Robert E. Lee, generale e filosofo
di Richard M. Weaver

Dacché la guerra civile ha assunto il ruolo di un’ Iliade americana, si è fatta sempre più largo una tendenza alla stereotipizzazione dei suoi eroi. Parole d’encomio e di biasimo cominciano a farsi ricorrenti, e una singola virtù usurpa il diritto di personificare un certo individuo. Nel corso di questi sviluppi, Robert E. Lee è stato dipinto forse troppo esclusivamente come un soldato e un pater familias. Queste carriere erano, l’una e l’altra, d’importanza centrale nella sua vita, ma esse non esauriscono l’uomo. Lee ha superato alcune situazioni estremamente difficili, che l’avrebbero sopraffatto se egli non fosse stato, oltre che un guerriero e un patrizio, una mente.

E' facile capire perché la sua figura si sia prestata a quest’usuale stereotipizzazione. E’ naturale vedere in lui in primo luogo il genio militare, o il soldato cristiano, o il carismatico leader di una causa persa. Sotto l’influenza di queste raffigurazioni, tuttavia, si è stati tentati di dipingerlo come una mera incarnazione, in qualche modo passiva, della cultura della sua regione. Egli può esser fatto passare come una naturale espressione della società patriarcale virginiana e, proprio in quanto espressione “naturale”, né creativa né meditata. Tuttavia, se Lee fosse rimasto soltanto il prodotto del tipo di educazione che aveva ricevuto, non sarebbe stato in grado di svettare sul suo mondo. Si deve sospettare che il certo non lusinghiero ritratto del figlio di Lee ad Harvard, fatto da Henry Adams nella sua autobiografia, sia stato ritorto contro il padre per approfondire quest’impressione. Adams ha dipinto il giovane “Roony” Lee come poco più di un ricco animale. "Era oltremodo semplice", scrive il critico nordista, "nessuno lo conosceva abbastanza per sapere quanto fosse stupido". La decrizione continua, per concludere che "propriamente, il sudista non aveva cervello: aveva solo temperamento". 

Adams era pungente, e i suoi pregiudizi non erano del genere provinciale. Gli riconoscerei il merito per alcune, autentiche intuizioni in certe parti di questo quadretto. Tuttavia, io sosterrò che, quale sia stato il caso del figlio, il padre aveva doti intellettuali tali da raggiungere una certa saggezza. Freeman, nella sua imponente biografia, insiste che la nota fondamentale del carattere di Lee era la semplicità, ma questo non è del tutto incompatibile con la grandezza della mente. Al contrario, sono le due cose assieme, unite a produrre la symmetria prisca, l’orgogliosa simmetria della personalità, che lo rese illustre. Lee sembra infatti esser stato capace di riflettere in profondità su quelle problematiche che attirarono la sua attenzione, nonostante la sua reticenza, in parte professionale in parte di temperamento, ci lasci davvero poco da analizzare. Egli ci arriva, come gli antichi Ionii arrivano ai moderni storici della filosofia, in “frammenti”.

Se prendiamo in esame Lee anzitutto per quel che attiene l’arte nella quale egli eccelleva, vi troviamo una comprensione, curiosamente spassionata, non solo della tecnica della guerra, ma anche del posto della guerra nella vita dell’uomo civile. Anche Napoleone era un filosofo della battaglia, ma le sue parole sono deturpate dal suo cinismo. Le parole di Lee hanno sempre quella buona qualità che è l’affermazione. Saliamo col generale le alture sopra e ascoltiamo dalla sua voce una delle osservazioni più acute mai fatte. È contenuta in un breve commento, all’apparenza così innocente, eppure così fastidioso, espresso come egli posò lo sguardo sulla messe di trucidati, quel giorno di dicembre. "È un bene che questo sia così terribile, altrimenti cresceremmo amandolo".

Che significa? E’ un’affermazione più ricca di significato di un detto delfico. Qui abbiamo un’acuta confessione della storica ambivalenza della razza umana verso l’istituzione della guerra, il suo disgusto morale contro quell’immensa forza distruttiva, accompagnato da una certa fascinazione per "il più grande dei giochi". Finché la gente tollera e ama l’idea del dominio dell’uomo sull’uomo, ci saranno coloro che adorano questo gioco. E’ inutile dire, come molti fanno oggigiorno, che tutti gli uomini vogliono la pace. Gli uomini vogliono la pace per parte del tempo, e per parte del tempo vogliono la guerra. O, se possiamo passare al singolo individuo, parte di lui vuole la pace e un’altra parte vuole la guerra, ed è dalla soluzione di questo conflitto interiore che le nostre prospettive per la pace generale dipendono, come così saggiamente MacArthur osservò sul ponte della Missouri. 

