Un calzolaio salverà l’America
di Angelo Mellone

“Prevedo che il ventunesimo secolo sfaterà la nozione che ha del futuro il ventesimo secolo come di una cosa eccitante, nuova, inaspettata o radiosa: il Progresso, insomma”. Questa frase di Tom Wolfe, newyorkese fine conoscitore dei tic “rococò” delle classi alte dell’East Coast, sarebbe un ottimo epitaffio posto sulla lapide commemorativa delle fatiche intellettuali di Christopher Lasch. Così come, per completare il quadro, nulla di meglio c’è delle espressioni che Arthur Miller, rivisitando l’ibseniano “nemico del popolo”, mette in bocca al suo idealistico attore protagonista quando esclama che “diventare uomini – diremmo noi, cittadini - è un onore che bisogna meritarsi”, così come anche la democrazia è frutto del senso quotidiano dell’onore speso per difenderla. Prese singolarmente queste due citazioni, potremmo vestire tranquillamente Christopher Lasch (1932-1994) con i panni dell’intellettuale financo reazionario, dell’americano innamorato del proprio centro di gravità permanente e impegnato a porre argini contro la “decadenza” della sua civiltà. Un conservatore dalla mascella larga, anche se oberato di preoccupazioni di taglio sociale. Ma forse sbaglieremmo di grosso. Come ha affermato a più riprese nei suoi ultimi anni di vita, Lasch è cresciuto “nella tradizione del progressismo del Middle West”, per cui tentare di attribuire facili patenti di appartenenza all’autore di capisaldi della teoria politica come La cultura del narcisismo, Rifugio in un mondo senza cuore, Il Paradiso in terra o La ribellione delle élite è, fortunatamente, una battaglia persa.

Conservatore o democratico? Intellettuale radicale o esponente involontario della resipiscenza dei sentimenti reazionari dell’ “America profonda”? Cantore delle virtù della democrazia e, soprattutto, delle antiche virtù civiche che hanno fatto l’America dei fondatori o sostenitore di un populismo nemico del moderno sistema dei diritti? Risposta certa non c’è. Come tutte le figure intellettuali intriganti del secolo scorso, anche Lasch non si presta facilmente al passaggio sotto le forche caudine della catalogazione ideologica. Anzi, scorrendo la sua bibilografia, e il denso archivio delle sue opere, centinaia e centinaia di scritti, conservato presso l’Università di Rochester, nello Stato di New York, dove trascorse i suoi anni di insegnamento fino alla morte avvenuta nel 1994, balza subito agli occhi l’immagine di un pensatore che ha sistematicamente evitato di essere assorbito testa e piedi nelle correnti di pensiero che hanno fatto la moda intellettuale, anche in America. Sovversivo, perché mai ha smarrito l’impostazione radicale e l’interrogativo scandaloso nella sua prosa, e aristocratico, con la sua memoria capace di tessere i fili di una storia americana inzuppata nei sentimenti dell’onore e, aggiungerebbe Charles Taylor, dell’autenticità. Un pensatore che affascina perché spiazza. Anche nel nostro Paese, tanto per citare un attimo il dibattito culturale italiano, basta pensare che, se riviste così lontane tra loro nei primi anni Novanta come Micromega o Futuro presente non hanno avuto difficoltà a collocarlo tra i “fuori squadra” della sinistra, solo poco tempo più tardi Stephen Holmes, nella prosa acida della sua Anatomia dell’antiliberalismo, non esiterà, mettendolo in bella mostra in un album di famiglia in cui non si sarebbe certo ritrovato, a tacciarlo di ipocrisie conservatrici mascherate sotto l’ombrello protettivo della gauche, tanto che, come scrive Russell Jacoby, “per molti a sinistra [...] Lasch è divenuto un neo-conservatore, di cui non bisognava parlare se non per condannarlo”. E lui stesso affermerà, poco tempo prima di morire, di desiderare “un movimento che fosse per un verso egualitario e democratico sul piano economico, e per un altro verso conservatore sul piano dei valori”.

