Elogio del populismo democratico
di Christopher Lasch
Il collasso del comunismo come temibile antagonista del
liberalcapitalismo ha diffuso uno stato di euforia tra i
liberali di destra e di centro, mitigato solo dalla riflessione
per cui “la fine della storia”, della tanto celebrata
espressione di Francis Fukuyama, sarà “un’epoca molto triste”
per coloro che apprezzano “l’audacia, il coraggio, la fantasia e
l’idealismo”. L’“indiscutibile vittoria del liberalismo
economico e politico”, per come la vede Fukuyama, significa il
ruolo universale della legge, la globalizzazione di quella
“società senza classi” che si è già affermata negli Stati Uniti,
una grande espansione dell’offerta di beni di consumo, uno
“Stato universale omogeneo”, ed una “consapevolezza
post-storica” in cui “la lotta ideologica […] sarà sostituita
dal calcolo economico, dalla costante soluzione di problemi di
natura tecnica, dalle preoccupazioni ambientali, e dalla
soddisfazione delle sempre più sofisticate domande dei
consumatori”.
L’analisi di Fukuyama riprende precedenti profezie da parte
liberale sulla fine delle ideologie. Ma richiama curiosamente
alla mente l’uomo a una dimensione di Marcuse e la terribile
visione della Scuola di Francoforte di una società totalmente
amministrata priva di contraddizioni e, per questo,
completamente refrattaria al cambiamento. Dal momento che
Fukuyama, così come Marcuse e i suoi sodali, trae ispirazione da
Hegel, non sorprende che le loro differenti visioni della fine
della storia abbiano così tanto in comune. Da questo punto di
vista, la convergenza dell’ottimismo tecnologico con la
disperazione culturale, del culto del progresso con la
nostalgia, è stata una caratteristica ricorrente del pensiero
moderno sin dai tempi dell’Illuminismo. Il trionfo della ragione
appare come la terra promessa dell’armonia e della libertà fino
a quando non ci ricordiamo che gli uomini hanno imparato ad
apprezzare la libertà solo grazie alla competizione ed al
conflitto. A questo punto, la weberiana “gabbia d’acciaio” della
razionalità appare una descrizione più plausibile del nostro
futuro. Fukuyama, dopo essersi intrattenuto a lungo nella
descrizione delle beltà del liberalismo e della debolezza delle
forze che oggi gli si oppongono, ci fa piombare inaspettatamente
nella prospettiva di “secolo di noia”. Il nuovo ordine, afferma,
risveglia “le più ambigue sensazioni” – da un lato, la
soddisfazione della consapevolezza che il liberalismo non deve
più far fronte ad alcuna sfida ideologica di un qualche peso;
dall’altro, “una profonda nostalgia per l’epoca in cui ancora
esisteva la storia”.
Ma l’ordine liberale non è così saldo come poteva sembrare.
Nell’ora del suo ipotetico trionfo, la fragilità del liberalismo
si manifesta in modo più chiaro che mai, in primo luogo proprio
negli Stati Uniti. Dopo aver disintegrato i suoi avversari
totalitari, il liberalismo si sta sgretolando dall’interno.
L’assenza di una minaccia esterna rende più che mai difficile
ignorare questo processo di decadenza. La guerra del Golfo [del
1991, ndT] ha offerto una distrazione momentanea, ma è finita
troppo presto; e sebbene possiamo aspettarci in futuro altre
distrazioni di questo genere, sarà impossibile, nel lungo
periodo, evitare il giorno della resa dei conti. I segni di un
imminente crollo sono già evidenti. La droga, il crimine, la
guerra tra bande stanno rendendo le nostre città inabitabili. Il
nostro sistema scolastico è prossimo al collasso. I nostri
partiti politici sono incapaci di favorire l’ingresso di intere
masse di potenziali elettori nel processo politico. La
circolazione globale delle merci, dell’informazione e delle
persone, lungi da rendere ciascuno di noi ricco (come i teorici
della modernizzazione avevano previsto con grande sicurezza), ha
allargato il gap tra le nazioni ricche e quelle povere e ha
generato una vasta migrazione verso Ovest e verso gli Stati
Uniti in particolare, in cui i nuovi arrivati vanno a riempire
le fila dell’esercito dei senza casa, dei disoccupati, degli
analfabeti, degli schiavi della droga, dei derelitti, e di
coloro che sono tutto fuorché “affrancati”. La loro presenza
spinge le risorse esistenti fino al punto di rottura. Le
istituzioni mediche ed educative, le agenzie di applicazione
della legge, e l’offerta disponibile di beni – per non parlare
della tolleranza interrazziale, mai abbondante sin dall’inizio –
appaiono tutte inadeguate per il difficilissimo compito di
assimilare quello che, a tutti gli effetti, è un surDaily di
popolazione.
