominanti e del relativismo
diffuso, che sono divenuti la religione ufficiale del mondo
accademico. Cerca di difendere i valori e i costumi
tradizionali, e il particolarismo delle comunità. In poche
parole, cerca di riportare in auge l’originale modello americano
di organizzazione sociale, spesso mal compreso se non del tutto
dimenticato.
In realtà, perché gli Stati Uniti sono stati creati come
“federazione” e non come “nazione”? La risposta è ovvia. Si
voleva salvaguardare la sopravvivenza di quell’eterogeneità
assiologica all’epoca tipica del Nuovo mondo, in modalità
radicalmente differenti dalle contemporanee “politiche
multiculturali” in cui la differenza viene amministrata da un
governo centrale che in ultima istanza decide su quale può
essere considerata una “differenza” accettabile e quale no. Essa
si riduce ad un progetto di omogenizzazione in cui le differenze
o vengono represse (ad esempio la poligamia) o marginalizzate
fino all’irrilevanza (la gastronomia, il folklore ecc.). Lasch
riconosce l’importanza dell’eterogeneità dei valori, la cui
eliminazione non significa la sostituzione di un insieme di
valori da parte di un altro insieme, ma il nichilismo e il
cinismo; successivamente, però, nello stesso libro, a poco a
poco si fa strada una speranza riguardo allo sviluppo di valori
comuni: i valori nazionali. La tesi di Lasch è che la vera
democrazia diretta permette alla gente di comprendere, discutere
ed articolare le differenze e, in ultima istanza, si traduce in
un insieme di principi e valori condivisi che, se efficacemente
interiorizzati, spianerebbero la strada ad una società fiorente.
Così, Lasch non ha mai davvero messo in discussione il concetto
di nazione e la misura in cui sta divenendo rapidamente
obsoleto. Mentre i recenti avvenimenti successivi all’11
settembre hanno spinto furiosamente alla riaffermazione
dell’unilateralismo americano, allo stesso tempo questi
avvenimenti non costituiscono alcuna rivendicazione di quel
particolarismo nazionale tipico dell’isolazionismo tradizionale.
A differenza di ciò che pensano gli europei, e che rappresenta
una delle ragioni principali del crescente anti-americanismo, il
Nuovo Ordine Mondiale difeso da Washington non implica ovunque
l’imposizione dei valori statunitensi, né la creazione di un
impero al cui interno le altre nazioni dovrebbe automaticamente
ridursi a vassalli. Nonostante tutta la retorica sulla
democrazia, la cupa visione dell’amministrazione Bush deve
essere interpretata all’interno dell’orizzonte residuale
dell’America ante bellum, che cerca di estendere su scala
planetaria quel “modello americano” originario che, nonostante
le sue pie intenzioni, senza volerlo l’amministrazione sta
sistematicamente demolendo attraverso una nuova, massiccia
centralizzazione del potere (presumibilmente legittimata dalla
“guerra al terrore”).
Il Nuovo Ordine Mondiale non significa l’imposizione della
“democrazia americana” ovunque. Sebbene le organizzazioni
governative internazionali si siano ridotte a carrozzoni
immensamente inefficienti, spreconi e veri e propri ostacoli,
spesso controproducenti, per gli obiettivi che si dice
dovrebbero perseguire, il Nuovo Ordine Mondiale semplicemente
cerca di garantire l’effettuabilità delle relazioni di mercato
(la globalizzazione), nel rispetto delle autonomie locali. In
questo contesto, il concetto tradizionale della nazione con i
suoi propri valori e la sua particolarità non conserva più molto
senso, almeno nella misura in cui l’ordine globale, nel suo
farsi esternamente su scala planetaria, tende anche a riprodursi
internamente. All’interno di questo contesto globalizzato e
post-nazionale, la speranza di Lasch di sviluppare dei valori
“comunitari” non è solo donchisciottesca ma anche
controproducente, di fronte al progetto di ricostruire il
particolarismo e l’autogoverno delle comunità. Dopo tutto, la
nazione ha rappresentato sin dall’inizio un progetto della Nuova
classe – un fenomeno post-borghese che intendeva spostare il
potere dal capitale finanziario dei proprietari al capitale
sociale degli intellettuali, dei politici e dei burocrati
incaricati di gestire lo Stato. Lasch descrive efficacemente
come i valori particolari delle comunità vengano
sistematicamente distrutti non solo nel processo di
nation-building ma anche, e in modo più significativo,
dall’espansione dell’economia di mercato. In realtà, egli
ritiene che nell’ultimo secolo e mezzo i liberal si siano
impegnati nella controproducente missione di costruire un forte
Stato proprio per contenere l’impatto distruttivo del mercato,
contribuendo però essi stessi ad un’ulteriore erosione del
particolarismo, dell’eterogeneità e dell’autodeterminazione.
