La tradizione della libertà
di Alberto Mingardi

Professore di inglese all’Università di Chicago, autore che ha esercitato un’influenza maiuscola sulle diverse tradizioni di pensiero che abitano la rive droite americana, Richard M. Weaver (1910-1963) è completamente sconosciuto in Italia. L’unico suo scritto sinora tradotto nella nostra lingua era stato un breve saggio del 1958, su Individualismo e modernità. E solo ora, col testo che Ideazione propone – un ritratto del generale Robert E. Lee – il pensiero e l’opera di Weaver si affacciano nel dibattito culturale italiano. Pensiamo, infatti, che il Weaver pensatore politico possa risultare ricco di spunti al lettore nostrano: soprattutto in un momento storico come l’attuale, nel quale si guarda con molta attenzione all’America, più consapevoli del ruolo centrale che essa ricopre anche nella produzione d’idee. Se questo è vero per tutte quelle correnti di pensiero che potremmo ricondurre, con una buona dose di semplificazione, alla “sinistra” politica (specialmente quando se ne stempera la coloritura marxista), è ancor più vero per intellettuali e proposte che si pongono, pur senza troppa omogeneità gli uni con le altre, in contrapposizione alla teoria e alla prassi della socialdemocrazia. 

Weaver rappresenta una casella importante nel domino della “non sinistra” americana: un domino variegato, diviso com’è tra conservatori d’impianto “tradizionalista” (una filosofia suscitata in qualche modo a sua immagine da Russell Kirk), “neo-conservatori” che si propongono in buona sostanza di ridipingere in tinta destrorsa l’edificio concettuale del welfare state e libertari che privilegiano invece fino in fondo i valori della libertà individuale. Queste diverse anime si sono trovate storicamente a vivere con grande tensione una coabitazione non sempre possibile: la ricerca di un equilibrio, di una sintesi, fra posizioni spesso inconciliabili è stata ed è difficile. Ecco, anche questa realtà segna l’eccezionalità di Richard Weaver, che è pensatore capace di parlare sia ai conservatori d’impianto “tradizionalista” sia ai libertari: due culture fra le quali egli cercò di gettare un ponte, in prima persona. 

Una sintesi tra tradizionalismo e libertarismo

Conservatore, dunque, Weaver, ma d’un conservatorismo atipico. Per comprendere le ragioni e l’impatto di questa eccezionalità è il caso di accennare brevemente a un dibattito che ebbe risonanza a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Le posizioni dei “tradizionalisti” andavano delineandosi proprio allora, e l’intera destra americana viveva il problema di ridisegnare i propri contorni – alla luce degli eventi della seconda guerra mondiale come pure dell’ormai evidente divisione del mondo in due blocchi contrapposti. Fra le figure più attive in quest’ambito, c’era senz’altro Frank S. Meyer, ex trotzkista, fra gli animatori della National Review (la rivista che più d’ogni altra seppe raccontare il fermento della destra americana, contribuendo però ad archiviare il capitolo dell’isolazionismo anti-statalista). 

Meyer si ritrova impegnato in un interessante quanto sfortunato esperimento: l’elaborazione di un “fusionismo”, teoria che vorrebbe porsi a metà fra libertari e tradizionalisti, ereditando quel che si ritiene rappresentare il “meglio” dell’una e dell’altra corrente di pensiero. Il “fusionismo” si rivelerà, tuttavia, più un liberalismo annacquato da considerazioni d’ordine prudenziale, che un tradizionalismo temperato dalla fede nell’individuo. Del resto, Meyer si era distaccato dal marxismo leggendo The Road to Serfdom, il pamphlet di Friedrich von Hayek dedicato alla demolizione dei totalitarismi8. Se Meyer era più un giornalista che un teorico, nondimeno la sua contiguità con non poche delle posizione dei libertari gli valse la simpatia del più coerente e lucido fra loro, Murray N. Rothbard. E’ significativo che Rothbard, per districare la matassa delle numerose incoerenze dell’amico Frank alla ricerca della più genuina radice del suo pensiero, faccia riferimento ad una critica indirizzata da questi ai teorici “tradizionalisti” (New Conservative), sul ruolo della ragione nelle cose umane. In tale occasione, Meyer si rifà esplicitamente a Weaver – che va distinto dai tradizionalisti per una “assai maggiore intransigenza nella critica al liberalism collettivista e per una attitudine filosofica radicalmente diversa”. 