Refrattario alle destre e alle sinistre istituzionalizzate, all’impegno partitico e ai cenacoli autoreferenziali delle università, probabilmente si sarebbe infastidito anche per questa discussione sulla sua collocazione tra i soprammobili delle gallerie dei conservatori o dei nemici di sinistra dei liberal. E che questo figlio di un quotato giornalista premio Pulitzer nel 1966, Robert, a sua volta abile polemista su tante riviste americane, in grado di convivere dialetticamente, sempre sull’orlo della rottura, con le infatuazioni progressiste della gioventù e costruire “una delle avventure intellettuali più appassionanti di questi ultimi decenni”, non abbia rappresentato una cometa nel firmamento della storia delle idee, lo dimostra la straordinaria – anche se confusa – attualità delle sue opere, a partire da quelle dedicate al radicalismo americano negli anni Sessanta, tra cui The New Radicalism in America (1965) o The Agony of the American Left (1970), per arrivare a La ribellione delle élite, il lavoro postumo laschiano che rappresenta una delle colonne portanti della riflessione sulla democrazia negli anni Novanta. Con un elemento comune, come ci ricorda Norbert Kanchelkis: “L’approccio di Lasch si distingue [...] per la sua radicalità”. Radicalità a livello della riflessione, ma anche radicalità a livello nell’invocare per la democrazia americana un salto di livello che non sia salto nel vuoto, ma attinga alle inesauribili fonti della memoria storica di un popolo perennemente in bilico tra innovazione e conservazione.

Provare a presentare l’intera opera di Lasch in poche pagine è un’impresa improba, altri lo hanno fatto con alterne fortune. Invece, il tentativo che può essere fatto è quello di cercare di attualizzare e confrontare con l’estrema vorticosità del presente alcune delle sue intuizioni principali. Pur consapevoli che si parla di un autore che, ad ogni modo, in Italia ha ricevuto grande eco e grandi attenzioni, seppur con una certa “selettività”, se non proprio distorsione, delle chiavi di lettura. Il punto da cui partire, e che porterebbe a facili analogie con tante biografie sparse anche nel nostro Paese, è che l’intera produzione di questo autore è segnata dalla delusione nei confronti di due delle principali correnti intellettuali del Novecento, il radicalismo progressista e la psicanalisi, nelle loro varie declinazioni storiche, soprattutto rispetto alla promessa di creare forme più “reali” di democrazia e criteri più profondi di indagine dell’animo umano. Questo disincanto produce effetti di rilievo sulla commistione tra interessi di studio e militanza politica del primo Lasch: lo allontana ben presto dalle infatuazioni gramsciane, e lo spinge a guardare con lucidità l’intima incoerenza dei processi che il Sessantotto americano stava innescando dentro e fuori le università, nel sistema educativo statunitense nel suo complesso, ma non cancellerà mai fino in fondo una venatura idealistica che spinge Lasch a cercare, pur con una certa vaghezza, le strade possibili di uscita per la crisi della persona e della comunità. Così, dall’interesse per il recinto individuale a quello per il popolo, cambieranno gli oggetti, nel corso degli anni, della sua ansia terapeutica. Se Lasch si occupa delle questioni legate alla personalità ne La cultura del narcisismo e L’io minimo, anche in relazione al rapporto tra “individuo democratico” e “individuo narcisistico”, e in Rifugio in un mondo senza cuore prova a fare i conti con il disfacimento di un’istituzione familiare frantumata da Stato e mercato, la democrazia è la filigrana attraverso cui leggere le sue opere più recenti, nel loro complesso un grande atto d’accusa nei confronti delle classi dirigenti americane contemporanee, ritenute responsabili del tradimento degli ideali dei padri fondatori e dello scadimento della società americana a bazar multiculturale privo di veri spazi pubblici e di idee pubbliche, scintille capaci di attizzare la politicità della passione civica e rinfocolare lo spirito comunitario.