Liberalismo e virtù civica
Anche i figli del privilegio non vengono più assimilati alla
cultura del liberalismo. Un sondaggio dopo l’altro, viene
dimostrato che gli studenti dei college non possiedono neppure
una conoscenza rudimentale della storia, della letteratura o
della filosofia occidentali. Una sorta di deculturazione ha in
un certo qual modo preso piede da un po’ di tempo, un processo
di diffusione dell’ignoranza (unlearning) senza precedenti
storici (il che spiega perché non abbiamo una parola migliore
per descriverlo). Quello che E.D. Hirsch chiama analfabetismo
culturale rappresenta probabilmente un pericolo più serio degli
attacchi, ovviamente a caratterizzazione ideologica, portati
alla cultura liberal. La destra ripudia “l’umanismo secolare”,
mentre la sinistra denuncia qualsiasi tentativo di sostenere un
nucleo di valori comuni come imperialismo culturale e domanda
parità di trattamento per le minoranze. La “modernizzazione” del
mondo, come veniva concepita quando i liberali stavano
conducendo lo spettacolo, implicava la creazione non solo di un
mercato globale ma di una cultura globale in cui i valori
liberali – la libertà individuale, la libertà di ricerca, la
tolleranza religiosa, la dignità umana – sarebbero stati
universalmente rispettati. Noi oggi abbiamo una cultura globale,
ma è la cultura di Hollywood, del rock & roll e di Madison
Avenue – una cultura dell’edonismo, della crudeltà, del
disprezzo e del cinismo.
E' inutile mettersi a speculare sul da farsi – se cercare di
salvare il liberalismo, sostituirlo con qualcos’altro, o
rassegnarci non solo al declino del liberalismo ma del nostro
esperimento nazionale nel suo complesso – fino a che non
riusciremo a comprendere meglio cosa sta esattamente accadendo
alle nostre tradizioni politiche e perché. Se il liberalismo sa
conservare e innovare la sua capacità di crescita e sviluppo,
sarebbe stupido abbandonare la nostra tradizione dominante. Se,
invece, ha raggiunto i limiti esterni della sua crescita,
dovremmo allora probabilmente rivolgerci a quelle tradizioni
sommerse della storia americana che sono state messe in ombra,
ma mai completamente estinte, dal credo politico dominante.
Già parlare di limiti in quanto tali è un altro modo per parlare
della condizione attuale del liberalismo, una tradizione
politica fondata sull’espansione economica illimitata. Nella sua
forma più convincente, il liberalismo poggia su una temperata
fiducia nel progresso, che non presuppone alcuna ingenua
illusione riguardo alla perfettibilità della natura umana ma
assume semplicemente che una decisa crescita della domanda dei
consumatori – una rivoluzione delle aspettative crescenti – farà
da sostegno in maniera indefinita alla crescita economica. Il
liberalismo si è identificato con le politiche immaginate per
assicurare il pieno impiego e, così, espandere la capacità di
consumo. La promessa di un’abbondanza universale conteneva
quelle implicazioni ugualitaristiche senza le quali il
liberalismo non avrebbe potuto rivendicare la propria autorità
morale. Tali implicazioni, in verità, sono state aperte ad
interpretazioni conflittuali. Alcuni sostenevano che fosse
sufficiente accrescere le quantità disponibili di risorse e
servizi, nell’aspettativa che il risultato sarebbe stato la
crescita del tenore di vita di ciascuno. Altri domandavano
misure più radicali, pensate non solamente per accrescere la
ricchezza totale, ma per distribuirla in modo più equo. Ma
nessuno di coloro che credeva nel progresso poteva concepire
alcun limite alla capacità produttiva nel suo complesso. Nessuno
immaginava il ritorno ad un’esistenza più frugale: ipotesi di
questo tipo non potevano trovare spazio nel progressismo del
pensiero dominante.
La scoperta tardiva che l’ecologia terrestre non potrà più
sostenere un’espansione indefinita delle forze produttive dà il
colpo di grazia alla fede nel progresso. Una distribuzione più
equa della ricchezza richiede una riduzione del tenore di vita
goduto dalle nazioni ricche e dalle classi privilegiate. I
tentativi di estendere il tenore di vita occidentale al resto
del mondo porterebbero molto velocemente all’esaurimento delle
risorse non rinnovabili, l’irreversibile inquinamento
dell’atmosfera terrestre, drastici mutamenti di clima, e la
distruzione del sistema ecologico da cui dipende la vita umana.
“Immaginiamo”, scrive Rudolf Bahro, “cosa potrebbe accadere se
il consumo di materie prime e di energia della nostra società
fosse esteso ai 4,5 miliardi di persone che oggi abitano il
pianeta, o ai 10-15 miliardi di un probabile futuro prossimo. E'
immediatamente evidente che la Terra è in grado di sopportare
gli attuali volumi di produzione […] ancora per poco tempo”.