A Weaver viene dato atto di “riconoscere un grande valore alla facoltà della ragione”, ed è su questo punto che Meyer conduce la propria battaglia. L’accusa che egli muove ai “new conservative” è di fare della tradizione un feticcio. Di fondare la difesa di un ordine particolarissimo, più che sulle sue qualità intrinseche, sul mero fatto d’esserci. Non la conservazione di qualcosa quanto semmai la conservazione per la conservazione. Ma un sistema d’idee che faccia un punto d’orgoglio del “condannare lo sforzo di giudicare la società attraverso criteri di valutazione teoretici” e anche del “denigrare l’esercizio della ragione in tale sforzo come “speculazione astratta”“, finisce ovviamente in un’inevitabile impasse intellettuale.

Lo aveva in parte sottolineato Weaver stesso, in un articolo su National Review, puntualizzando come il tentativo di “erigere a canone la sapienza dei nostri antenati” non faccia che chiamare alla mente l’interrogativo: “ma quali antenati?”. Weaver in quest’occasione rimarca come i singoli elementi “di valore e verità” all’interno di una tradizione vadano “isolati intellettualmente”: “ma questo è un processo irrispettoso della tradizione nel senso che trascende la tradizione stessa e cerca una più alta guida”. O il passato merita la nostra adorazione per il semplice fatto d’esser passato, scrive Meyer: e dunque la socialdemocrazia posta in essere col New Deal non fa eccezione alla regola. Oppure “ci sono criteri di verità e bene cui quali gli uomini devono modellare il proprio giudizio circa idee e istituzioni”, nel qual caso, è al “lume naturale” della ragione che bisogna far riferimento.

In questo contesto, per combattere quella “paura” di chiari princìpi razionali che è a sua detta caratteristica dei tradizionalisti, Meyer ingaggia una polemica (dai toni forse non sempre condivisibili) contro l’autore che è divenuto in qualche modo emblema del conservatorismo contemporaneo: Edmund Burke. Secondo Meyer, la politica “della prudenza” di Burke è appunto uno strumento del legislatore, un insieme di cautele che dev’essere proprio d’ogni sagace uomo di Stato. Ma che avvelena il dibattito intellettuale, quando diventa stella polare d’un pensiero. Per argomentare le proprie posizioni, Meyer cita Weaver: in precedenza, questi aveva sostenuto che “Burke non va preso come un profeta dai conservatori”. Proprio in quanto egli esibiva una “mortale sfiducia” verso la grammatica del razionalismo (in altra occasione, Weaver si rifarà alle analoghe critiche mosse al Burke controrivoluzionario da Lord Acton). 

Non è il caso di entrare in questa sede nell’annoso dibattito sull’interpretazione delle pagine burkeane. Ciò che val la pena di sottolineare è come quella che Meyer combatteva era una battaglia affinché il pensiero conservatore s’orientasse alla difesa della libertà (segnatamente, la libertà negativa: la libertà dallo Stato) piuttosto che di una tradizione secondo la quale “libertà si riduce all’interpretazione di ciò che decreta il fato”. E’, questa, una concezione assai simile all’atteggiamento tipico dei liberali nei confronti della tradizione. Come ha scritto Carlo Lottieri, “il diverso modo con cui i libertari e i conservatori guardano alle tradizioni è proprio da riconoscere nel fatto che i secondi apprezzano per partito preso quanto viene dal passato, mentre i primi si domandano se tutto ciò meriti rispetto, abbia una propria dignità e, infine, goda del libero assenso degli individui”. 

Già Acton aveva sottolineato come “l’essenza della libertà è non credere alla santità del passato”. Sempre Acton, tuttavia, ha affermato sicuro che “la libertà era medioevale, l’assolutismo moderno”, l’idea di sottoporre ad uno scrutinio severo le eredità della storia non è dunque una maschera dell’adorazione del progresso per il progresso. “Il liberale deve chiedersi, prima di tutto, che via dobbiamo prendere, e non semplicemente a che velocità dobbiamo muoverci e fin dove dobbiamo spingerci”, così Hayek nel celebre poscritto a The Constitution of Liberty dedicato a questo tema. La stessa ricerca storica di Acton, tutta tesa alla ricostruzione grandiosa di una storia della libertà, lascia intuire qual è il terreno sul quale sensibilità libertaria e rispetto della tradizione possono incontrarsi. Cioè nell’individuazione di un habitat per la libertà individuale, nell’interpretazione di ciò che ha reso possibile in Occidente la presa di coscienza della centralità della persona. 

