Un calzolaio salverà l’America
di Angelo Mellone
“Prevedo che il ventunesimo secolo sfaterà la nozione che ha del
futuro il ventesimo secolo come di una cosa eccitante, nuova,
inaspettata o radiosa: il Progresso, insomma”. Questa frase di
Tom Wolfe, newyorkese fine conoscitore dei tic “rococò” delle
classi alte dell’East Coast, sarebbe un ottimo epitaffio posto
sulla lapide commemorativa delle fatiche intellettuali di
Christopher Lasch. Così come, per completare il quadro, nulla di
meglio c’è delle espressioni che Arthur Miller, rivisitando
l’ibseniano “nemico del popolo”, mette in bocca al suo
idealistico attore protagonista quando esclama che “diventare
uomini – diremmo noi, cittadini - è un onore che bisogna
meritarsi”, così come anche la democrazia è frutto del senso
quotidiano dell’onore speso per difenderla. Prese singolarmente
queste due citazioni, potremmo vestire tranquillamente
Christopher Lasch (1932-1994) con i panni dell’intellettuale
financo reazionario, dell’americano innamorato del proprio
centro di gravità permanente e impegnato a porre argini contro
la “decadenza” della sua civiltà. Un conservatore dalla mascella
larga, anche se oberato di preoccupazioni di taglio sociale. Ma
forse sbaglieremmo di grosso. Come ha affermato a più riprese
nei suoi ultimi anni di vita, Lasch è cresciuto “nella
tradizione del progressismo del Middle West”, per cui tentare di
attribuire facili patenti di appartenenza all’autore di
capisaldi della teoria politica come La cultura del narcisismo,
Rifugio in un mondo senza cuore, Il Paradiso in terra o La
ribellione delle élite è, fortunatamente, una battaglia persa.
Conservatore o democratico? Intellettuale radicale o esponente
involontario della resipiscenza dei sentimenti reazionari dell’
“America profonda”? Cantore delle virtù della democrazia e,
soprattutto, delle antiche virtù civiche che hanno fatto
l’America dei fondatori o sostenitore di un populismo nemico del
moderno sistema dei diritti? Risposta certa non c’è. Come tutte
le figure intellettuali intriganti del secolo scorso, anche
Lasch non si presta facilmente al passaggio sotto le forche
caudine della catalogazione ideologica. Anzi, scorrendo la sua
bibilografia, e il denso archivio delle sue opere, centinaia e
centinaia di scritti, conservato presso l’Università di
Rochester, nello Stato di New York, dove trascorse i suoi anni
di insegnamento fino alla morte avvenuta nel 1994, balza subito
agli occhi l’immagine di un pensatore che ha sistematicamente
evitato di essere assorbito testa e piedi nelle correnti di
pensiero che hanno fatto la moda intellettuale, anche in
America. Sovversivo, perché mai ha smarrito l’impostazione
radicale e l’interrogativo scandaloso nella sua prosa, e
aristocratico, con la sua memoria capace di tessere i fili di
una storia americana inzuppata nei sentimenti dell’onore e,
aggiungerebbe Charles Taylor, dell’autenticità. Un pensatore che
affascina perché spiazza. Anche nel nostro Paese, tanto per
citare un attimo il dibattito culturale italiano, basta pensare
che, se riviste così lontane tra loro nei primi anni Novanta
come Micromega o Futuro presente non hanno avuto difficoltà a
collocarlo tra i “fuori squadra” della sinistra, solo poco tempo
più tardi Stephen Holmes, nella prosa acida della sua Anatomia
dell’antiliberalismo, non esiterà, mettendolo in bella mostra in
un album di famiglia in cui non si sarebbe certo ritrovato, a
tacciarlo di ipocrisie conservatrici mascherate sotto l’ombrello
protettivo della gauche, tanto che, come scrive Russell Jacoby,
“per molti a sinistra [...] Lasch è divenuto un
neo-conservatore, di cui non bisognava parlare se non per
condannarlo”. E lui stesso affermerà, poco tempo prima di
morire, di desiderare “un movimento che fosse per un verso
egualitario e democratico sul piano economico, e per un altro
verso conservatore sul piano dei valori”.