Immaginiamo, per fare un altro esempio, un’India in cui ciascuna
famiglia possieda un paio di automobili e in cui ogni casa
possieda aria condizionata, stereo, videoregistratore e una
cucina fornita dei più moderni accessori.
L’importanza crescente delle questioni ambientali è uno degli
indicatori più drammatici, ma certo non il solo, che abbiano
fatto ingresso in una nuova epoca dei limiti – limiti non solo
allo sviluppo economico ma, più in generale, limiti al controllo
dell’uomo sulla natura e sulla società. E' un luogo comune
osservare che le innovazioni tecnologiche hanno conseguenze
imprevedibili che spesso le rendono auto-annullanti, poiché
peggiorano i problemi per la cui soluzione erano state pensate.
L’uso su larga scala degli antibiotici porta alla proliferazione
di batteri resistenti agli antibiotici. Le tecnologie mediche
che prolungano la vita creano un’ulteriore classe di persone
bisognose di aiuto, il cui numero sopravanza le attrezzature
costruite per prendersi cura di loro. Le automobili,
ipoteticamente un mezzo di trasporto veloce, economico ed
efficiente, semplicemente nascondono il tempo che ci vuole per
portare qualcuno da un posto ad un altro. Prendendo in
considerazione il tempo richiesto per mantenere in buono stato e
pagare per queste macchine, guidare e parcheggiarle, e spendere
denaro per acquistare il combustibile, pagare l’assicurazione e
le riparazioni, una volta Ivan Illich ha calcolato che il
guidatore medio raggiungeva una velocità di sole 4,7 miglia
all’ora – una distanza solo leggermente maggiore di quella che
avrebbe potuto coprire a piedi. David Ehrenfeld, dopo aver
citato molti altri esempi di tecnologie auto-annullantisi nel
suo Arrogance of Humanism, sostiene che non sia più possibile
evitare la conclusione che la nostra incapacità di fare
previsioni a lungo termine con una certa precisione, controllare
le innumerevoli complessità che entrano in questi calcoli, o
calcolare gli effetti non previsti causati dalle nostre
procedure di diagnosi e misurazione, impone limiti severi alla
nostra capacità di controllo. In un recente articolo, Ehrenfeld
continua la sua analisi della nostra “fede sbagliata nel
controllo” in cui dimostra come l’eccesso di gestione nel
settore privato come in quello pubblico rende le società sempre
più ingestibili.
Il semplice volume del lavoro burocratico assorbe energie che
potrebbero essere utilizzate in maniera più costruttiva. La
catalogazione ossessiva della realtà (l’archiviazione di
qualsiasi avvenimento) rende sempre più difficile distinguere
l’informazione utile da quella inutile o individuare
l’informazione appropriata quando ne abbiamo bisogno. La
supervisione ossessiva indebolisce la capacità di giudizio, la
competenza e la fiducia in sé di coloro che vi sono sottoposti e
crea la necessità di ancora più supervisione. I costi di
mantenimento di grandi strutture di gestione drenano risorse da
investimenti maggiormente produttivi. La società amministrata,
per come ci appare, è intrinsecamente instabile. Esistono dei
limiti oltre i quali non può funzionare senza crollare sotto il
proprio peso – limiti a cui ci stiamo rapidamente avvicinando.
Nella sua versione classica, il liberalismo aveva ridotto al
minimo le funzioni del governo. La diplomazia, la guerra, la
sicurezza e l’educazione pressoché esaurivano le responsabilità
dello Stato, per come veniva concepito dai liberali nel XVIII e
XIX secolo. Questo dimagrimento delle competenze governative,
insieme con la sua promozione della tolleranza religiosa e della
libertà di parola, rappresentava una fonte importante del
fascino del liberalismo.
Una via non progressista alla libertà
Oggi anche il liberalismo ha trasformato lo Stato in un
leviatano, ed anche il settore erroneamente definito privato è
dominato da potenti burocrazie che esercitano un potere
“semi-governamentale” e strettamente legato alla burocrazia
pubblica, nonostante la loro insofferenza nei confronti della
regolazione. Che cosa spiega questa curiosa strada che ha preso
lo sviluppo storico, il cui risultato è che il liberalismo è
arrivato ad essere associato ad una forma di ordine sociale che
sarebbe apparso ripugnante ai padri fondatori del liberalismo?
Semplicemente è accaduto che i liberali hanno tradito le proprie
origini, come sostengono i critici di destra quando cercano di
ricondurre il liberalismo alle sue origini liberiste? O c’è
qualcosa nella natura stessa del liberalismo – qualche
contraddizione interna, come siamo soliti dire – che spinge
necessariamente alla proliferazione di elaborate strutture di
gestione, supervisione e controllo?
