Quando i cattolici facevano cultura
di Vittorio Mathieu

La storia culturale della Prima Repubblica non consiste solo nell’affermarsi progressivo ed esclusivo del gramscismo: contro l’egemonia marxista e illuminista-azionista ci fu per lo meno una “resistenza”, e vale la pena ricordarla, perché qualche insegnamento se ne lascia trarre anche per una situazione così diversa come quella di oggi. Si tratta di resistere, non più a Gramsci o a Lenin, ma pur sempre al giacobinismo. Non penso alla sola cultura “postfascista” del Borghese di eredità longanesiana: questa era una piacevole riserva intellettuale per i “vinti”: vivaci ma forse impossibilitati a esercitare fino in fondo un determinante influsso esterno. Penso, invece, al partito di maggioranza che non fu sempre così sordo come si crede alla necessità di una cultura non allineata. Sembrava bensì che la Dc dicesse agli azionisti e ai marxisti: “noi gestiremo le nostre banche, voi gestite pure le vostre case editrici”. Fino all’irrompere del terzo incomodo socialista con l’apertura a sinistra, effettivamente la tendenza fu quella (ma non esclusiva). La casa editrice Laterza, ad esempio, a un certo punto era in difficoltà: sembrava che la si potesse acquistare per un tozzo di pane, ma non si fece nulla per evitare che scivolasse a sinistra fino ai comunisti (per liberarsene poi con fatica più tardi). 

L’Einaudi – che, pure, aveva esordito applicando alle Memorie di Metternich la fascetta editoriale: “l’uomo che conservò all’Europa trent’anni di pace” – a un certo punto divenne addirittura l’occasione per elaborare un diritto innovativo in materia fallimentare. Se questa tendenza finì col prevalere, non tutta la classe dominante la subì con rassegnazione: vi furono tentativi di darsi istituzioni culturali autonome; e perfino istituzioni cattoliche di sinistra riuscirono a non farsi agganciare al treno marxista. Non si dimentichi che Augusto Del Noce maturò e produsse presso la biblioteca di Dossetti a Bologna; fin quando un gruppo di suoi estimatori non diede incarico a due colleghi più giovani di lui (Pareyson ed io) di metterlo in cattedra. La Chiesa stessa, mentre proclamava la “fine dell’età costantiniana” faceva di tutto per appoggiarsi al comunismo come a un nuovo Costantino: e tuttavia, non vi furono soltanto singoli studiosi (compresi ecclesiastici e cardinali) a rifiutare di schierarsi. Qui mi limiterò alla vicenda di due istituzioni culturali (una preesistente, l’altra creata ad hoc) dedite ad una cultura d’eccellenza sicuramente non marxista: l’Enciclopedia Treccani e l’Istituto Accademico di Roma.

Pranzavamo al sacco nella camera di un alberghetto in rue du Cherchemidi (durante una sessione della Conferenza generale dell’Unesco) quando Vincenzo Cappelletti ci annunziò che la sera stessa doveva partire per Roma: il giorno dopo si nominava il direttore generale dell’Enciclopedia Italiana; e lui non voleva commettere l’errore rimproverato dal Machiavelli a Cesare Borgia, di essersi disinteressato del conclave. Cappelletti venne vide e vinse, essendo presidente Aldo Ferrabino. Lo proteggeva un cardinale a cui (da laureato in medicina oltre che in filosofia) aveva consigliato un rimedio che lo guarì da un disturbo che altri medici non avevano saputo curare. Non era estraneo, dunque, alle anticamere vaticane, al punto che Manuela Grassi, su Panorama del 12-6-’97 lo disse “di certo più simile a un alto prelato che a un manager” (p. 71). In realtà il giovane era qualcosa di più singolare: alla qualità di studioso e di alto prelato associava quella di abile manager. La sua cultura storico-scientifica era indiscussa. Me ne parlò per primo Ludovico Geymonat, che non misurava con un metro politico la sua stima per gli studiosi. Io avevo già letto di Cappelletti Entelechia, un “saggio su alcune dottrine biologiche del sec XIX” (Sansoni, 1965), quando lui venne da me per organizzare a Venezia una serie di convegni su concetti epistemologici interdisciplinari (qualità, simmetria, individuo: volumi poi usciti presso il Mulino). Se ne occupava la commissione italiana per l’Unesco, ma l’idea era di Giorgio de Santillana, che portò ai colleghi il contributo del Mit. Dopo il matrimonio del figlio con una veneziana, Venezia era al centro dei suoi interessi e, del resto, bastava da sola ad attirare i migliori studiosi di ogni continente.