Refrattario alle destre e alle sinistre istituzionalizzate,
all’impegno partitico e ai cenacoli autoreferenziali delle
università, probabilmente si sarebbe infastidito anche per
questa discussione sulla sua collocazione tra i soprammobili
delle gallerie dei conservatori o dei nemici di sinistra dei
liberal. E che questo figlio di un quotato giornalista premio
Pulitzer nel 1966, Robert, a sua volta abile polemista su tante
riviste americane, in grado di convivere dialetticamente, sempre
sull’orlo della rottura, con le infatuazioni progressiste della
gioventù e costruire “una delle avventure intellettuali più
appassionanti di questi ultimi decenni”, non abbia rappresentato
una cometa nel firmamento della storia delle idee, lo dimostra
la straordinaria – anche se confusa – attualità delle sue opere,
a partire da quelle dedicate al radicalismo americano negli anni
Sessanta, tra cui The New Radicalism in America (1965) o The
Agony of the American Left (1970), per arrivare a La ribellione
delle élite, il lavoro postumo laschiano che rappresenta una
delle colonne portanti della riflessione sulla democrazia negli
anni Novanta. Con un elemento comune, come ci ricorda Norbert
Kanchelkis: “L’approccio di Lasch si distingue [...] per la sua
radicalità”. Radicalità a livello della riflessione, ma anche
radicalità a livello nell’invocare per la democrazia americana
un salto di livello che non sia salto nel vuoto, ma attinga alle
inesauribili fonti della memoria storica di un popolo
perennemente in bilico tra innovazione e conservazione.
Provare a presentare l’intera opera di Lasch in poche pagine è
un’impresa improba, altri lo hanno fatto con alterne fortune.
Invece, il tentativo che può essere fatto è quello di cercare di
attualizzare e confrontare con l’estrema vorticosità del
presente alcune delle sue intuizioni principali. Pur consapevoli
che si parla di un autore che, ad ogni modo, in Italia ha
ricevuto grande eco e grandi attenzioni, seppur con una certa
“selettività”, se non proprio distorsione, delle chiavi di
lettura. Il punto da cui partire, e che porterebbe a facili
analogie con tante biografie sparse anche nel nostro Paese, è
che l’intera produzione di questo autore è segnata dalla
delusione nei confronti di due delle principali correnti
intellettuali del Novecento, il radicalismo progressista e la
psicanalisi, nelle loro varie declinazioni storiche, soprattutto
rispetto alla promessa di creare forme più “reali” di democrazia
e criteri più profondi di indagine dell’animo umano. Questo
disincanto produce effetti di rilievo sulla commistione tra
interessi di studio e militanza politica del primo Lasch: lo
allontana ben presto dalle infatuazioni gramsciane, e lo spinge
a guardare con lucidità l’intima incoerenza dei processi che il
Sessantotto americano stava innescando dentro e fuori le
università, nel sistema educativo statunitense nel suo
complesso, ma non cancellerà mai fino in fondo una venatura
idealistica che spinge Lasch a cercare, pur con una certa
vaghezza, le strade possibili di uscita per la crisi della
persona e della comunità. Così, dall’interesse per il recinto
individuale a quello per il popolo, cambieranno gli oggetti, nel
corso degli anni, della sua ansia terapeutica. Se Lasch si
occupa delle questioni legate alla personalità ne La cultura del
narcisismo e L’io minimo, anche in relazione al rapporto tra
“individuo democratico” e “individuo narcisistico”, e in Rifugio
in un mondo senza cuore prova a fare i conti con il disfacimento
di un’istituzione familiare frantumata da Stato e mercato, la
democrazia è la filigrana attraverso cui leggere le sue opere
più recenti, nel loro complesso un grande atto d’accusa nei
confronti delle classi dirigenti americane contemporanee,
ritenute responsabili del tradimento degli ideali dei padri
fondatori e dello scadimento della società americana a bazar
multiculturale privo di veri spazi pubblici e di idee pubbliche,
scintille capaci di attizzare la politicità della passione
civica e rinfocolare lo spirito comunitario.