Due caratteristiche dell’ideologia liberale sono sopravvissute
nel corso degli anni: la venerazione per il progresso e la
convinzione che uno Stato liberale avrebbe potuto fare a meno
della virtù civica. Da sola, la dedizione nei confronti del
progresso ha generato molte delle difficoltà che ora minacciano
di seppellire lo Stato liberale, dal momento che il progresso ha
significato produzione su larga scala, e centralizzazione del
potere economico e politico. La fede nel progresso ha anche
contribuito a tenere in vita l’illusione che una società baciata
dalla fortuna dell’abbondanza materiale avrebbe potuto fare a
meno della partecipazione attiva del cittadino comune al
governo, il che ci porta al secondo punto, che poi è il cuore
della faccenda. Conclusa la Rivoluzione americana, i liberali
cominciarono a sostenere, in opposizione al tradizionale punto
di vista secondo cui, nelle parole di John Adams, “la virtù
pubblica è il solo fondamento della Repubblica”, che un sistema
appropriato di controlli ed equilibri (checks and balances)
costituzionali avrebbe “reso vantaggioso anche per gli uomini
cattivi agire per il bene pubblico” come diceva James Wilson.
Secondo John Taylor, “una società avida può formare un governo
in grado di difendersi contro l’avidità dei suoi membri”
arruolando “l’interesse del vizio […] sul lato della virtù”. La
virtù sta nei “princìpi del governo”, sosteneva Taylor, non
nelle “evanescenti qualità degli individui”. Le istituzioni e “i
principi di una società possono essere virtuosi, anche se i
membri che la compongono sono viziosi”.
Il problema di questo gradevole paradosso di una società
virtuosa che si fonda su individui viziosi è, in verità, che i
liberali non immaginavano una situazione di questo genere. In
realtà, essi davano per scontata una quantità di virtù private
certo maggiore di quanto non fossero disposti a riconoscere.
Anche oggi, i liberali che fanno propria questa visione
minimalista della cittadinanza infilano sempre una certa
quantità di cittadinanza tra le fessure della loro ideologia del
libero mercato. Milton Friedman ammette che una società liberale
richiede “un livello minimo di alfabetizzazione e di conoscenza
diffusa” insieme ad una “diffusa accettazione di un nucleo
comune di valori”. Osservando la situazione attuale, non è
neppure sicuro che la nostra società possa soddisfare queste
condizioni minime; ciò che è sempre stato chiaro, invece, è che
una società liberale ha bisogno di più virtù di quanto non sia
disposto ad ammettere Friedman. Un sistema che si fonda in
maniera così forte sul concetto dei diritti presuppone che
ciascun individuo rispetti i diritti altrui, non fosse altro
perché si aspetta che a loro volta gli altri rispettino i suoi.
Il mercato, l’istituzione centrale di una società liberale,
presuppone perlomeno individui perspicaci, calcolatori e lucidi
– incarnazione pura della scelta razionale; spinti non
semplicemente dall’interesse individuale ma da un interesse
individuale illuminato. E' per questa ragione che i liberali del
XIX secolo attribuivano così tanta importanza alla famiglia.
L’obbligazione consistente nel mantenere una moglie e un figlio,
dal loro punto di vista, avrebbe disciplinato l’individualismo
possessivo e trasformato un potenziale giocatore d’azzardo,
speculatore, bellimbusto e truffatore in un coscienzioso padre
che provvede ai bisogni della famiglia. Avendo abbandonato il
vecchio ideale repubblicano della cittadinanza insieme alla
condanna repubblicana del lusso eccessivo, i liberali non
avevano più alcuna base per rivolgersi agli individui e
convincerli a subordinare l’interesse privato al bene pubblico
ma, almeno, potevano fare appello alla più nobile forma
egoistica del matrimonio e della genitura. Essi potevano
chiedere, se non proprio la sospensione dell’interesse
personale, almeno la sua elevazione e il suo perfezionamento
etico.
Le aspettative crescenti avrebbero spinto uomini e donne ad
investire le loro ambizioni sui loro discendenti. Il solo
richiamo etico che non poteva essere liquidato con cinismo o
indifferenza era l’appello riassunto dallo slogan tipico dei
nostri giorni: “I nostri bambini: il futuro” – uno slogan che fa
la sua comparsa solo quando la sua efficacia non può più essere
data per scontata. Senza un tale appello al futuro prossimo, la
fede nel progresso non avrebbe mai potuto essere utilizzata come
mito sociale unificante, che manteneva in vita un persistente
senso di obbligazione sociale e dava al miglioramento
individuale (self-improvement), accuratamente distinto dalla
mera soddisfazione dei propri desideri (self-indulgence), la
forza di imperativo morale.