La gestione Cappelletti all’Enciclopedia fu enormemente discussa: da molti per un preconcetto ideologico, da qualcuno anche per invidia. Era una gestione personale ma non personalistica, “paterna” ma non paternalistica. Non era né ideologica né idealistica, bensì sempre con un occhio al bilancio e un altro alla cultura. Insomma, non ho remore a parlare per l’Enciclopedia di un’“era Cappelletti” come si parla di un’ “era Gentile”, anche se l’opera di un prosecutore non può avere la stessa importanza che quella del fondatore (entrambi, si badi, direttori generali, non presidenti). Le due gestioni hanno in comune la mancanza di faziosità: da un lato, segno di nobiltà dello spirito, ma dall’altro anche di buona amministrazione, perché gli esclusivismi non giovano al bilancio. L’Enciclopedia di Gentile, di impronta “clerico-fascista”, accoglieva, come si sa, tra i suoi collaboratori antifascisti notori; e l’Enciclopedia di Cappelletti, attenta a non lasciar cadere i valori culturali cristiani, accoglieva collaboratori di qualsiasi estrazione: ad esempio un Tullio Gregory, che ne era (e ne è tuttora) una colonna. Con i potentati politici è ovvio che occorresse scendere a qualche compromesso: ma nessuno vi entrò a dettar legge. Al più qualche protetto otteneva un posto sicuro; ma di solito accadeva che si impegnasse non meno degli altri.

Vincenzo Cappelletti e l’eredità di Gentile

In tutta l’età Cappelletti la vecchia grande Enciclopedia Treccani rappresentò per il bilancio una posta importante, anzi la principale. Per veste e per contenuto essa non ha eguali nella storia, e ancor oggi può essere acquistata come un monumento, a scopo non solo ornamentale. Non si poteva, però, vivere sempre di rendita. Aggiornamenti continui erano necessari, specialmente in campo scientifico: ma si sa che le appendici sono la zavorra delle enciclopedie. Consultarle è un supplizio, a meno che al termine di ciascuna ci sia un indice generale di tutte. Occorrevano iniziative nuove, e qui le riassumo per sommi capi. L’Enciclopedia del Novecento, di struttura monografica, ricorda la Britannica originaria. La “piccola Treccani” fa concorrenza all’eccellente Rizzoli-Larousse, molto sbilanciata verso la cultura francese. Il Vocabolario Italiano, diretto da Aldo Duro con criteri moderni e rigorosi diede luogo a rimostranze dei sottoscrittori per i suoi ritardi, ma in fine uscì come doveva, meritando al suo direttore il dono simbolico di un orologio. Una Enciclopedia della fisica, e più tardi della biologia, erano più che mai necessarie, ma avrebbero richiesto aggiornamenti continui. Destinata a diventare un monumento imperituro era l’Enciclopedia dell’arte medievale, diretta dalla compianta Romanini. 

Un difetto di marketing finora non l’ha premiata quanto meriterebbe. Più facile mettere in cantiere raccolte monotematiche come la celebre Enciclopedia Dantesca, poi l’Oraziana, la Virgiliana, ecc. Porre al centro dell’interesse città come Venezia e Milano (perché non Genova?) era utile, a patto di non darne una semplice storia. La costituzione di Venezia, in particolare, è un tema così importante da meritare una monografia a sé. Nel Settecento qualcuno pensava che, grazie a una siffatta costituzione, la Repubblica non sarebbe mai caduta: ma venne Napoleone, e il giacobinismo si insinuò sotto le ali del cesarismo. Quanto a Roma, avrei voluto un’enciclopedia su “Soggiorni romani di artisti e letterati stranieri dal Cinquecento ad oggi”, ma non mi riuscì. 