Se, storicamente, è stato lo Stato a creare la nazione,
piuttosto che il contrario, allora il desiderio di un insieme
solido di valori nazionali finisce per essere parte e tassello
del progetto di “modernizzazione” della Nuova classe. Così, le
nazioni moderne sono in fin dei conti entità artificiali, molto
simili al Dipartimento dell’educazione del vecchio Dipartimento
degli Stati Uniti per lo Sviluppo urbano – e sembrano anche
creare più danni sociali dell’insieme di queste burocrazie.
Ciascuna “nazione-realmente-esistente” come la Germania, la
Francia, l’Italia, ecc. finisce sempre per essere la creazione
della Nuova classe per realizzare una particolare agenda
politica, e per distruggere le culture particolari e le
autonomie locali. Lo Stato centralizza sempre il potere in
luoghi come Berlino, Praga, Parigi o Washington, trasformando la
gente che vive nelle periferie in tanti irrilevanti
“provinciali” senza alcunché da dire di socialmente,
economicamente o politicamente rilevante. Da una forma di
organizzazione politica, la democrazia si tramuta in un
meccanismo di legittimazione della Nuova classe. Come
conseguenza, i progetti concreti di ricostruzione sociale che
Lasch prefigurava non possono essere realizzati come parte di un
più ampio progetto di nation-building. Il progetto di ridestare
lo spirito del populismo americano può solo essere inquadrato
nei termini della ricostruzione di un federalismo solido
preoccupato di riattribuire potere alle comunità locali,
ristabilire la loro autonomia e sovranità in linea con i vecchi
articoli della Confederazione, vigenti prima che con la
Costituzione americana nascesse la federazione americana.
Oggi, particolarmente negli Stati Uniti, qualsiasi discussione
concreta dei valori tradizionali, delle norme interiorizzate,
della democrazia diretta e dell’autogoverno che non tenga conto
dell’analisi di Lasch dell’importanza della democrazia e della
cittadinanza partecipative e dell’interazione faccia a faccia,
non solo non offrirebbe un quadro completo di come queste idee
si sono sviluppate storicamente in particolari contesti
socio-economici, ma non sarebbe in grado di prendere in esame
tutte le possibili alternative all’attuale sistema
socio-politico, denso di contraddizioni. Cosa ancora più
importante, dovrà enfatizzare il localismo e guardare oltre
quella mastodontica impresa denominata Stato-nazione, che è
ormai priva di senso, essendo troppo grande per affrontare i
piccoli problemi e troppo piccola per quelli grandi.
Sfortunatamente, questi compiti vengono di solito lasciati agli
intellettuali della Nuova classe che, non sorprendentemente, li
rendono inevitabilmente parte della loro propria agenda e, alla
fine, devitalizzano qualsiasi sentimento populista possa esservi
dietro. Nulla esemplifica meglio questo ragionamento del
miserabile destino del recente tentativo italiano di ripensare
ed istituzionalizzare nuove strutture federali.
5 dicembre 2003
(traduzione di Angelo Mellone. Da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)
|