Thomas Hopkins Gallaudet, un importante educatore e filantropo
(uno dei primi, tra le altre cose, ad occuparsi dell’educazione
dei sordi) sosteneva un punto di vista largamente condiviso dai
liberali dell’epoca – eravamo nel 1837 – per cui “il buon
ordinamento e il benessere della società” doveva poggiare su
“quell’indescrivibile attaccamento dei genitori ai figli che
assicura al bambino qualunque attenzione speciale, costante e
affettuosa che la sua particolare condizione richiede”. Né i
“decreti della legge” né le prigioni né, ancora, un vasto corpo
di polizia avrebbe garantito l’ordine sociale. Anche la scuola,
su cui normalmente i liberali ripongono molta fiducia riguardo
alle sue potenzialità di miglioramento e controllo sociali, non
poteva avere successo nei suoi obiettivi a meno che non la si
considerasse “in cooperazione [con la famiglia e] nella veste di
supporto alle sue funzioni”. Ora che il ruolo educativo della
famiglia è stato così fortemente ridimensionato, con il
risultato che la scuola spende gran parte dei propri sforzi ad
insegnare cose che dovrebbero essere apprese a casa, possiamo
apprezzare la saggezza dei luoghi comuni che vogliono la scuola
dipendente dalla famiglia. Nel XX secolo gli educatori hanno
provato a convincerci che scuole gestite a dovere possono, in
realtà, rimpiazzare la famiglia.
La versione data da John Dewey di questa opinione generale era
una delle più misurate. Dal momento che l’industria moderna “ha
in pratica eliminato le attività occupazionali familiari e di
quartiere”, sosteneva Dewey, la scuola avrebbe dovuto “offrire
quella formazione che prima si aveva cura di assicurare in casa”
– ovvero, formazione alla “realtà della vita vissuta”. Abraham
Flexner e Frank Bachman si spingevano oltre. “I mutamenti
sociali, politici e industriali”, scrivevano nel 1918, “hanno
imposto alla scuola una serie di responsabilità che prima erano
di pertinenza della famiglia. Una volta il compito principale
della scuola era quello di insegnare i fondamenti della
conoscenza, oggi la scuola è incaricata anche della formazione
fisica, mentale e sociale del bambino”. Ai nostri giorni, in
aggiunta a tutto ciò, la scuola ha il compito ancora più
radicale di risvegliare il senso di orgoglio razziale ed etnico
nelle minoranze non emancipate, alle spese dell’educazione di
base, che è quella che in realtà sarebbe necessaria. A dire il
vero sono sempre di più, anche fra gli educatori, coloro che
riconoscono che le scuole non possono insegnare qualunque cosa,
a meno che l’importanza dell’apprendimento non venga
incoraggiata a casa. In assenza di una substruttura di famiglie
su cui poggiare, il sistema scolastico continuerà a
deteriorarsi.
La storia dell’educazione offre un’illustrazione particolarmente
efficace di un principio generale, ovvero che la sostituzione
delle associazioni di tipo informale con i sistemi formali di
socializzazione e di controllo indebolisce la fiducia sociale,
fiacca la disponibilità ad assumersi la responsabilità delle
proprie azioni e a considerare gli altri responsabili delle
proprie, distrugge il rispetto per l’autorità e, così, finisce
per produrre effetti perversi. Le associazioni informali che si
è permesso potessero appassire (fatta eccezione per le
situazioni in cui sono state deliberatamente e sistematicamente
distrutte dalle folli fughe in avanti dell’ingegneria sociale)
comprendono non solo la famiglia ma anche il quartiere, che
svolge in maniera molto più efficace rispetto alla scuola il
ruolo di intermediario tra la famiglia e gli orizzonti più vasti
del mondo. Jane Jacobs parla della “normale, casuale manodopera
per crescere i figli” che viene sciupata quando i pianificatori
urbani e altri riformatori animati da buone intenzioni cercano
di togliere i bambini dalle strade per infilarli in parchi,
campi da gioco e scuole in cui possono essere sorvegliati in
modo professionale. La spinta complessiva della politica
liberal, a partire dalla crociata contro il lavoro minorile, si
è indirizzata a trasferire la cura dei bambini dai contesti
informali a istituzioni disegnate specificamente per questo
scopo.