Sul terreno del bilancio fu predisposta la battaglia per far finire l’era Cappelletti. Nel bilancio di un editore di grandi opere molte poste si prestano a qualsiasi interpretazione. Si pensi ai contributi scientifici già pagati, per opere che non si sa se usciranno. O ad opere già pubblicate, che non si sa se si venderanno. L’Istituto dell’Enciclopedia Italiana era (ed è) da un lato una casa editrice, dall’altro un’istituzione pubblica per la cultura. Sotto il secondo aspetto riceveva piccoli contributi; sotto il primo versava cento volte di più in imposte allo Stato. Questa doppia veste creava difficoltà. Nessun editore commerciale, ad esempio, pubblicherebbe il Dizionario biografico degli italiani: era ragionevole, però, interromperlo alla lettera G, come se nessun italiano degno di essere ricordato fosse nato con un nome che cominciava con L? Il bilancio dello scandalo, peraltro, non fu più presentato da Cappelletti: gli era subentrato un altro Direttore generale, proveniente dal Poligrafico dello Stato, Giuseppe Di Lella. Esperto di contabilità lasciava tuttavia a Cappelletti gli interessi per la cultura. La gestione Cappelletti, fondata sul buon senso e sull’aiuto di persone pratiche di buona volontà, ma senza titoli particolari, appariva strana per un’azienda di medie dimensioni. Benché preferibili ad affitti esosi, gli investimenti immobiliari apparivano estranei allo statuto. E perfino i lavori di restauro al mirabile palazzo Mattei furono oggetto di censura. 

Il consuntivo del 1996, nonostante l’incremento delle vendite, denunciava una perdita di 21 miliardi. Ma 20 erano dovuti alla svalutazione del magazzino. Le ragioni più su accennate spiegano il cambiamento di criterio. Mario Sarcinelli, presidente a quel tempo della Bnl e vicepresidente della Treccani, guidò la rivolta in nome di una rigorosa amministrazione. Per il momento si decise di sospendere il Dizionario biografico e l’Enciclopedia archeologica. Subito dopo, però, la presidente Levi Montalcini (sollecitata, pare, dallo stesso Scalfaro) e alcuni consiglieri fecero marcia indietro, chiedendo un ripensamento. Sarcinelli diede le dimissioni. Anzi, dichiarò che la Bnl avrebbe messo in vendita la propria quota (10%). A fine maggio ci fu una riunione tempestosa e tutto fu rinviato al 18 giugno. La prospettiva era di ridurre le voci anziché sopprimere le opere: ma immaginatevi un direttore che ha già ricevuto voci da eminenti specialisti e deve, o tagliarle lui, o farle rifare. Era una situazione tipica in cui le previsioni pessimistiche producevano esse stesse il danno che prevedevano. Ma di questo non mi occupo più: l’era Cappelletti era ormai finita, anche se lo studioso lascerà l’Enciclopedia solo nell’aprile 2002, avendo conservato un ufficio bellissimo accanto a quello del presidente e una segreteria, col proposito di difendere la dignità scientifica dell’impresa. 

Di essa si interessò anche Marcello Dell’Utri, con un intervista al Giornale del 7 giugno 1997; ma presto si convinse che era impossibile “salvare la Treccani”: nonostante le modifiche allo statuto, la proprietà era riservata ad azionisti con capitale almeno in prevalenza pubblico, in queste condizioni nessuno poteva divenirne il padrone. Neppure i comunisti, che ci provarono. Con la presidenza Levi Montalcini l’egemonia era passata al centro-sinistra (Panorama del 12 giugno 1997), ma senza quell’impronta unitaria che aveva dato all’impresa lo strano efficientismo dell’ “alto prelato”.