E’ un tentativo che vede protagonisti un libertarismo non relativista, ispirato alla salvaguardia dei diritti e del diritto naturali, ed un conservatorismo di princìpi, che ricerchi la difesa non dell’esistente ma di quell’ “ordine naturale”, libero dalle interferenze della politica, che siamo chiamati a realizzare. Richard Weaver si è impegnato apertamente per costruire questo dialogo, spingendosi su posizioni vieppiù libertarie col passar degli anni – nonostante il suo testo più famoso, Ideas Have Consequences, non sia immune da ingenerose ingenuità rispetto al capitalismo del Big Business. È un peccato che la sua morte prematura, ad appena 53 anni, gli abbia impedito di elaborare ulteriormente il proprio pensiero. George Nash sottolinea come egli avesse enfatizzato, negli ultimi anni, la propria difesa del sistema capitalistico, incitando gli americani a “non sentirsi in colpa” né a stare sulla difensiva per quel che attiene le virtù del libero mercato. “Una società fondata sulla libertà d’impresa – affermava – era un prodotto naturale dell’immutabile natura umana”. 

La vicinanza di Weaver nei confronti del movimento libertario è inoltre attestata dal fatto che egli fosse, sin dal primo numero (aprile 1961) uno dei tre “editorial advisor” della New Individualist Review, periodico studentesco animato a Chicago da alcuni giovani studiosi, maturati perlopiù presso il “Committee on Social Thought” dove allora insegnava Hayek. I tre “editorial advisors”, tutti in cattedra in quella università, erano appunto Hayek, Weaver e Milton Friedman. Un altro indizio che lascia propendere per la tesi che Weaver fosse un “conservatore libertario” è l’ammirazione con la quale parlava di un polemista iconoclasta quale H.L. Mencken come del “più coerente campione della libertà individuale che questo Paese abbia mai conosciuto”. Giudizio di tenore non diverso da quello di Murray Rothbard, ma per certi versi sorprendente in un autore, come Weaver, ammiratore appassionato di quella cultura del Sud degli Stati Uniti che Mencken era ben noto per fustigare, nella sua evoluzione più recente, non senza però una certa ammirazione per ciò che la Confederazione era stata. Né è casuale l’ammirazione per Lord Acton che trabocca da alcune pagine weaveriane: lo storico britannico è letto da Weaver come un critico ante litteram della perversione social-democratica del liberalism americano, e come un autore “di profonde intuizioni e di grande coraggio nell’elaborare giudizi”.

Del resto, partecipando al dibattito su conservatorismo e libertarismo, Weaver esordisce in maniera netta e recisa. “Il tema di questo articolo è la base comune fra conservatorismo e libertarismo – non la possibile base comune dacché io sono convinto che essi, già o naturalmente, condividano lo stesso spazio sull’arco politico”. In quest’occasione, Weaver rigetta l’idea che conservatorismo significhi semplicemente “assenza d’immaginazione” o “timidezza”. Il conservatore è “un realista, che crede nell’esistenza di una struttura della realtà indipendente dalla sua stessa volontà o desiderio”. Tale “struttura” “consiste non meramente del grande mondo fisico ma anche di molte leggi, princìpi e norme che controllano il comportamento umano”.