Oggi questa tendenza continua nel movimento per l’assistenza
quotidiana (day care), spesso difeso non in base alla tesi per
cui, semplicemente, le madri lavoratrici ne hanno bisogno ma in
base al fatto che i centri di assistenza quotidiana possono
servirsi delle ultime innovazioni in pedagogia e in psicologia
infantile. Questa politica di segregazione dei bambini in
istituzioni a base generazionale sotto la supervisione di
professionisti si è rivelata un grande fallimento, per le
ragioni suggerite da Jacobs in The Death and Life of Great
American Cities – un attacco alla pianificazione urbana che si
estende all’ingegneria sociale in generale: “Il mito per cui i
campi da gioco e le guardie o i supervisori stipendiati siano a
prescindere positivi per i bambini e che le strade delle città,
piene di gente comune, siano a prescindere negative per i
bambini, finisce per trasformarsi nel disprezzo per la gente
comune”. Nel loro disprezzo generalizzato, i pianificatori
perdono di vista il modo in cui le strade urbane, se funzionano
nel modo in cui dovrebbero, insegnano ai bambini cose che non
possono essere insegnate dagli educatori o da sorveglianti di
professione – che “la gente deve sempre avere un briciolo di
responsabilità nei confronti del prossimo, anche se non abbiamo
alcun legame particolare che ci tiene unito all’altro”. Quando
il droghiere all’angolo o il ferramenta sgridano un bambino
perché corre per la strada, il bambino impara qualcosa che non
può essere appreso semplicemente parlandogliene. Ciò che il
bambino apprende è che adulti legati tra loro esclusivamente
dalla prossimità di quartiere appoggiano determinate regole e si
assumono delle responsabilità nei confronti del vicinato. A
ragione Jacobs definisce questo il “primo fondamento di una
corretta vita cittadina” – un fondamento che “persone
stipendiate per badare ai bambini non possono insegnare poiché
l’essenza di questa responsabilità è che tu la assumi senza
essere pagato per farlo”.
I quartieri stimolano una “fiducia pubblica accidentale”,
secondo Jacobs. Quando mancano, la città deve ricorrere ad
agenzie formali di applicazione della legge. A Los Angeles, una
città che ha voltato le spalle alle sue strade, possiamo
osservare questo modello nella sua forma più sviluppata – la
“militarizzazione della vita civile”, come Mike Davis la
definisce in Città di quarzo. Una forza di polizia espansa a
dismisura, fornita di tecnologia e sempre più della mentalità
propria di uno Stato di polizia, continua a scoprirsi incapace
di assicurare la sicurezza e l’ordine e deve essere coadiuvata
da un esercito di poliziotti privati. Secondo Davis, il settore
privato si specializza nell’opera di manovalanza
nell’applicazione della legge, il settore pubblico nella
sorveglianza dell’area, nelle operazioni paramilitari, nelle
intercettazioni telefoniche e nella cura dei suoi schedari di
criminali. “La Fortezza Los Angeles”, come la chiama Davis, si
sta trasformando in una città di “comunità chiuse, aggregati
sottoposti a stretta sorveglianza e pronti a respingere gli
intrusi al primo accenno di problema”.
Trionfo o collasso del liberalismo?
Los Angeles, il trionfo della contro-urbanizzazione, incarna al
tempo stesso il trionfo e il collasso del liberalismo. Essa
rappresenta letteralmente la fine del percorso, nello stesso
momento l’ultimo rifugio del sogno liberal e l’incubo che è
sempre stato implicito in quel sogno. Il liberalismo ha promesso
progresso, abbondanza, e soprattutto privacy. La libertà di
vivere come ti piace, pensare e praticare la confessione
religiosa che più ti aggrada: in questa liberalizzazione del
buon vivere sta tutto il fascino del liberalismo. Avendo posto
una serie di limiti ben precisi al potere dello Stato, e al
tempo stesso avendo sollevato gli individui da gran parte dei
propri obblighi civici, i liberal hanno pensato di aver rimosso
la maggioranza degli ostacoli al perseguimento della felicità.
Ciò che si sono dimenticati strada facendo è che l’ordine
pubblico non è una mera funzione dello Stato, che può essere
svolta con sicurezza attraverso la responsabilità statale per
l’educazione e l’applicazione della legge, mentre i cittadini si
curano dei loro affari privati.
Una società capace di funzionare correttamente deve essere in
primo luogo in grado di badare a se stessa (self-policing) e, in
buona misura, anche di assicurare autonomamente l’educazione ai
propri princìpi (self-schooling). Le strade delle città, come ci
ricorda Jacobs, mantengono la pace e istruiscono i giovani ai
princìpi della vita civica. I quartieri ricreano molte delle
caratteristiche della vita di paese celebrata dal folklore
americano, anche quando gli americani rifiutano la particolare
socialità dei paesi in favore delle “enclave degli stili di
vita” (life-style enclaves), come le definisce Robert Bellah, in
cui possono stringere legami solo con coloro che condividono i
loro gusti e il loro modo di vedere le cose. I quartieri
forniscono la substruttura informale dell’ordine sociale, in
assenza della quale la gestione della vita quotidiana deve
essere delegata a burocrati di professione.
A Los Angeles, una città progettata coscientemente per
massimizzare la privacy, noi osserviamo come questa
iper-estensione del settore organizzativo sia la necessaria
conseguenza della ritirata dai quartieri. Ma Los Angeles è
un’eccezione solo per l’assoluta pervicacia con cui persegue una
versione profondamente antisociale del sogno americano, e per la
crescita smisurata dei problemi sociali che da ciò derivano. Lo
stesso modello può essere riscontrato in ogni altra città
americana, in cui la polizia, la burocrazia dell’educazione e le
burocrazie della sanità e del welfare combattono una battaglia
persa in partenza contro il crimine, il disagio e l’ignoranza.