E’ la democrazia in crisi a salire sul banco degli imputati, insieme a chi è responsabile del suo governo. E l’interrogativo è pregno di radicalità. Lasch non nasconde che “la democrazia non è un fine in sé. Essa va giudicata in base ai suoi successi, alla sua capacità di produrre beni superiori, opere d’arte e di cultura superiori, un tipo superiore di carattere”. Scendiamo nel campo della strumentalità di una forma di regolazione dei rapporti politici che in partenza, se non viene farcita di altro, non è né più né meno desiderabile di altri regimi politici, ma va giudicata alla prova dei fatti. Qui scatta la molla del disincanto e si palesa l’irriverenza dell’analisi. Lasch si spinge a chiedersi, certo di suscitare non poco scandalo, se “la democrazia merita di sopravvivere?” Un simile interrogativo, proprio nei mesi in cui si discute addirittura della possibilità di esportarla manu militari, almeno nella versione liberale di un sistema di regole, dividendo il campo delle opinioni tra “imperialisti culturali” e “relativisti”, può sembrare fuori tempo massimo, ma invece fa esplodere un ordigno in grado di sciogliere i grumi che hanno intorpidito capacità degli occidentali di pensare al bene comune e alla “migliore” forma di governo non come un qualcosa di popperianamente acquisito nella veste ambigua del “migliore dei mondi possibili”, ma come un traguardo da tagliare con fatica giorno dopo giorno, senza mai la sicurezza di essere arrivati alla meta.

A cosa serve la democrazia, dunque? Ancora: serve? Lasch non fa mistero di iscriversi al partito fantasma dei custodi della tradizione “repubblicana”, che nulla o poco hanno a che fare con l’elefante del Grand Old Party e che invece possiedono un nutrito album di famiglia che lo stesso autore non esita a descrivere nelle sue lunghe catene ereditarie, definendo “un’esile linea di continuità intellettuale” che parte dalla polis greca, passa per Roma, riappare nel Rinascimento per arrivare a James Harrington in Inghilterra, Montesquieu e Rosseau in Francia, fino a sbarcare oltreoceano con i padri fondatori della Repubblica americana. E residui di repubblicanesimo, seppure sottoposti a decisi processi di revisione, continuano a sopravvivere anche oggi.

Quanta parte le idee repubblicane di “onore” e di virtù civica abbiano spazio nell’analisi di Lasch lo dimostra la sua concezione della cittadinanza. Sulla scia di due dei pensatori più interessanti della seconda metà del Novecento, l’Hannah Arendt di Vita activa e l’Alasdair MacIntyre di Dopo la virtù, si sostiene che è la condizione di cittadino a creare l’uguaglianza (politica), non il contrario, che l’uguaglianza politica assimila individui altrimenti profondamente diversi e li addestra alle virtù civiche, alla capacità di assumere decisioni e accettarne la responsabilità, di agire nello spazio pubblico e condividere le responsabilità politiche ed economiche della comunità, cercare l’affermazione di sé anche spingendosi sino ai confini mobili del sacrificio. Così non sorprende l’affermazione per cui “la diffusione universale della condizione di cittadino implica davvero un mondo di eroi. È la democrazia che ha bisogno di un mondo del genere, se la cittadinanza non deve ridursi a mera formalità”.

Il middle man americano: mercato e foro pubblico

Come si vede, ci troviamo di fronte ad un’idea di cittadinanza impostata su ambiziose coordinate assiologiche, distante in termini etici e antropologici tanto dalla concezione della democrazia procedurale come sistema di regole per controllare gli eccessi di potere dei governanti e per costruire una gabbia protettiva per le minoranze politiche, quanto dalla retorica liberal della “cittadinanza democratica”, ipostatizzata nello Stato sociale del Novecento, come insieme di diritti che rappresentano altrettante rivendicazioni e allontanano progressivamente l’uomo dalla percezione della propria responsabilità sociale di persona. Il cittadino di Lasch, in questo davvero figlio dell’originarietà e originalità americana, è oplita e uomo di lettere, nobile perché cosciente dei doveri nei confronti del proprio popolo, radicato nelle comunità contadine o nella vita di quartiere, responsabile nei confronti della famiglia e del vicinato, “colato” in un contesto da cui trae le armi e le fonti della propria legittimazione in quanto cittadino, eroe, protagonista del proprio tempo, soggetto e non oggetto dei processi sociali. Nei capitoli più politici delle opere di Lasch emerge, a poco a poco, la figura di un cittadino che sa stare nel mercato, la piazza degli scambi, ma soprattutto nel foro pubblico, che forte del suo carico di virtù vissute virilmente sa bene che “una vita dedita solo alla ricerca della ricchezza e del benessere privato viene condannata non in quanto egoistica, ma perché non fornisce all’ambizione un campo sufficiente in cui eccellere”.

