La democrazia ha bisogno di leader
di Angelo Crespi

Da qualche anno, specie dopo l’inizio della cosiddetta Seconda Repubblica, (ma nessuna Costituzione per ora l’ha sancita) si discute sulla questione della leadership . Il bipolarismo, esaltato dal maggioritario, ha contribuito a far crescere il dibattito intorno alla figura chiave del leader , e la stessa recente scena politica ha visto decadere il ruolo dei partiti e aumentare contestualmente l’importanza delle figure carismatiche e la personalizzazione delle cariche istituzionali e di governo. L’ipotesi (fortemente contrastata) di avviarsi, anche in Italia, verso una sorta di presidenzialismo non fa che confermare quanto sia necessaria una ridefinizione della questione.

Gli esempi di Churchill e De Gaulle

La critica più agguerrita contro l’introduzione del “governo di uno” ha gioco nel ricordare come il Novecento sia stato il secolo delle dittature. Come le dittature siano state responsabili della morte di decine di milioni di uomini, se si sommano i lutti del nazismo e del comunismo a quelli di regimi meno sanguinari ma ugualmente nefasti. Inoltre, una fin troppo facile propaganda democraticista impedisce ogni ripensamento e, anzi, utilizza questa apparente simmetria, tra “governo di uno” e dittatura, per screditare esempi positivi di moderne democrazie monocratiche o, per meglio dire, di moderne monocrazie. Eppure, a ben guardare, il Novecento è stato anche il secolo di grandi capi carismatici che, nel momento della crisi, hanno saputo incarnare la speranza delle proprie nazioni. Nazioni che nessuno oserebbe definire non democratiche. Si pensi a Winston Churchill o a Charles de Gaulle la cui biografia politica, curata da Gaetano Quagliariello e anticipata a pagina 2, ne esalta l’importanza storica.

Il saggio di Luciano Cavalli, Il leader e il dittatore (Ideazione editrice, pp.324, e16,00) viene in soccorso al tema, risolvendo il dilemma tra democrazia “con” e “senza” leader . Una sana lezione di “realismo politico” che lo studioso a lungo titolare della cattedra di sociologia presso la facoltà “C. Alfieri” di Firenze, conduce con rigore e onestà, mostrando i pregi della prima e i limiti della seconda. Innanzitutto, una premessa metodologica che regge il lavoro di Cavalli. Nonostante la tentazione tipica della politologia italiana di contrapporre in modo assoluto “monocrazia” e “democrazia” – in ragione dell’esperienza drammatica del fascismo e della seguente imperante demagogia antifascista – i due termini “alludono ad aspetti diversi del buon reggimento politico. Democrazia alla facoltà effettiva di scelta e controllo dei governanti; monocrazia al modo di strutturare il potere dello Stato per meglio servire la causa di un popolo politicamente organizzato”.

Monocrazia, dunque, intesa come governo di un singolo, nella sua specificazione di “monocrazia elettiva” ove risulti frutto di libere elezioni. E in questo senso, acquista una rilevanza fondamentale il ruolo del leader , eletto e giudicato dal popolo, controllato da altre istituzioni indipendenti, in opposizione al dittatore e al despota il cui potere, nella versione moderna e novecentesca, sebbene contraddistinto spesso dal carisma, risiede sempre in un atto iniziale di usurpazione. E in questo senso, acquista rilevanza anche il concetto di leadership come capacità del leader di farsi seguire senza imposizioni dai propri “follower”, facendo leva sul carisma e instaurando un rapporto di fiducia con loro.

I vantaggi del governo di uno

Insomma, per Cavalli la democrazia con leader appare «come sviluppo dialettico della democrazia “moderna”; realizzazione più compiuta e aderente a interessi essenziali dello Stato e del cittadino. La democrazia totalitaria, invece ne costituisce, rottura e negazione». Mentre la democrazia senza leader ne sarebbe una diminutio , poiché incapace di raccogliere le sfide nei momenti di crisi, come può essere quello odierno in cui tensioni globali e anti-global si confrontano, in cui la ridefinizione degli Stati e degli Imperi suscita malessere. I vantaggi del “governo di uno” in chiave democratica, della leadership personale sono facilmente intuibili. La storia insegna che “una sola persona al comando possa assicurare coerenza, tempestività, efficacia a tutta l’azione di governo, e con una lungimiranza tipicamente estranea alla democrazia parlamentare multipartitica, poliarchica. Che appare come il luogo della non-decisione politica, per la diversità degli uomini, delle opinioni e degli interessi che contano. Fenomeno esasperato dal sistema elettorale proporzionale e del suo esito naturale: maggioranze parlamentari e governi di coalizione. Nella tipica democrazia senza leader , il sistema politico sta dunque in bilico fra la discussione che non sbocca mai nella decisione e il compromesso fra partiti per definizione portatori di interessi particolari (ed eventualmente estranei al bene pubblico)”.