I cliché del pensiero moderno hanno virtualmente oscurato questo luogo comune della psicologia umana, e i programmi volti alla pace mondiale prendono atto d’ogni cosa ma non di questo tragico difetto, proprio dell’uomo per come è in natura – la tentazione di fare appello alla superiorità fisica. Non c’è struttura politica che dei farabutti non possano sconfiggere, e che sottili analisi della psiche possano provare di maggior vantaggio che i progetti per un Parlamento mondiale. In contrasto con le formule vuote dei propagandisti, quanto detto da Lee suggerisce la concreta saggezza di una parabola.

Sandburg ha sottolineato che Lee, a dispetto della sua pietà cristiana, amava una buona battaglia. In questo, credo abbia ragione, ma credo altresì che si possa mettere in dubbio che Lee l’amasse più di come qualsiasi altro uomo ama una gara eccitante nella quale sa di poter eccellere. Per Lee, come per Washington prima di lui, il sibilo delle pallottole era una musica, alla quale l’uomo per come è in natura rispondeva. Tuttavia Lee, al sommo delle sue fortune militari, riconosceva sì l’attrattiva di un sanguinoso arbitraggio, ma al contempo ne coglieva le implicazioni morali. Venendo da un uomo che dispensò egli stesso potenti attacchi in guerra, l’osservazione è di per sé un trionfo d’imparzialità. Ancora più importante, Lee sembra aver compreso che è possibile per la civiltà contenere la guerra, o sopravvivere anche in presenza della guerra, se l’autocontrollo non viene perso del tutto. 

Per molte persone l’espressione “guerra civilizzata” è anomala, ma in realtà non è così – se non per una guerra che si ponga obiettivi illimitati. Più profonde sono le fondamenta di una civiltà, e più la guerra sembra essere formalizzata o addirittura ritualizzata, e il fallimento del mantenerla all’interno di stretti limiti è un segno del precedente indebolimento della civiltà stessa. Questo spiega perché Lee abbia sempre operato con una certa cautela che, hanno detto alcuni, gli impedì di agguantare il massimo successo possibile sui campi di battaglia. C’è un grande incoraggiamento etico in questa consapevolezza. Per Lee, come per altri pensatori rigorosi, la pietra di paragone della condotta è il modo in cui uno esercita il suo potere sugli altri. Quanto la modernità abbia reso tutte le restrizioni di questo genere nient’altro che una pittoresca delusione, è qualcosa che ancora deve essere, spaventosamente, dimostrato.

Se è dunque una forma di cecità pensare che l’uomo sia fatto per la guerra, potrebbe essere un altro genere di cecità credere che egli possa rimanere indifferente al dramma del conflitto. E così, se il nostro mondo di pace potrà mai vedere la luce del giorno, sarà probabilmente dopo che avremo trovato qualcosa tipo l’ "equivalente morale della guerra" di William James. Coloro che sono alla ricerca di tale surrogato potrebbero cominciare bene le loro riflessioni con il testo di Lee, che sembra dosare nelle giuste proporzioni realismo e moralismo. Studiando le opinioni di Lee sugli eventi dei rabbiosi anni Sessanta, è evidente che egli comprese le inclinazioni della mentalità della massa in guerra come solo i più esperti manipolatori della moderna propaganda, anche se la sua conoscenza di esse proruppe in un diverso corso d’azione. Egli sapeva che la mente di un popolo in guerra è psicopatica, che è soggetta a isteria e allucinazione, che spesso esso non riesce più a distinguere il giusto dall’ingiusto o addirittura l’amico dal nemico, che può giungere a preferire la vendetta alla sopravvivenza. 

