Libri. Il cuore dell’America si racconta
di Carlo Roma

Voci dall’America profonda. Voci che sussurrano, sognano, sperano, inveiscono oppure vivono di rimpianti. Parlanti che, da ogni stato, da ogni città o paese, raccontano a cuore aperto storie bizzarre, recuperano fili spezzati di esistenze lontane e dimenticate. Con semplicità e senza troppe velleità narrative, affidano all’ascolto di un vastissimo uditorio le piccole verità e le loro recriminazioni. Svelano la loro identità, offrendosi al giudizio degli altri, ma anche – e soprattutto – chiedendo comprensione umana e vicinanza. I tanti che raccontano una parte di sé, e che poi la fanno circolare attraverso le vie della comunicazione, desiderano - forse inconsapevolmente, richiamati dalle luci della ribalta - soltanto un po’ di notorietà. Non esitano a mettere in scena eventi talvolta inenarrabili, frutto di esperienze quotidiane vissute sulla pelle ma, in molti casi, prive di valore. Non esitano, a maggior ragione, a descrivere scelte determinanti capaci di cambiare il volto di stagioni intere. 

Ed ecco, allora, che i mille fantasmi che agitano l’immaginario collettivo americano emergono qua e là, spinti dai ricordi di una vita intera e dalla volontà di tramandare frammenti personali fino a proiettarli nel futuro comune dell’intera nazione. La guerra in Vietnam, con la sofferenza che continua a trascinarsi di padre in figlio ad oltre venticinque anni dalla sua infausta conclusione, costituisce, ad esempio, uno degli argomenti più dibattuti. Si trasforma, in realtà, in un lento e difficile processo di purificazione collettiva. Moltissimi veterani ripercorrono le tappe salienti della loro permanenza sul fronte pescando sensazioni mai espresse e rivendicando il diritto di essere ascoltati e creduti almeno per una volta. Non mancano gli sconfitti, gli uomini sui quali la tragedia del conflitto ha lasciato i segni più evidenti e terribili. Un reduce, recluso per omicidio in un carcere sperduto del Midwest, parla in modo confuso dei motivi che lo hanno spinto ad uccidere. Prima di concludere afferma: “Non ho mai preteso di essere perfetto, ma sono vero”. C’è spazio, poi, per l’epopea dei deboli. La ricerca di un benessere a lungo agognato eppure sempre vago e all’orizzonte, portata avanti da famiglie e generazioni, condiziona il corso di vicende ai margini della società, solcate come sono dalla delusione e dalla sofferenza.

“Le cose cominciarono a mettersi male per noi nell’estate del 1930. Fu allora che mio padre rifiutò di lasciarsi diminuire lo stipendio e finì con il perdere il posto.” Inizia così l’odissea americana di una donna oramai anziana di Prescott in Arizona. Il suo itinerario è contrassegnato dalla strenua volontà di resistere alle avversità e di affrancarsi dalle circostanze ingenerose dalle quali non vuole lasciarsi schiacciare. La sua storia – come quella dei tanti che affidano la loro testimonianza all’ascolto della collettività - nata proprio durante la Grande Depressione, si intreccia e si confonde con la storia difficile, tenace e volenterosa degli Stati Uniti d’America. Questo sembra essere , insomma, il dato che con più effetto richiama l’attenzione sulla rete di racconti e narrazioni che via via si accumulano. 

Da dove proviene questo flusso indistinto di emozioni che ha inondato l’America? Ed ancora, da dove è nato e come si è sviluppato? Nel 1999 l’emittente Npr chiese a Paul Auster di curare, con regolarità, una trasmissione radiofonica fornendo il materiale narrativo per costruire brevi romanzi da leggere di volta in volta agli ascoltatori. La sua controproposta fu invece diversa: a redigere le storie dovevano essere gli americani colti nella loro immediatezza e genuinità. Terminato il ciclo radiofonico, lo scrittore ha selezionato un centinaio di manoscritti fra gli oltre quattromila pervenuti, raccogliendoli infine nel libro “Ho pensato che mio padre fosse Dio”. Nell’introduzione dichiara: “Se dovessi definire queste pagine, le chiamerei dispacci telegrafici, cronache dal fronte dell’esperienza personale. Riguardano gli universi privati dei singoli americani, eppure vi compare in continuazione l’inevitabile marchio della storia”. Gli episodi esposti, dunque, non sono mai perfetti, ma sono sempre autentici senza ambire a raggiungere le alte vette di uno stile aulico. Rappresentano, però, in presa diretta, l’anima inquieta di una grande democrazia che si forma e definisce attraverso il contributo, spesso determinante, di tutti i suoi cittadini. Ciascuno ha qualcosa da raccontare e può ben dire: sì, anch’io, nel mio piccolo, ho fatto l’America.

24 ottobre 2003

crlrm72@hotmail.com

Paul Auster, Ho pensato che mio padre fosse Dio, Einaudi, pp. 270, € 15.
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