JFK, il mito smontato da Ayn Rand
di Stefano Magni

Nel giugno del 1962 così scriveva, sulle colonne del Los Angeles Times, la romanziera e filosofa Ayn Rand: “Gli uomini di Stato possono competere per il potere dispensando promesse, minacce e redistribuzioni ai cercatori di guadagni immeritati – gli stessi si ritrovano impotenti di fronte a un’emergenza nazionale, perché il linguaggio, i metodi e le politiche che hanno successo con i parassiti non funzionano quando il paese ha bisogno di produttori. Il comportamento attuale dell’amministrazione Kennedy può servire come un valido esempio. La politica dell’amministrazione si fonda su due obiettivi o slogan inevitabilmente incompatibili fra loro: il ‘miglioramento sociale’ e la ‘crescita economica’. ‘Miglioramento sociale’, così come l’espressione è usata oggi, non significa il progresso economico acquisito da un particolare gruppo per mezzo del libero scambio in un mercato libero, ma privilegi immeritati e redistribuzioni promesse dal governo, il che vuol dire: estorti per mezzo della forza legalizzata agli altri gruppi”.

I suoi editoriali settimanali rappresentano una testimonianza unica della lotta di chi, da liberale indipendente (anche se non nascondeva le sue simpatie per il partito repubblicano), vedeva Kennedy come una minaccia, sia pure soft, alla libertà individuale e come il simbolo vivente di un crescente relativismo culturale. Oggi, a quarant’anni dall’assassinio del presidente, queste critiche possono apparire assurde di fronte al mito del leader americano più amato dagli europei, l’uomo della “nuova frontiera” e dei missili di Cuba, dei diritti civili e della solidarietà atlantica. Tutti aspetti della politica di Kennedy che Ayn Rand demoliva, settimana dopo settimana, mostrandoli in una luce realistica e disillusa, prima che il mito di JFK si costruisse. Ne esce una figura completamente diversa del presidente, rispetto a quella che siamo abituati a vedere, ma non è tanto Kennedy in sé il suo bersaglio, quanto una società americana sempre meno libera e sempre più passiva nell’accettare il controllo da parte dello Stato federale, sempre più dimentica della sua matrice culturale fondata sui diritti naturali dell’individuo.

L’avvento dell’amministrazione Kennedy e del suo seguito di “trusts di cervelli”, per Ayn Rand equivale ad un vero e proprio “colpo di Stato intellettuale”: “Negli anni ’30, i difensori del capitalismo avvertivano questo paese che il welfare state avrebbe necessariamente condotto a una crescita del controllo statale e infine al totalitarismo. I liberal lo hanno sempre veementemente negato. Ora, mentre queste predizioni si stanno diventando realtà, quando i principi politici sui quali esse si fondavano si stanno dimostrando autentici, l’unica risposta dei liberal è che i principi siano ora irrilevanti, perché siamo negli anni ’60 e non negli anni ’30. E’ significativo che il signor Kennedy abbia deciso di tenere un discorso in cui tutto ciò sia mostrato come una contrapposizione fra ‘pensiero’ e ‘realismo’, agli studenti dell’Università di Yale. (…) Il signor Kennedy invitava il suo pubblico ad abbandonare certe ‘illusioni’ come la conoscenza concettuale, le teorie, i principi, le astrazioni e di considerare solo problemi specifici, quotidiani, senza mai collegare un problema all’altro. Ciò vuol dire adottare la mentalità di un selvaggio che non ricorda oltre il momento immediato, non vede nulla oltre ai problemi immediati e cerca di risolverli senza seguire alcun principio, il più delle volte usando la clava”.

La mentalità pragmatica dell’amministrazione americana creava una condizione di “guerra civile fredda” di “una nazione in cui ogni gruppo sociale diventa sia schiavo che padrone degli altri gruppi. Domandatevi quanto possa durare una situazione del genere e quale possa essere la sua inevitabile degenerazione (…) Quando il segretario Goldberg ha annunciato, durante la negoziazione dei contratti industriali, che il governo si era arrogato il diritto esclusivo di ‘definire e asserire l’interesse nazionale’ nelle contrattazioni collettive – i rappresentanti dei lavoratori hanno subito giustamente protestato. George Meany (leader sindacalista, ndr) ha dichiarato: ‘Quando si sostiene che il ruolo del governo è di asserire l’interesse nazionale, si sta infrangendo il diritto di persone libere di vivere in una società libera…’Quale è stata la reazione degli industriali? L’Associazione nazionale industriali ha condotto una timida protesta, con il seguente suggerimento: ‘il vero rimedio è quello di sottoporre i sindacati dei lavoratori alle restrizioni legali sul mantenimento e l’uso di un potere monopolistico’. Invece di cercare di formare un’alleanza contro un nemico comune e cercare di spezzare le catene delle leggi antitrust che la stanno soffocando, l’industria sta chiedendo che queste leggi vengano estese per incatenare l’ultimo potente contestatore ancora libero”. Lotte fra gruppi di pressione, dunque, che esulano dalla logica socialista della lotta di classe: “la vera guerra non è fra classi sociali, ma dentro di esse”. Come nel caso dei media: “Qualche tempo fa, quando il signor Kennedy aveva suggerito, in termini vaghi, che i giornali dovessero tener nascoste queste notizie in quanto contrarie all’‘interesse pubblico’, i giornali si erano giustamente allarmati e avevano espresso tutta la loro opposizione alla minaccia. Ma quando il signor Minow (presidente della Commissione federale dell’informazione, ndr) ha proposto di censurare radio e Tv per mezzo della revoca delle licenze, molta della stampa lo ha osannato come un protettore della cultura e dell’arte”.

D’altra parte, il pragmatismo e l’assenza di principi dell’amministrazione Kennedy, sono visti come un fattore di disarmo culturale di fronte alla minaccia del comunismo. “In una recente intervista rilasciata assieme a un gruppo di studenti brasiliani, il presidente Kennedy ha chiarito che non c’è una direzione da offrire al mondo, non ci sono principi politici, nessun ideale, nessun obiettivo. Ha dichiarato che il socialismo è accettabile per noi come qualsiasi altro sistema sociale”. Anche la soluzione pacifica della crisi di Cuba, vista da vicino, nel suo svolgersi giorno dopo giorno, appare come una mezza umiliazione negli editoriali della Rand: “La dichiarazione di Kennedy del 22 ottobre (il blocco navale di Cuba, ndr) era da tanto tempo attesa, il semplice fatto che un presidente affermasse il diritto all’autodifesa del proprio Paese senza compromessi è stato come un raggio di sole nella grigia foschia di un mondo in cui questo diritto è stato ritirato da trenta vergognosi anni. (…) Dopo aver ottenuto la condiscendenza di Chrushev alle proprie condizioni, il signor Kennedy ha negato la base morale della sua stessa dichiarazione – il principio secondo cui la sicurezza degli Stati Uniti non è soggetta a negoziati – e ha trasformato la sua vittoria in un’amorale contrattazione in sede Onu, dove le istanze di vittime e aggressori sono considerate in modo ‘neutro’ come uguali parti in causa. Ciò che è seguito è solo l’ipocrita futilità della routine dell’Onu e una serie di compromessi immorali da parte nostra – come la proposta di scegliere osservatori ‘neutrali’ per lo smantellamento delle basi missilistiche a Cuba”. Altro che eroismo alla Kevin Costner.

5 dicembre 2003
 
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