E’ la democrazia in crisi a salire sul banco degli imputati,
insieme a chi è responsabile del suo governo. E l’interrogativo
è pregno di radicalità. Lasch non nasconde che “la democrazia
non è un fine in sé. Essa va giudicata in base ai suoi successi,
alla sua capacità di produrre beni superiori, opere d’arte e di
cultura superiori, un tipo superiore di carattere”. Scendiamo
nel campo della strumentalità di una forma di regolazione dei
rapporti politici che in partenza, se non viene farcita di
altro, non è né più né meno desiderabile di altri regimi
politici, ma va giudicata alla prova dei fatti. Qui scatta la
molla del disincanto e si palesa l’irriverenza dell’analisi.
Lasch si spinge a chiedersi, certo di suscitare non poco
scandalo, se “la democrazia merita di sopravvivere?” Un simile
interrogativo, proprio nei mesi in cui si discute addirittura
della possibilità di esportarla manu militari, almeno nella
versione liberale di un sistema di regole, dividendo il campo
delle opinioni tra “imperialisti culturali” e “relativisti”, può
sembrare fuori tempo massimo, ma invece fa esplodere un ordigno
in grado di sciogliere i grumi che hanno intorpidito capacità
degli occidentali di pensare al bene comune e alla “migliore”
forma di governo non come un qualcosa di popperianamente
acquisito nella veste ambigua del “migliore dei mondi
possibili”, ma come un traguardo da tagliare con fatica giorno
dopo giorno, senza mai la sicurezza di essere arrivati alla
meta.
A cosa serve la democrazia, dunque? Ancora: serve? Lasch non fa
mistero di iscriversi al partito fantasma dei custodi della
tradizione “repubblicana”, che nulla o poco hanno a che fare con
l’elefante del Grand Old Party e che invece possiedono un
nutrito album di famiglia che lo stesso autore non esita a
descrivere nelle sue lunghe catene ereditarie, definendo
“un’esile linea di continuità intellettuale” che parte dalla
polis greca, passa per Roma, riappare nel Rinascimento per
arrivare a James Harrington in Inghilterra, Montesquieu e
Rosseau in Francia, fino a sbarcare oltreoceano con i padri
fondatori della Repubblica americana. E residui di
repubblicanesimo, seppure sottoposti a decisi processi di
revisione, continuano a sopravvivere anche oggi.
Quanta parte le idee repubblicane di “onore” e di virtù civica
abbiano spazio nell’analisi di Lasch lo dimostra la sua
concezione della cittadinanza. Sulla scia di due dei pensatori
più interessanti della seconda metà del Novecento, l’Hannah
Arendt di Vita activa e l’Alasdair MacIntyre di Dopo la virtù,
si sostiene che è la condizione di cittadino a creare
l’uguaglianza (politica), non il contrario, che l’uguaglianza
politica assimila individui altrimenti profondamente diversi e
li addestra alle virtù civiche, alla capacità di assumere
decisioni e accettarne la responsabilità, di agire nello spazio
pubblico e condividere le responsabilità politiche ed economiche
della comunità, cercare l’affermazione di sé anche spingendosi
sino ai confini mobili del sacrificio. Così non sorprende
l’affermazione per cui “la diffusione universale della
condizione di cittadino implica davvero un mondo di eroi. È la
democrazia che ha bisogno di un mondo del genere, se la
cittadinanza non deve ridursi a mera formalità”.
Il middle man americano: mercato e foro
pubblico
Come si vede, ci troviamo di fronte ad un’idea di cittadinanza
impostata su ambiziose coordinate assiologiche, distante in
termini etici e antropologici tanto dalla concezione della
democrazia procedurale come sistema di regole per controllare
gli eccessi di potere dei governanti e per costruire una gabbia
protettiva per le minoranze politiche, quanto dalla retorica
liberal della “cittadinanza democratica”, ipostatizzata nello
Stato sociale del Novecento, come insieme di diritti che
rappresentano altrettante rivendicazioni e allontanano
progressivamente l’uomo dalla percezione della propria
responsabilità sociale di persona. Il cittadino di Lasch, in
questo davvero figlio dell’originarietà e originalità americana,
è oplita e uomo di lettere, nobile perché cosciente dei doveri
nei confronti del proprio popolo, radicato nelle comunità
contadine o nella vita di quartiere, responsabile nei confronti
della famiglia e del vicinato, “colato” in un contesto da cui
trae le armi e le fonti della propria legittimazione in quanto
cittadino, eroe, protagonista del proprio tempo, soggetto e non
oggetto dei processi sociali. Nei capitoli più politici delle
opere di Lasch emerge, a poco a poco, la figura di un cittadino
che sa stare nel mercato, la piazza degli scambi, ma soprattutto
nel foro pubblico, che forte del suo carico di virtù vissute
virilmente sa bene che “una vita dedita solo alla ricerca della
ricchezza e del benessere privato viene condannata non in quanto
egoistica, ma perché non fornisce all’ambizione un campo
sufficiente in cui eccellere”.