La crisi delle finanze pubbliche è l’indicatore più chiaro della
debolezza di uno Stato che non può più contare sui meccanismi
informali quotidiani della fiducia e del controllo sociali. La
rivolta dei contribuenti, sebbene sia in sé caratterizzata da
un’ideologia privatistica aliena a qualsiasi tipo di richiamo
civico, promana anche dal plausibile sospetto che il denaro
delle tasse serva esclusivamente a sostenere l’elefantiasi
burocratica.
Lo Stato è ovviamente sovraccaricato, e nessuno coltiva più
alcuna fiducia nella sua capacità di risolvere i problemi che
andrebbero risolti. Certamente, la disillusione nei confronti
del welfare state non implica in sé l’individuazione di un
qualche altro tipo di soluzione. Ciò potrebbe significare
null’altro che indifferenza, cinismo o rassegnazione. Sebbene
quasi ciascuno di noi ritenga che nel nostro Paese molte cose
non siano andate per il verso giusto, nessuno ha le idee chiare
riguardo a come riparare ai guasti provocati. La qualità sempre
più conflittuale e urlata del dibattito pubblico senza dubbio
riflette questa mancanza di idee e la frustrazione che ne
deriva.
L’agonia del welfare
Quando le istituzioni formali falliscono, la gente dovrà
improvvisare degli stratagemmi per soddisfare le loro necessità
immediate: pattugliare i propri quartieri, togliere i propri
bambini dalle scuole pubbliche per educarli a casa. Così, le
inadempienze dello Stato contribuiranno da parte loro al
ripristino dei meccanismi informali di autotutela. Ma è
difficile vedere come i fondamenti della vita civica possano
essere rigenerati senza che questo compito divenga un obiettivo
prioritario delle politiche pubbliche. Abbiamo sentito parlare
molto della necessità di intervenire sulla nostra infrastruttura
materiale, ma anche la nostra infrastruttura culturale, come
potremmo chiamarla, ha bisogno di attenzione, un’attenzione che
deve andare ben al di là dell’attenzione retorica dei politici
che elogiano i “valori della famiglia” mentre sponsorizzano
politiche economiche che remano contro questi valori. È sia
sciocco che cinico spingere l’opinione pubblica a pensare che
smantellare il welfare state sia sufficiente ad assicurare il
ritorno della cooperazione informale – “i mille punti di luce”.
E' probabile che persone che hanno perso l’abitudine
all’autotutela, che vivono in città e sobborghi in cui i centri
commerciali hanno preso il posto dei quartieri, e che
preferiscono la compagnia degli amici più stretti (o
semplicemente la compagnia della televisione) alla socialità
informale della strada, del localino o dell’osteria, non
decidano di ricreare le comunità solo perché lo Stato si è
dimostrato un loro sostituto insoddisfacente. La gente ha ancora
bisogno di aiuto da parte dello Stato, nella fattispecie di
politiche disegnate per rafforzare la famiglia e per permettere
alle famiglie di esercitare un maggiore controllo sui
professionisti quanto devono dipendere da essi o, almeno, dare
alla famiglie maggiore libertà nella scelta dei professionisti.
Un sistema di buoni-scuola è il genere di riforma che risponde a
questa necessità, e lo stesso principio potrebbe anche essere
applicato ad altri servizi professionali.
La tradizione populista nella politica americana ci offre un
buon esempio di una riforma, il cosiddetto sistema di
subtreasury proposto dagli agricoltori negli anni Ottanta e
Novanta del XIX secolo, pensato per usare le risorse dello Stato
per promuovere l’autotutela collettiva invece di sostituirla con
forme professionistiche di aiuto. I populisti nutrivano nei
confronti della fattoria a conduzione familiare ben più di
un’attenzione retorica. I tempi difficili gli avevano insegnato,
ad ogni modo, che le fattorie a conduzione familiare potevano
sopravvivere solo se gli agricoltori acquisivano il controllo su
acquisti e vendite mediante la cooperazione, e quando le banche
rifiutarono di finanziare le cooperative (preferendo spingere le
cooperative fuori dal mondo degli affari) gli agricoltori si
rivolsero al governo federale. Dal momento che il loro piano di
subtreasury, pensato per aumentare il credito federale alle
cooperative di agricoltori, richiedeva una considerevole
espansione dei poteri statali, insieme ad una corrispondente
diminuzione dei poteri delle banche private, i populisti sono
sempre stati considerati antesignani del welfare state. Ciò che
stavano proponendo, invece, deve essere inquadrato come
un’alternativa al welfare state. Gli agricoltori stavano
chiedendo allo Stato di proteggere l’integrità delle comunità
esposte agli effetti perniciosi del libero mercato. Col senno
del poi, possiamo constatare che se lo Stato avesse investito
sulle comunità, i sistemi di welfare non sarebbero stati
necessari. Sfortunatamente, coloro che controllavano lo Stato
assunsero invece la decisione cruciale di investire nel
“progresso”, e tutti quanti stiamo pagando il prezzo di questa
decisione – anche i benestanti rinchiusi nelle loro enclave
fortificate.