Sono frasi come queste che allontanano Lasch da un’altra tradizione che in questi anni si è fatta strada negli Stati Uniti, quel filone communitarian che, ponendo la centralità del dato comunitario in modo ambiguo, critica il mercato ma si risolve in una deriva socialdemocratica che scarica sul collettivo il carico di responsabilità che, invece, il cittadino virtuoso dovrebbe portare sulle proprie spalle; il comunitarismo così inteso, poco dista dal principale bersaglio polemico di Lasch, la sinistra liberal e il suo statalismo che ha inaridito i pilastri naturali della convivenza sociale, in primo luogo la famiglia, per sostituirli con la vuota competenza delle tecnostrutture. E’in questi “tecnici”, figli della contemporanea espansione indefinita del mercato come motore mobile di tutte le cose e dello Stato come paracadute burocratico per l’avvizzimento delle solidarietà spontanee, di un cosmopolitismo nemico delle radici e del potere sproporzionato in mano ai mezzi di informazione, che Lasch, in questo ricongiungendosi solo in parte con la teoria critica della società, ritrova i protagonisti della Nuova Classe: giornalisti, grandi avvocati, finanzieri di Wall street, critici, artisti, intellettuali dei campus, femministe, militanti salottieri dei diritti civili, progressisti di ogni razza, colore e credo politico, a proprio agio in qualsiasi angolo del globo purché in possesso dei propri strumenti di ben-essere e ben-avere; élite capovolte, le potremmo definire, che per trovare la via esotica dello sradicamento hanno perso prima di ogni altra cosa qualsiasi percezione del dovere nei confronti delle proprie comunità. Cittadini dimezzati.

Queste suggestioni a metà strada tra Sparta e Atene che provengono dalle pagine di Lasch, hanno significativamente trovato eco in Italia nel richiamo alla “democrazia eroica” di uno Stefano Zecchi, filosofo impegnato a ridonare un senso estetico ad una democrazia ormai svuotata della propria dimensione verticale. L’unica verticalità possibile oggi si riduce difatti, per Lasch, a un ascensore artificiale costruito per garantire l’intercomunicabilità tra le classi sociali, a cui diamo il nome di “mobilità”. Su e giù tra i sobborghi, dove vivono in loculi incomunicanti vecchie e nuove povertà, analfabetismo sociale e borghesia proletarizzata, e i centri dell’industria culturale e del potere politico. Non per seppellire le classi o per riattivare dispersi spiriti comunitari, ma semplicemente per garantire che vengano nutriti i quattro totem delle credenze democratiche contemporanee: il progressismo (la filosofia di fondo), la mobilità sociale (il meccanismo), la meritocrazia (l’alibi), e la Nuova Classe (il prodotto autoreferenziale). Lasch su questo punto è chiaro: “La meritocrazia è una parodia della democrazia” poiché, grazie al marchingegno della mobilità sociale, rafforza e stabilizza l’autorità di élite sradicate e irresponsabili e drena “i talenti delle classi inferiori, privandole di una leadership capace”; infatti “un alto livello di mobilità non è affatto contraddittorio con un sistema di stratificazione che concentri potere e privilegi in un’élite dominante. Anzi, la circolazione delle élite rafforza il principio gerarchico” e conferma l’idea di Laurence Goodwyn per cui “la politica moderna ha luogo nella tensione tra l’idea democratica e una realtà di tipo élitario”.