Sono frasi come queste che allontanano Lasch da un’altra
tradizione che in questi anni si è fatta strada negli Stati
Uniti, quel filone communitarian che, ponendo la centralità del
dato comunitario in modo ambiguo, critica il mercato ma si
risolve in una deriva socialdemocratica che scarica sul
collettivo il carico di responsabilità che, invece, il cittadino
virtuoso dovrebbe portare sulle proprie spalle; il comunitarismo
così inteso, poco dista dal principale bersaglio polemico di
Lasch, la sinistra liberal e il suo statalismo che ha inaridito
i pilastri naturali della convivenza sociale, in primo luogo la
famiglia, per sostituirli con la vuota competenza delle
tecnostrutture. E’in questi “tecnici”, figli della contemporanea
espansione indefinita del mercato come motore mobile di tutte le
cose e dello Stato come paracadute burocratico per
l’avvizzimento delle solidarietà spontanee, di un cosmopolitismo
nemico delle radici e del potere sproporzionato in mano ai mezzi
di informazione, che Lasch, in questo ricongiungendosi solo in
parte con la teoria critica della società, ritrova i
protagonisti della Nuova Classe: giornalisti, grandi avvocati,
finanzieri di Wall street, critici, artisti, intellettuali dei
campus, femministe, militanti salottieri dei diritti civili,
progressisti di ogni razza, colore e credo politico, a proprio
agio in qualsiasi angolo del globo purché in possesso dei propri
strumenti di ben-essere e ben-avere; élite capovolte, le
potremmo definire, che per trovare la via esotica dello
sradicamento hanno perso prima di ogni altra cosa qualsiasi
percezione del dovere nei confronti delle proprie comunità.
Cittadini dimezzati.
Queste suggestioni a metà strada tra Sparta e Atene che
provengono dalle pagine di Lasch, hanno significativamente
trovato eco in Italia nel richiamo alla “democrazia eroica” di
uno Stefano Zecchi, filosofo impegnato a ridonare un senso
estetico ad una democrazia ormai svuotata della propria
dimensione verticale. L’unica verticalità possibile oggi si
riduce difatti, per Lasch, a un ascensore artificiale costruito
per garantire l’intercomunicabilità tra le classi sociali, a cui
diamo il nome di “mobilità”. Su e giù tra i sobborghi, dove
vivono in loculi incomunicanti vecchie e nuove povertà,
analfabetismo sociale e borghesia proletarizzata, e i centri
dell’industria culturale e del potere politico. Non per
seppellire le classi o per riattivare dispersi spiriti
comunitari, ma semplicemente per garantire che vengano nutriti i
quattro totem delle credenze democratiche contemporanee: il
progressismo (la filosofia di fondo), la mobilità sociale (il
meccanismo), la meritocrazia (l’alibi), e la Nuova Classe (il
prodotto autoreferenziale). Lasch su questo punto è chiaro: “La
meritocrazia è una parodia della democrazia” poiché, grazie al
marchingegno della mobilità sociale, rafforza e stabilizza
l’autorità di élite sradicate e irresponsabili e drena “i
talenti delle classi inferiori, privandole di una leadership
capace”; infatti “un alto livello di mobilità non è affatto
contraddittorio con un sistema di stratificazione che concentri
potere e privilegi in un’élite dominante. Anzi, la circolazione
delle élite rafforza il principio gerarchico” e conferma l’idea
di Laurence Goodwyn per cui “la politica moderna ha luogo nella
tensione tra l’idea democratica e una realtà di tipo élitario”.