L’analisi populista raggiunge il cuore delle patologie
contemporanee meglio di altre tradizioni politiche, non solo
perché mostra che le risorse dello Stato possono essere
impiegate per promuovere soluzioni non burocratiche ma perché
rappresenta cose in cui la maggior parte degli americani ancora
crede e che sarebbe disposta a difendere. In un’epoca in cui le
altre ideologie vengono considerate con apatia, il populismo
possiede la capacità di generare entusiasmo reale. Gran parte
del successo della “nuova destra” va ascritto alla sua capacità
di rivendicare il populismo come parte della propria tradizione.
In primo luogo sono gli stessi elettori democratici ad essere
attratti dalla “nuova destra”, e potrebbero essere attratti da
una forma più vigorosa e genuinamente ugualitaria di populismo,
poiché questo offre la critica più penetrante dei lati oscuri
della nostra politica. Il populismo sostiene l’importanza della
responsabilità individuale sia nei confronti
dell’irresponsabilità istituzionalizzata nelle burocrazie, in
cui nessuno può essere considerato responsabile per alcunché,
sia nei confronti del culto del vittimismo e della politica dei
diritti acquisiti e delle azioni positive.
I gruppi che rivendicano la riparazione dei torti subiti, che
mostrano le loro ferite, supplicando l’elemosina e scaricando le
colpe di tutti i loro problemi su un sistema di oppressione
organizzata, sono la controparte naturale dei burocrati che
distribuiscono selettivamente la propria munificenza. Queste
forze apparentemente rivali, gli attori principali della nostra
soap opera politica, dipendono gli uni dagli altri, e la loro
relazione simbiotica viene saldata da un’ideologia umanitaria
che inorridisce al solo pensiero di “dare la colpa anche alle
vittime” per la condizione in cui si trovano. L’ideologia
liberal nella sua versione corrente – l’ideologia del
multiculturalismo e della “compassione” – soddisfa al tempo
stesso le necessità dei gruppi che domandano tutela e degli
stessi professionisti della solidarietà. Ciò che sembra
radicale, quasi rivoluzionario, porta invece solo alla creazione
di nuove burocrazie e allo sviluppo di quelle già esistenti.
L’ideologia liberal, inoltre, è una delle cause principali di
quel tipo di indignazione morale fatta apposta per assolvere
ciascuno da responsabilità e colpe, dal momento che
l’ingiustizia può sempre essere ricondotta ad una fonte
impersonale – “il razzismo delle istituzioni” o qualche altro
fattore sistemico. Al contrario, la tradizione populista è
fortemente scettica nei confronti di una politica fondata
sull’indignazione morale e sulla rettitudine fai-da-te. Con
questo non vogliamo affermare che le classi medio basse
tradizionalmente attratte dai movimenti populisti siano esenti
dalle tentazioni dell’invidia e del risentimento. Anzi, è più
probabile che indulgano a queste forme passionali più di altre
classi; ed è proprio per tale ragione che la “disciplina
spirituale contro il risentimento”, per citare una frase di
Reinhold Niebuhr, è stata una delle caratteristiche principali
dei movimenti populisti al loro apice.
Sarebbe stupido negare l’esistenza di altre caratteristiche
peculiari dei movimenti populisti – la xenofobia, il nativismo,
l’anti-intellettualismo, e tutte le altre brutture così spesso
citate dai critici liberal. Ma sarebbe ugualmente stupido negare
ciò che è davvero indispensabile per parlare di una tradizione
populista – il suo apprezzamento per il valore morale del lavoro
onesto, il suo rispetto per la competenza, la sua opposizione di
taglio ugualitario al privilegio ereditario, il suo rifiuto di
farsi abbindolare dal linguaggio esoterico degli esperti, la sua
insistenza sulla semplicità del parlare e sul fatto che le
persone dovevano essere considerate responsabili per le proprie
azioni. Il populismo non offre una panacea per i mali che
affliggono il mondo moderno, e nella sua particolare forma di
populismo agrario è senza dubbio fuori dal tempo. Ma qualsiasi
movimento che offre una speranza reale per il futuro dovrà
trovare gran parte della sua ispirazione morale nel radicalismo
plebeo del passato e, più in generale, nella condanna del
progresso, della produzione su larga scala, e nella burocrazia
che è stata allevata da una lunga catena di moralisti le cui
intuizioni hanno preso forma in base alla visione del mondo dei
produttivisti.
5 dicembre 2003
(traduzione di Angelo Mellone. Da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)
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