E qualcuno riformò la vecchia Accademia d’Italia

L’altro esempio che porterò, l’Istituto Accademico di Roma, suonerà ai più sconosciuto. Eppure l’impresa era epica: riformare l’Accademia d’Italia. Si costituì con atto notarile in Campidoglio il 30 ottobre 1964, per iniziativa di Pietro Campilli, che ne fu presidente per un decennio. Si chiamò dapprima Centro Italiano di Arte e Cultura, poi cambiò nome, ma sempre con attenzione a mettere in chiaro che non si trattava di una fondazione, essendo la sua finalità aperta: “contribuire allo sviluppo della vita culturale in Italia”. Ciò significava due cose: facilitare anche economicamente il libero lavoro di alcune personalità eminenti e mettere “un patrimonio ideale e morale a disposizione di tutti i componenti la comunità” (Statuto, art. 2).

Saggia la separazione dei compiti: l’amministrazione a un Comitato direttivo, formato dai rappresentanti dei sottoscrittori; la programmazione culturale ad un Consiglio accademico, lautamente remunerato. I nomi dei suoi membri davano lustro all’istituzione, e il loro numero ristretto (11, portati poi a 15) dava lustro a ciascuno di loro. Basti l’elenco originario (1966): Eugenio Montale, Carlo Carrà (pittore), Carlo Cassola, Sergio Cotta, Diego Fabbri, Marino Marini (scultore), Giuseppe Moruzzi, Pier Luigi Nervi, Ildebrando Pizzetti, Carlo Bo, Vincenzo Caglioti (chimico). Segretario generale era Elémire Zolla, che diverrà accademico nel 1969. Seguirono il fisico Gilberto Bernardini, Vittore Branca, Augusto Del Noce, Rosario Romeo ed io (1971). Un maligno dirà: che entrassi io era già un segno di decadenza. Farò presente però una circostanza, solo in apparenza materiale: per pochi anni ricevetti in contanti l’equivalente del permanente in ferrovia, di cui fruivano allora gli accademici lincei, al pari dei senatori e dei deputati. Era una sorta di pensione accademica arcaicizzante, che gli operatori della cultura (adottiamo il terminne sindacale) sentivano come un segno di distinzione.

Penso sia ormai chiaro che alla tavola dell’Istituto Accademico Gramsci era solo il convitato di pietra, evocato di tanto in tanto da Del Noce. E tutto questo grazie ad una classe di politici democristiani, da Campilli a Vanoni, a Petrilli, a Gonella, a Golzio, a Rodinò, a Vittorino Veronese, tutt’altro che insensibile alla necessità di una cultura non allineata a sinistra e non organica. Più tardi tentò qualcosa per conto suo perfino Flaminio Piccoli. Questa iniziativa trovò nella classe imprenditoriale una rispondenza, che poi si affievolì progressivamente. I soci fondatori dovevano versare un fondo di 10 milioni e una quota annuale di 2 milioni. Ne erano previsti 60, arrivarono presto a 30, ma poi la tendenza fu ad annullare la partecipazione, o almeno a non rimettere la quota in bilancio. L’inflazione fece il resto. Sarebbe lungo elencare anche solo le principali imprese che contribuirono, a cominciare dalla Fiat: banchieri come Antigono Donati e Stammati; editori come Mondadori e Rizzoli; enti come la Rai e la Società Autori ed Editori. L’intenzione era di acquistare con 600 milioni villa Doria Pamphili e di restaurarla. Non si arrivò a tanto, ma furono affittati per parecchi anni ambienti sontuosi di palazzo Torlonia in via Bocca di Leone. Poi emigrammo, aumentammo di numero, continuammo a collaborare, ma meno alacremente. Cotta e Cappelletti ottennero la collaborazione di personalità e l’aiuto di qualche mecenate, ma il progetto grandioso di Pietro Campilli non fu più ripreso.

24 ottobre 2003

(da ideazione 4-2003, luglio-agosto)
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