Quindi, così come non va fatta “confusione della democrazia con
la libera circolazione dei beni di consumo”, non bisogna farsi
irretire dalle magnifiche sorti e progressive della mobilità
sociale, che mantiene in vita quel sistema di sperequazioni che
svilisce la cittadinanza, agisce contro l’uguaglianza e le
possibilità di riscatto economico delle masse, e perpetua le
differenze di classe, politiche, ma anche di razza, come
denuncia Lasch riguardo al caso storico delle battaglie sul
busing. Il dilemma investe “qual è la scelta più importante che
una società democratica deve compiere: se cercare di innalzare
il livello generale di competenza, di energia e di impegno – di
“virtù”, nel linguaggio della tradizione politica più antica – o
limitarsi a promuovere un più ampio reclutamento delle élite”.
I frutti migliori della “Rivoluzione
americana”
Nel momento in cui Lasch invoca una società senza classi ad alta
percentuale di impegno civico, in cui i soggetti più agiati
siano al servizio della comunità e non viceversa, in cui la
cultura sia fenomeno diffuso; nel momento in cui disegna i
tratti di un sistema sociale in cui il mercato sia delimitato da
precisi confini e popolato di piccoli proprietari e lo Stato non
entri dentro le case, chiede, senza dirlo chiaramente, il
ritorno della politica nella sua dimensione locale e vitale,
come “somma delle azioni pubbliche degli uomini liberi”, la
netta distinzione tra spazio pubblico e ipertrofia delle
competenze dello Stato, la riscoperta dei frutti più saporiti
della Rivoluzione americana, il repubblicanesimo e l’etica della
proprietà diffusa. Perché il mercato lasciato a se stesso
produce sradicamento e omologazione, accumulazioni di fortune ed
economie finanziarizzate, il welfare state difeso dai liberal
comporta la crescita del germe del paternalismo e altrettanta
tensione all’indifferenziazione sociale, con un’azione a
tenaglia che, scrive acutamente Lasch, stabilizza il dominio
della Nuova Classe e moltiplica all’infinito i problemi di
insostenibilità, in primo luogo in termini di sicurezza: “I
nuovi metodi di controllo sociale uniti all’ascesa del movimento
progressista hanno stabilizzato il capitalismo senza risolvere
neppure uno dei suoi problemi fondamentali [...] Il nuovo
paternalismo ha impedito che le tensioni sociali assumessero una
connotazione politica, ma non ne ha rimosso le cause [...] I
costi di gestione del sistema, per giunta, sono diventati più
alti”. E, qui, appare superfluo citare le statistiche
sull’innalzamento dei costi per mantenere in vita apparati di
controllo e repressione dei fenomeni di criminalità e devianza
sociale, o descrivere, come il Mike Davis di Città di quarzo, i
processi di “fortificazione” dei quartieri benestanti.
E le masse, con la loro presunta emancipazione? La massa –
incontriamo di nuovo la teoria critica della società, le
reminiscenze di Ortega y Gasset, ma anche le suggestioni di un
certo pensiero “di destra” – viene osservata da Lasch con un
misto di rabbia e diffidenza. Le processioni del sabato
pomeriggio negli shopping malls, l’ignoranza diffusa nelle
scuole pubbliche, il disprezzo verso il passato sono i sintomi
di una pericolosa omologazione, e di una caduta verso il basso
della maggioranza che scava fossati ancora più ampi tra la base
e il vertice della struttura sociale. Per questa ragione Lasch
prende di petto sociologi come Herbert Gans o pensatori come il
Walter Benjamin de L’opera d’arte nell’epoca della
riproducibilità tecnica, che ritengono la cosiddetta “cultura di
massa” l’architrave dell’affrancamento delle classi inferiori,
quando invece si tramuta in un semplice nuovo “strumento di
controllo sociale”, accanto alla sempre maggiore pervasività dei
mezzi di comunicazione (appunto) di massa.