Quindi, così come non va fatta “confusione della democrazia con la libera circolazione dei beni di consumo”, non bisogna farsi irretire dalle magnifiche sorti e progressive della mobilità sociale, che mantiene in vita quel sistema di sperequazioni che svilisce la cittadinanza, agisce contro l’uguaglianza e le possibilità di riscatto economico delle masse, e perpetua le differenze di classe, politiche, ma anche di razza, come denuncia Lasch riguardo al caso storico delle battaglie sul busing. Il dilemma investe “qual è la scelta più importante che una società democratica deve compiere: se cercare di innalzare il livello generale di competenza, di energia e di impegno – di “virtù”, nel linguaggio della tradizione politica più antica – o limitarsi a promuovere un più ampio reclutamento delle élite”.

I frutti migliori della “Rivoluzione americana”

Nel momento in cui Lasch invoca una società senza classi ad alta percentuale di impegno civico, in cui i soggetti più agiati siano al servizio della comunità e non viceversa, in cui la cultura sia fenomeno diffuso; nel momento in cui disegna i tratti di un sistema sociale in cui il mercato sia delimitato da precisi confini e popolato di piccoli proprietari e lo Stato non entri dentro le case, chiede, senza dirlo chiaramente, il ritorno della politica nella sua dimensione locale e vitale, come “somma delle azioni pubbliche degli uomini liberi”, la netta distinzione tra spazio pubblico e ipertrofia delle competenze dello Stato, la riscoperta dei frutti più saporiti della Rivoluzione americana, il repubblicanesimo e l’etica della proprietà diffusa. Perché il mercato lasciato a se stesso produce sradicamento e omologazione, accumulazioni di fortune ed economie finanziarizzate, il welfare state difeso dai liberal comporta la crescita del germe del paternalismo e altrettanta tensione all’indifferenziazione sociale, con un’azione a tenaglia che, scrive acutamente Lasch, stabilizza il dominio della Nuova Classe e moltiplica all’infinito i problemi di insostenibilità, in primo luogo in termini di sicurezza: “I nuovi metodi di controllo sociale uniti all’ascesa del movimento progressista hanno stabilizzato il capitalismo senza risolvere neppure uno dei suoi problemi fondamentali [...] Il nuovo paternalismo ha impedito che le tensioni sociali assumessero una connotazione politica, ma non ne ha rimosso le cause [...] I costi di gestione del sistema, per giunta, sono diventati più alti”. E, qui, appare superfluo citare le statistiche sull’innalzamento dei costi per mantenere in vita apparati di controllo e repressione dei fenomeni di criminalità e devianza sociale, o descrivere, come il Mike Davis di Città di quarzo, i processi di “fortificazione” dei quartieri benestanti.

E le masse, con la loro presunta emancipazione? La massa – incontriamo di nuovo la teoria critica della società, le reminiscenze di Ortega y Gasset, ma anche le suggestioni di un certo pensiero “di destra” – viene osservata da Lasch con un misto di rabbia e diffidenza. Le processioni del sabato pomeriggio negli shopping malls, l’ignoranza diffusa nelle scuole pubbliche, il disprezzo verso il passato sono i sintomi di una pericolosa omologazione, e di una caduta verso il basso della maggioranza che scava fossati ancora più ampi tra la base e il vertice della struttura sociale. Per questa ragione Lasch prende di petto sociologi come Herbert Gans o pensatori come il Walter Benjamin de L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, che ritengono la cosiddetta “cultura di massa” l’architrave dell’affrancamento delle classi inferiori, quando invece si tramuta in un semplice nuovo “strumento di controllo sociale”, accanto alla sempre maggiore pervasività dei mezzi di comunicazione (appunto) di massa.