Molto spesso, nella sua corrispondenza degli anni 1865-1870, ricorre l’esortazione alla pazienza e al silenzio. Le due fazioni non hanno aspettato il cessare delle ostilità per inaugurare la tenzone polemica. I generali hanno pubblicato le proprie rivendicazioni; i politici hanno messo fretta alle rotative, per dimostrare che le loro azioni erano state in accordo alla Costituzione; pubblicisti d’ogni risma hanno discusso gli stili di vita del Nord e del Sud. In mezzo a questo trambusto, Lee, nonostante fosse costantemente importunato, non disse mai nulla. Egli espresse il desiderio di scrivere una storia delle campagne in Virginia, ma non se ne fece niente, e Gamaliel ha probabilmente ragione nel sostenere che egli indietreggiò di fronte a un tale compito. I diversi tentativi di coinvolgerlo in una conversazione sulle sue battaglie erano puntualmente respinti dicendo: "Non mi piace ripensare a quegli anni". Evidentemente, Lee aveva compreso che l’unica speranza di una riconciliazione stava in un riaffiorante senso della giustizia, e che il ripristino di un tale senso della giustizia sarebbe stato soltanto impedito da ogni protesta e controversia.

"In questo momento, la mente del pubblico non è ancora pronta per ricevere la verità", scrisse a Jubal Early9 nel 1866. Quest’affermazione rappresenta una sua solida convizione, che egli ribadì in numerose occasioni. Come l’osservazione lasciata cadere a Fredericksburg, essa diventa tanto più problematica quanto più a lungo ci si riflette su. Senz’altro nega il principio che la voce del popolo sia sempre la voce di Dio. Invece dichiara che la mente di un popolo, proprio come quella di un individuo, può essere così ottenebrata dall’ira da non poter più recepire alcuna realtà. Siccome questa mentalità psicopatica non può interpretare alcunché oggettivamente, non vuole ascoltare la ragione e può, addirittura, essere offesa da una qualche proposta in proporzione alla sua ragionevolezza. Un popolo deve essere in uno stato di grazia per ascoltare la verità, il che è ancora più vero quando essa arriva come una rimostranza. E’ forse il più meraviglioso trionfo di Lee e la miglior prova del suo equilibrio, ch’egli fosse capace di stare al di fuori della passione popolare e di predirne la fine. L’ondata di sentimenti ha un suo corso da seguire, e i sillogismi offerti dal vincitore o dal perdente servono solo a far lievitare il rancore prevalente. "Non puoi discutere con la non-ragione: la puoi solo descrivere", ha detto Santayana, e questo pensiero dev’essere stato a monte della scelta di Lee di non dire nulla finché la ragione non avesse avuto una possibilità di ritornare a esercitare la sua influenza su entrambe le fazioni.

Non si può davvero scansare una certa curiosità riguardo quale fosse l’opinione di Lee sulla guerra come strumento di politica nazionale. Siccome egli era un uomo di riflessioni profonde, deve essersi soffermato delle volte sulla sua generale efficacia. Su questo problema, il mondo di oggi sembra essersi diviso in due scuole, l’una che asserisce che una guerra sistemi ogni cosa, e l’altra che non sistemi nulla. Lee appare esser stato meno dogmatico degli uni e degli altri. Certamente non era un Hotspur, che s’affrettava a trasformare l’ultima ratio in prima ratio. Lo prova una lettera che scrisse a sua sorella nell’aprile del 1861: "Adesso siamo in uno stato di guerra che non ci porterà nulla... io non riconosco alcuna necessità per questo stato di cose e vorrei averlo evitato e aver supplicato fino alla fine per la riparazione dei torti". Verso il tramonto della sua vita, inoltre, egli cominciò a fare i conti apertamente con le limitazioni della professione del soldato. Dai giorni in cui era stato cadetto, la guerra era stata lo studio cui s’era applicato; non aveva interessi che fossero in competizione con essa; né le sue letture lo condussero molto lontano da essa. Eppure egli non aveva sviluppato la mentalità isolata di un mero professionista delle armi. 

Durante la sua presidenza del Washington College egli fece notare al professor Humphreys che il grande errore della sua vita era stato d’intraprendere studi militari. In un’altra occasione egli dichiarò che l’addrestamento militare non prepara gli uomini per gli impieghi della vita civile, un’opinione che dovrebbe essere soppesata da quanti ne propongono il valore educativo. "Non fu per caso", scrive Freeman dei giorni di Lee a Lexington, "che egli non riuscì a tener il passo del sovrintendente del Virginia Military Institute quando i due camminavano insieme a capo della colonna di cadetti". Ci si può ben chiedere quanti uomini coronati d’alloro, come lui , abbiano contestato gli stessi mezzi con i quali si erano guadagnati la loro fama e tentato d’indirizzare i giovani verso altri percorsi. La tendenza a vedere una cosa nelle sue relazioni morali, di disciplinare l’impulso egoistico, e di subordinarsi a un ideale comunitario di condotta è evidente nella citazione di Lee, spesso ricordata, “dovere” è la più sublime parola della lingua. 