E’ certamente un’idea diversa di popolo – ma anche di nazione –
che Lasch ha in mente quando descrive il suo modello di
cittadinanza e di sistema economico a proprietà diffusa, un’idea
che frantuma la massa in individui autocoscienti e rifiuta le
sue forme di espressione culturale perché triviali ed
omologanti. Il senso dell’ormai celeberrima difesa del
populismo, nella sua irripetibile variante americana, agraria,
dei piccoli centri cittadini e “delle praterie”, il populismo
“ultimo baluardo dei produttori” – come scrive ne Il paradiso in
terra – sta tutta qui: immaginare una democrazia fondata su
cittadini consapevoli e autosufficienti, che non dipendono né
dalle tecnoburocrazie statali né dalle bizze cieche dei
meccanismi concorrenziali per essere uomini virtuosi,
responsabili padri di famiglia e buoni cives: “I populisti
ereditavano da tutta la tradizione politica precedente, liberale
e repubblicana, il principio per cui il diritto di proprietà, e
l’indipendenza personale che esso assicura, sono due
precondizioni assolutamente essenziali dell’esercizio delle
funzioni e dei doveri del cittadino”.
La storia del populismo americano, degli agricoltori, degli
uomini di bottega, dei piccoli commercianti, del volto buono dei
self made man a cui Lasch si rifà, così distante da quella dei
populismi europei eppure soggetta anch’essa a gravi distorsioni
interpretative da parte di storici e politologi – da Richard
Hofstadter al libro Populism curato da Ghita Ionesco ed Ernst
Gellner –, è la storia di un movimento non tanto intellettuale
quanto sociale e politico, che rappresenta, nel corso di tutta
la storia americana, la rivolta al tempo stesso contro i guasti
e le interferenze del Big Government e contro gli eccessi
dell’economia di mercato, lo spirito della frontiera e la difesa
del radicamento locale, urbano, territoriale. Un movimento
trasversale di cittadini e produttori in grado di interpretare
il volto localistico e patriottico dell’America, senza scivolare
in alcuna tentazione imperialistica, animato soprattutto dalla
strenua convinzione che la formula vincente della storia
americana era data dal binomio diffusione della
proprietà-diffusione delle forme di democrazia diretta.
Esattamente quello che oggi manca negli Stati Uniti. E’ su
queste basi che si può leggere l’attualità e la bellicosità del
pensiero di Lasch, intrecciandolo con ciò che accade negli Stati
Uniti ma anche nel continente europeo.
Lasch traccia le coordinate di quella che, anche se l’autore non
ha mai ambito a definirla così, ha tutti i caratteri di una
“terza via” tra le due grandi formule vincenti del Novecento, il
liberismo fondato sulla sovranità impolitica del mercato e lo
statalismo di derivazione socialdemocratica; nel contesto
americano, anche dell’aspirazione, o della speranza, di aprire
il terreno alla nascita di un terzo partito incuneato tra
Democratici e Repubblicani, visto che questi liberal e questi
conservatori non rappresentano tutta la complessità sociale e
politica, e nessuno ha intenzione di mettere in questione i miti
fondanti delle società contemporanee. Le posizioni di Lasch, da
questo punto di vista, sono davvero eterodosse: la sua critica
degli eccessi del mercatismo e dello statalismo lo possono
avvicinare tanto agli ambienti “non utilitaristi” vicini al
francese Mauss (Movimento antiutilitarista nelle scienze
sociali) dei vari Serge Latouche ed Alain Caillé, quanto ai
richiami verso la sussidiarietà di quel vasto arcipelago
cattolico (vicino, ma non solo, a Comunione e liberazione) che
chiede non “più mercato, meno Stato” ma “più società, meno
Stato”, o – in Italia – a quel filone “sociale” e partecipativo
del postfascismo che cerca di superare i rigurgiti statocentrici
con iniezioni di suddidiarietà e di partecipazione popolare, o
ancora al grande mondo del volontariato, della cooperazione e
dell’auto-organizzazione sociale. Ma ancora tante intuizioni del
suo “fervore morale” (Jacoby) sono materiale di discussione per
il presente.