E’ certamente un’idea diversa di popolo – ma anche di nazione – che Lasch ha in mente quando descrive il suo modello di cittadinanza e di sistema economico a proprietà diffusa, un’idea che frantuma la massa in individui autocoscienti e rifiuta le sue forme di espressione culturale perché triviali ed omologanti. Il senso dell’ormai celeberrima difesa del populismo, nella sua irripetibile variante americana, agraria, dei piccoli centri cittadini e “delle praterie”, il populismo “ultimo baluardo dei produttori” – come scrive ne Il paradiso in terra – sta tutta qui: immaginare una democrazia fondata su cittadini consapevoli e autosufficienti, che non dipendono né dalle tecnoburocrazie statali né dalle bizze cieche dei meccanismi concorrenziali per essere uomini virtuosi, responsabili padri di famiglia e buoni cives: “I populisti ereditavano da tutta la tradizione politica precedente, liberale e repubblicana, il principio per cui il diritto di proprietà, e l’indipendenza personale che esso assicura, sono due precondizioni assolutamente essenziali dell’esercizio delle funzioni e dei doveri del cittadino”.

La storia del populismo americano, degli agricoltori, degli uomini di bottega, dei piccoli commercianti, del volto buono dei self made man a cui Lasch si rifà, così distante da quella dei populismi europei eppure soggetta anch’essa a gravi distorsioni interpretative da parte di storici e politologi – da Richard Hofstadter al libro Populism curato da Ghita Ionesco ed Ernst Gellner –, è la storia di un movimento non tanto intellettuale quanto sociale e politico, che rappresenta, nel corso di tutta la storia americana, la rivolta al tempo stesso contro i guasti e le interferenze del Big Government e contro gli eccessi dell’economia di mercato, lo spirito della frontiera e la difesa del radicamento locale, urbano, territoriale. Un movimento trasversale di cittadini e produttori in grado di interpretare il volto localistico e patriottico dell’America, senza scivolare in alcuna tentazione imperialistica, animato soprattutto dalla strenua convinzione che la formula vincente della storia americana era data dal binomio diffusione della proprietà-diffusione delle forme di democrazia diretta. Esattamente quello che oggi manca negli Stati Uniti. E’ su queste basi che si può leggere l’attualità e la bellicosità del pensiero di Lasch, intrecciandolo con ciò che accade negli Stati Uniti ma anche nel continente europeo.

Lasch traccia le coordinate di quella che, anche se l’autore non ha mai ambito a definirla così, ha tutti i caratteri di una “terza via” tra le due grandi formule vincenti del Novecento, il liberismo fondato sulla sovranità impolitica del mercato e lo statalismo di derivazione socialdemocratica; nel contesto americano, anche dell’aspirazione, o della speranza, di aprire il terreno alla nascita di un terzo partito incuneato tra Democratici e Repubblicani, visto che questi liberal e questi conservatori non rappresentano tutta la complessità sociale e politica, e nessuno ha intenzione di mettere in questione i miti fondanti delle società contemporanee. Le posizioni di Lasch, da questo punto di vista, sono davvero eterodosse: la sua critica degli eccessi del mercatismo e dello statalismo lo possono avvicinare tanto agli ambienti “non utilitaristi” vicini al francese Mauss (Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali) dei vari Serge Latouche ed Alain Caillé, quanto ai richiami verso la sussidiarietà di quel vasto arcipelago cattolico (vicino, ma non solo, a Comunione e liberazione) che chiede non “più mercato, meno Stato” ma “più società, meno Stato”, o – in Italia – a quel filone “sociale” e partecipativo del postfascismo che cerca di superare i rigurgiti statocentrici con iniezioni di suddidiarietà e di partecipazione popolare, o ancora al grande mondo del volontariato, della cooperazione e dell’auto-organizzazione sociale. Ma ancora tante intuizioni del suo “fervore morale” (Jacoby) sono materiale di discussione per il presente.