e’ appena il caso di sottolineare come le devianze totalitarie nascano sempre, come è accaduto nel secolo scorso, dalla crisi di democrazie deboli senza leader e mai dall’involuzione di monocrazie con leadership democratica. Ma questo accenno, che Cavalli, da buon realista, sviluppa in modo esaustivo, depotenzia anche l’apologetica democraticistica sul ruolo dei partiti. Proprio nella democrazia senza leader i centri decisionali, cioè i partiti, o meglio le oligarchie che controllano i partiti, sono esterni allo Stato e agiscono nella sfera privata, facendosi portatori di interessi particolari spesso in contrasto con i valori e le ispirazioni naturali e profonde della nazione. Viene così svilita la dignità e la rappresentanza del cittadino, si degrada ogni funzione pubblica e con essa viene meno anche un’etica pubblica.

Nel governo dei partiti, contrariamente a quanto propagandano gli intellettuali organici, il “voto non comporta un’opzione veramente libera perché i candidati sono scelti dai partiti, né vi è un’autentica verifica elettorale dopo il mandato; il partito “conferma” in base a sue convenienze. [...] Inoltre, il dialogo politico del comune elettore con i rappresentanti è quasi nullo (di fatto) in quel regime - mancano le occasioni e anche le sedi, che non siano quelle offerte dal singolo parlamentare per il clientelismo minuto, o dai partiti per le clientele organizzate”. In soldoni, giusto nel regime dei partiti il cittadino non è il motore delle decisioni, bensì il suddito impotente. La stessa classe dirigente, poi, subisce un deterioramento, poiché essa viene allevata dai partiti per scopi di automantenimento e consolidamento, e non per affrontare i problemi del governo di uno Stato.

Ovviamente, la visione politica di Luciano Cavalli non è neutra. La fiducia nel leader come figura in grado di realizzare al massimo grado la democrazia, di accogliere le aspirazioni del popolo, di far progredire lo Stato, fondandolo o rifondandolo, di operare veramente per il bene comune, di varare realmente le riforme necessarie, risiede in una visione del mondo ben determinata. Il realismo politico in chiave radicale (più semplicemente realismo radicale) – che trova fondamento nella tradizione che va da Machiavelli a Weber – si fonda infatti su una visione pessimistica della natura umana, intende l’esistenza come lotta per la vita, sia che si faccia riferimento al singolo individuo che allo Stato. E proprio lo Stato “nel suo sviluppo storico è portatore degli interessi di sopravvivenza in senso non soltanto primordiale, ma anche latamente culturale – cioè di tutti i beni (dalla lingua all’ethos) di un popolo. Perciò lo Stato diventa esso stesso un valore, e, a ben guardare, il massimo bene”.

Realisti contro egalitaristi


In questa prospettiva, dice Cavalli, il realista è convinto pure della fondamentale ineguaglianza degli uomini per caratteristiche native e acquisite. L’ordine interno a un gruppo, per effetto del caso o della fortuna, si struttura dunque gerarchicamente. E in ogni caso, il conflitto resta sempre latente e costituisce un fattore determinante di mutamento sociale. E in tal senso, anche la politica si configura sempre come lotta per il potere, attraverso l’uso della forza e dell’astuzia. Dall’altra parte, avversa al realismo, c’è un’idea forse utopica di mondo che ha le sue radici nell’illuminismo. “L’idea-valore di base è appunto quella dell’uguaglianza, accompagnata dalla fede nella ragione (come dote universale) e nel progresso”. Politicamente, esalta il ruolo dell’Onu, immagina la scomparsa degli Stati, preconizza un futuro di fratellanza e pace. Ma per un realista, chiosa Cavalli, i genocidi, i feroci totalitarismi, le stragi di massa, sono ancora troppo recenti per poter abbandonare il principio di un sano realismo e affidarsi all’utopia. Resta da dire, che il modello egalitarista oggi vincente almeno in Europa – dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale e grazie a un successivo periodo di pace relativamente lungo – ha determinato lo sfaldamento dei centri di costruzione delle élite di governo. Soprattutto il criterio dell’uguaglianza “rifiuta la ricerca dell’eccellenza, rifiuta ogni riconoscimento di superiorità e, quindi, ogni spazio istituzionale alle élite” che invece oggi, di fronte ai nuovi problemi sociali, politici, economici potrebbero assumere quella necessaria azione innovatrice, tipica dei grandi leader del passato.

10 ottobre 2003

(da Il Domenicale del 27 settembre 2003)

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