Contro le degenerazioni dell’universalismo Lasch sostiene
candidamente che “non si può pretendere che gli uomini nutrano
lealtà, dedizione e solidarietà nei confronti dell’intera razza
umana”; i cerchi concentrici delle nostre appartenenze, non la
mera identità ma la pura autenticità, sono quelli che muovono i
nostri sentimenti di fedeltà. Ogni morale astratta corre il
rischio di produrre guasti a ripetizione, e così è accaduto
negli Stati Uniti, con l’opinione pubblica ossessionata dai
richiami del “politicamente corretto” e delle “azioni
affermative”, imperativi categorici che hanno creato nuove
disuguaglianze e nuove forme di discriminazione. Lasch, che si è
sempre considerato un nemico feroce di queste pratiche, avrebbe
forse sottoscritto la requisitoria contro i guasti del
multiculturalismo male inteso che costituisce la scena più
memorabile del bellissimo film di Spike Lee La venticinquesima
ora, o avrebbe probabilmente guardato con piacere l’iniziativa
dei giovani “Hipublicans” di usare l’effigie di Martin Luther
King, sulla copertina del periodico Counterweight, come icona
della battaglia per abolire le quote a tutela delle minoranze
nelle università. Del resto, è proprio King il riferimento
costante a cui Lasch ricorre nei suoi scritti per descrivere la
parabola discendente del movimento per i diritti civili, passato
dalla rivendicazione di maggiori spazi di responsabilità sociale
per le minoranze al battere cassa verso il welfare state alla
ricerca di sussidi e redditi garantiti. Lasch, ancora, sarebbe
stato tra coloro che, come mostrano i sondaggi, considera la
maggior parte dei poveri “pigri” e, dunque, causa del proprio
male, ma al tempo stesso non avremmo dubbi sul trovarlo
schierato accanto a William Gates, padre del più famoso e ricco
Bill, nel difendere l’Estate Tax, la tassa sulle eredità
miliardarie perorata da alcuni sostenitori delle teorie della
Supply Side Economics. Sarebbe poi curioso sapere cosa Lasch
avrebbe scritto sulla seconda guerra del Golfo, dopo che la
prima, come risulta dallo scritto che pubblichiamo in questo
“speciale”, non aveva riscosso in lui grandi simpatie; sarebbe
stato anche curioso sapere cosa Lasch avrebbe pensato di un
presidente degli Usa così religioso da aprire le riunioni del
Consiglio di sicurezza Bibbia alla mano, di un Congresso in
grado di votare la mozione per un giorno di preghiera, mentre la
sua amata middle class si sgretola sotto i colpi di un
multiculturalismo che consegna la California in mano alle ex
“minoranze oppresse”.
I motivi per tenere ben presente Lasch, ed evitare che le sue
opere si impolverino dimenticate sugli scaffali, ci sono tutti,
sia per i suoi ammiratori che per i nemici. L’importante è
provare a non interpretarlo a pezzi, ma nel complesso di un
autore che porta su di sé le ferite del Novecento. Un middle man
americano, cresciuto all’ombra delle teorie neo-marxiste e
liberal statunitensi, che ha visto in faccia i guasti e le
distorsioni prodotte dalle accelerazioni del progresso dal
predominio acefalo della tecnica. Ha scelto, però, di non
rinchiudersi nei recinti “privati”, forieri di paure e di
aggressività, che danno linfa a tanto pensiero politico
contemporaneo, ma ha sfidato sia il progressismo che il
conservatorismo su un terreno ostico, quello dei princìpi – la
democrazia, il concetto di cittadinanza che la sorregge, il
progresso – che troppo spesso vengono dati per acquisiti quando
invece andrebbero rinnovati, ravvivati, ridiscussi per evitare
la loro cancrena. Lasch, con tutti gli affascinanti limiti,
strappi e salti logici che può avere la sua impostazione (quella
di uno storico delle idee e non di un ingegnere sociale ammalato
di illuminismo), ha trovato prima nelle cellule “naturali” della
società e poi nel suo populismo la variabile chiave per fornire
risposte di senso ad una crisi della contemporaneità che, prima
di essere crisi di istituzioni, è crisi dei propri miti
fondanti. Ma, se aveva ragione Hannah Arendt a sostenere che la
politica è come una forza sotterranea che ogni tanto esplode e
arriva in superficie, allo stesso modo la Repubblica fondata sul
baudelairiano eroismo quotidiano ri-sognata da Lasch segna
sempre un orizzonte possibile. Anche in epoca globale, ad opera,
chissà, di un... calzolaio di Omaha.
5 dicembre 2003
(da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)
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