E’ sostanzialmente sicuro che egli non intese, con “dovere”, riferirsi all’angusto significato militare della parola, significato nel quale una missione viene accettata e portata a termine. La sua concezione del dovere sembra invece assai più vicina al celebrato imperativo categorico, quel senso d’obbligazione ad agire come ognuno vorrebbe che il suo prossimo agisse, al di là dell’amore per l’ordine. Il dovere è ciò che Lee, sulla base di un’esperienza abbastanza ampia degli uomini e delle cose, intese essere la virtù della redenzione. Oggi possiamo vedere quanto sarebbe stato risparmiato al mondo se l’umanità avesse fatto suo questo precetto. 

Non vorrei dipingere Lee come un profeta, ma come un uomo che seppe avvicinarsi a sufficienza a delle verità eterne, così da pronunciare profezie, ogni tanto, quando parlava. Era cresciuto secondo la vecchia scuola che riconduce la responsabilità all’individuo, e non a qualche astratta agenzia sociale. L’umanitarismo sentimentale manifestamente non parla la lingua del dovere, ma quella dell’indulgenza. La nozione secondo la quale gli obblighi sarebbero tirannie, e che i desideri, non i meriti, dovrebbero essere la misura di ciò cui uno ha diritto, ha dimostrato al giorno d’oggi il suo potere distruttivo. Abbiamo finito per ignorare l’inesorabile verità che i diritti devono essere guadagnati. Interpretato compiutamente, il “dovere” di cui parla Lee è il mezzo attraverso il quale la libertà si preserva riconoscendo la responsabilità. L’uomo, quindi, si perfeziona attraverso la disciplina, e al cuore della disciplina c’è il sacrificio. Quando una giovane madre portò a Lee un neonato per avere la sua benedizione e le fu detto, "gli insegni che deve sacrificarsi", la donna stava ricevendo forse la più profonda riflessione della sua vita.

L’idea del dovere si ricollega a quella qualità che più di ogni altra conferisce a Lee un’antica grandezza, la sua umiltà. Egli credeva all’esistenza di un ordine delle cose. Che questo ordine è provvidenziale nel senso che la saggezza mortale non può essere paragonata all’infinita saggezza. Questa verità, tuttavia, non trasmette nessun fatalismo o determinismo: l’individuo non è esentato dall’esercitare la sua volontà nel mondo e dal tentare di influenzare il corso delle cose d’accordo con il lume della sua razionalità. L’uomo non può tirarsi indietro: deve riflettere e scommettere, e sostenerne le conseguenze. Assumere che il suo lume sia sempre sufficiente è orgoglio. L’educazione è disciplina e l’educazione dura tutta la vita; ecco, abbiamo l’affermazione di Lee che l’educazione di un uomo non è mai completa sino alla sua morte. 

Se si ha rispetto per l’ordine delle cose, è quindi possibile accettare il fallimento come un ammaestramento anziché come un totale disconiscimento di quanto s’è fatto. Io non vedo come possa essere spiegata la serenità di Lee nel momento della crisi, e il suo autocontrollo nei giorni nell’angoscia, se non in virtù di questa sua certezza, che è poi la risposta del cristianesimo ai paradossi dell’esistenza. Avvicinandoci al momento in cui la sua educazione ebbe fine, siamo ansiosi di sapere se, sulle ampie questioni di questa vita, egli stesse coi pessimisti oppure con gli ottimisti. Questo è senz’altro un porre la questione nei termini più semplici; ma l’umanità ha una visione precisa del problema; essa non eleggerà a suoi grandi maestri coloro che disperano della condizione umana. Li leggerà per il suo piacere, ne farà uso come un correttivo, ma non li avrà cari come i suoi oracoli definitivi. L’umanità preferisce Aristotele a Diogene e Agostino a Schopenhauer. Non vuole sentirsi dire, per quanto in modo brillante, che la vita sia una storia raccontata da un’idiota; essa vuole una indubbia, anche se limitata, indicazione di vita.