Contro le degenerazioni dell’universalismo Lasch sostiene candidamente che “non si può pretendere che gli uomini nutrano lealtà, dedizione e solidarietà nei confronti dell’intera razza umana”; i cerchi concentrici delle nostre appartenenze, non la mera identità ma la pura autenticità, sono quelli che muovono i nostri sentimenti di fedeltà. Ogni morale astratta corre il rischio di produrre guasti a ripetizione, e così è accaduto negli Stati Uniti, con l’opinione pubblica ossessionata dai richiami del “politicamente corretto” e delle “azioni affermative”, imperativi categorici che hanno creato nuove disuguaglianze e nuove forme di discriminazione. Lasch, che si è sempre considerato un nemico feroce di queste pratiche, avrebbe forse sottoscritto la requisitoria contro i guasti del multiculturalismo male inteso che costituisce la scena più memorabile del bellissimo film di Spike Lee La venticinquesima ora, o avrebbe probabilmente guardato con piacere l’iniziativa dei giovani “Hipublicans” di usare l’effigie di Martin Luther King, sulla copertina del periodico Counterweight, come icona della battaglia per abolire le quote a tutela delle minoranze nelle università. Del resto, è proprio King il riferimento costante a cui Lasch ricorre nei suoi scritti per descrivere la parabola discendente del movimento per i diritti civili, passato dalla rivendicazione di maggiori spazi di responsabilità sociale per le minoranze al battere cassa verso il welfare state alla ricerca di sussidi e redditi garantiti. Lasch, ancora, sarebbe stato tra coloro che, come mostrano i sondaggi, considera la maggior parte dei poveri “pigri” e, dunque, causa del proprio male, ma al tempo stesso non avremmo dubbi sul trovarlo schierato accanto a William Gates, padre del più famoso e ricco Bill, nel difendere l’Estate Tax, la tassa sulle eredità miliardarie perorata da alcuni sostenitori delle teorie della Supply Side Economics. Sarebbe poi curioso sapere cosa Lasch avrebbe scritto sulla seconda guerra del Golfo, dopo che la prima, come risulta dallo scritto che pubblichiamo in questo “speciale”, non aveva riscosso in lui grandi simpatie; sarebbe stato anche curioso sapere cosa Lasch avrebbe pensato di un presidente degli Usa così religioso da aprire le riunioni del Consiglio di sicurezza Bibbia alla mano, di un Congresso in grado di votare la mozione per un giorno di preghiera, mentre la sua amata middle class si sgretola sotto i colpi di un multiculturalismo che consegna la California in mano alle ex “minoranze oppresse”.

I motivi per tenere ben presente Lasch, ed evitare che le sue opere si impolverino dimenticate sugli scaffali, ci sono tutti, sia per i suoi ammiratori che per i nemici. L’importante è provare a non interpretarlo a pezzi, ma nel complesso di un autore che porta su di sé le ferite del Novecento. Un middle man americano, cresciuto all’ombra delle teorie neo-marxiste e liberal statunitensi, che ha visto in faccia i guasti e le distorsioni prodotte dalle accelerazioni del progresso dal predominio acefalo della tecnica. Ha scelto, però, di non rinchiudersi nei recinti “privati”, forieri di paure e di aggressività, che danno linfa a tanto pensiero politico contemporaneo, ma ha sfidato sia il progressismo che il conservatorismo su un terreno ostico, quello dei princìpi – la democrazia, il concetto di cittadinanza che la sorregge, il progresso – che troppo spesso vengono dati per acquisiti quando invece andrebbero rinnovati, ravvivati, ridiscussi per evitare la loro cancrena. Lasch, con tutti gli affascinanti limiti, strappi e salti logici che può avere la sua impostazione (quella di uno storico delle idee e non di un ingegnere sociale ammalato di illuminismo), ha trovato prima nelle cellule “naturali” della società e poi nel suo populismo la variabile chiave per fornire risposte di senso ad una crisi della contemporaneità che, prima di essere crisi di istituzioni, è crisi dei propri miti fondanti. Ma, se aveva ragione Hannah Arendt a sostenere che la politica è come una forza sotterranea che ogni tanto esplode e arriva in superficie, allo stesso modo la Repubblica fondata sul baudelairiano eroismo quotidiano ri-sognata da Lasch segna sempre un orizzonte possibile. Anche in epoca globale, ad opera, chissà, di un... calzolaio di Omaha.

5 dicembre 2003

(da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)
 
stampa l'articolo