Anche da questo punto di vista potremmo dire che Lee è filosoficamente solido. A dispetto del suo fallimento in quello che era stato il grande sforzo della sua carriera, e nonostante un tramonto di cinque anni durante i quali, così parve a Stephen Vincent Benét, "egli deve aver vissuto con amarezza", egli tuttavia non diede segno di scoramento. Il suo viso, ci vien raccontato, assumeva un’aria di ferma tristezza, ma egli non lasciò mai che quel sentimento prendesse il controllo. Qualsiasi dottrina Lee conoscesse era derivata dal cristianesimo, grazie al quale sappiamo che Dio ogni tanto conferisce agli uomini il compito di combattere e fallire in una giusta causa. Pochi giorni dopo Appomattox, Lee fece presente al generale Pendleton di non aver mai avuto grandi speranze per l’indipendenza del Sud senza qualche genere di aiuto straniero. "Ma tali considerazioni davvero non hanno mai fatto la differenza, nel mio caso. Noi avevamo, e mi bastava, sacri princìpi da preservare e diritti da difendere, per i quali era nostro dovere fare del nostro meglio, anche morire nel tentativo di render loro giustizia". 

Tutto questo idealismo può sembrare stravagante. Ma Lee è sopravvissuto nella mente nazionale come un eroe nella sconfitta: e non avrebbe potuto essere così, se nella sua stessa filosofia non ci fosse stato posto per il fallimento terreno. Guardando allo spaventoso naufragio del suo Paese e allo smarrimento dei suoi compatrioti che non potevano immaginare futuro, egli avrebbe detto, con parole che sembrano scandagliare la profondità del destino dell’uomo: "L’umana virtù dev’essere pari alle disgrazie umane". In alto i cuori! Uno storico contemporaneo ha dichiarato che solo Lincoln, fra gli americani del Diciannovesimo secolo, seppe avere una visione tragica della vita. Coloro che hanno familiarità con il secondo discorso inaugurale, quel documento stranamente inquieto, ora remoto, ora prossimo e intenso, ora risoluto, ora di nuovo esitante nel confronto col problema del male, conoscono il retroterra di una simile affermazione. "Le preghiere di entrambi non avrebbero potuto trovare risposta – quella di nessuno è stata completamente esaudita". 

Dio nei suoi misteriosi percorsi "dà sia al Nord sia al Sud questa terribile guerra". Anche Lincoln abiurò il diritto al giudizio finale. Per lui la pratica soluzione umana era invocare lo spirito curativo della carità. Nel secondo discorso inaugurale, così come nel discorso di Gettysburg, il pensiero di fondo è quello della redenzione. La splendida affermazione di Lee ci porta a chiederci se egli non condividesse la stessa visione. Nell’uno e nell’altro lo spirito di fazione sembra accidentale più che essenziale. E questa forse è la spiegazione per cui questi due uomini, che si somigliano così poco per quel che attiene la loro storia e il cammino della loro vita, sono stati accettati come i più degni rappresentanti delle due parti contendenti. Quando andiamo a leggere il testamento di Lee, scopriamo una professione di fede che per coraggio e speranza spirituale merita di stare a fianco ai più nobili dei pronunciamenti. Per che cosa l’abbia composta, non lo sappiamo. Essa venne trovata fra le sue carte e resa pubblica per la prima volta nel 1887 dal colonnello Charles Marshall in occasione di una cerimonia:

La mia esperienza degli uomini non mi ha portato né a pensarne il peggio, né mi ha impedito di servirli; né, a dispetto dei fallimenti, che rimpiango, degli errori, che oggi io vedo e riconosco, o del presente stato delle cose, io dispero del futuro. La marcia della provvidenza è così lenta, e i nostri desideri tanto impazienti, il lavoro del progresso è così immenso, e i nostri mezzi di facilitarlo così deboli, la vita dell’umanità è così lunga, e quella dell’individuo tanto breve, che noi spesso vediamo soltanto il riflusso dell’onda che si avanza, e siamo dunque scoraggiati. È la storia che ci insegna a sperare. 

E’ un raro distillato di saggezza. Se Lee fosse stato un membro di quell’archetipa Repubblica immaginata da un grande filosofo, con i suoi vari ordini di valore e saggezza, non è probabile che egli sarebbe stato promosso di un grado? Sarebbe stato elevato, da guerriero, a filosofo re.

26 settembre 2003

(traduzione e adattamento di Margherita Paglia. 
da Ideazione 3-2003, maggio-giugno)
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