Il libertarismo viceversa è per Weaver una filosofia più limitata nei propri obiettivi, e “negativa”, nel senso che è tesa alla salvaguardia della “libertà da”, a presidiare attorno all’individuo un’area di “libertà inviolabile”. “Questo suo aspetto “negativo” è la sua vera virtù”. Dove s’incontrano conservatori e libertari? Nella difesa dell’ordine costituzionale americano, d’accordo, ammette Weaver. Ma soprattutto nella consapevolezza che ci sono leggi di natura (parte della struttura della realtà) con le quali non si deve interferire. Un concetto che Weaver riconduce in parte alla “prasseologia” elaborata da Ludwig von Mises e dalla scuola austriaca dell’economia. “La prasseologia, in breve, è la scienza di come le cose funzionano in virtù della loro natura essenziale. Noi lo comprendiamo non consultando i nostri desideri, ma osservando tali cose. Per esempio, io credo che sia una legge prasseologica che chi vende cercherà sempre di guadagnare il più possibile da ciò che vende, e chi compra cercherà di pagare il meno possibile per ciò che deve comprare. Questa è una legge talmente universale che pensiamo ad essa come parte dell’ordine delle cose”. “Il conservatore e il libertario sono d’accordo che non è solo presunzione, ma follia tentare d’interferire col lavoro della prasseologia”. “I miei istinti sono libertari”, arriva ad ammettere poi Weaver, specificando che non si sarebbe mai inserito nella trincea conservatrice se non gli fosse parso che i conservatori ambissero ad essere custodi della libertà individuale. Nella sua produzione più specificamente accademica, Weaver si è occupato di retorica, utilizzando le proprie energie per una attenta rilettura dei classici. 

A monte del proprio percorso politico, d’altra parte, egli colloca il costante riemergere del relativismo, la cui data di nascita fissa agli scritti di Guglielmo da Occam. E’ dunque la sua una difesa degli “universali”, che poi prorompe in un j’accuse alla modernità scettica e positivista. Relegare in un cantuccio la realtà delle cose, a vantaggio della natura volitiva di un potere che si ritiene capace di riforgiare la realtà, è il peccato che Weaver (in questo non certo solo) rimprovera alla contemporaneità. Se è una sorta di “realismo neo-platonico” ad informare due dei suoi lavori più noti, Ideas Have Consequences (1948) e The Ethics of Rhetoric (1953), il Weaver che emerge da Visions of Order (pubblicato postumo, nel 1964) e dalle più recenti raccolte di saggi è un realista cristiano. Profondamente inquietato dal declino del senso religioso, causa e conseguenza assieme dell’imbrunire della nostra civilizzazione. Per Weaver, esiste una “struttura della realtà”, fatta di gerarchie, diritti e obbligazioni, il rispetto della quale genera civiltà e garantisce libertà. E’ questa sua concretezza di realista, fondata su una comprensione benevola ma precisa della natura umana, ad informarne il pensiero nei campi più diversi. In quest’occasione, ci limiteremo ad analizzarne le elaborazioni per quanto attiene i diritti di proprietà, la guerra, e quel bastione di pluralismo e libertà che è, per Weaver, il Sud degli Stati Uniti.

L’ultimo diritto metafisico

La tradizione occidentale è soprattutto la meticolosa costruzione di un insieme di strumenti elaborati al fine di limitare il raggio d’azione del potere. Ciò che è autenticamente peculiare all’Occidente è l’idea di libertà individuale. Questa, tuttavia, si accompagna costantemente con l’unica istituzione che la storia ci insegna ne garantisce il rispetto: la proprietà privata. È da essa che deve partire, sostiene Weaver, il cammino di quanti desiderano ricostruire e fortificare le fondamenta della civiltà occidentale. “Quando ispezioniamo la scena alla ricerca di qualcosa che il rancoroso vento livellatore dell’utilitarismo non è riuscito a travolgere, scopriamo un’istituzione, in qualche modo scossa, ma ancora forte e perfettamente chiara nelle proprie implicazioni. E’ il diritto di proprietà privata, che è, nei fatti, l’ultimo diritto metafisico che ci rimanga”. Weaver sottolinea come “il diritto metafisico della religione sia caduto al tempo della riforma”, ed altri abbiano segnato il passo cammin faccendo. 

In questo contesto, la sopravvivenza del diritto di proprietà potrebbe essere mero accidente, ma “esprime un’idea”. “È la sola cosa che ci è rimasta per illustrare che cosa significhi diritto, indipendentemente da servizio o utilità”. “Diciamo che la proprietà privata è metafisica perché essa non dipende da alcuna prova di utilità sociale. La proprietà resta sull’idea della proprietà del proprio (nell’originale inglese: hisness of his): proprietas, Eigentum, le parole stesse affermano l’identificazione del proprietario con la cosa posseduta”. La proprietà, agli occhi di Weaver, si “giustifica da sé”, senza bisogno di accampare prove circa la propria “funzionalità” al benessere collettivo. La connessione di un uomo con ciò che egli possiede è un diritto che “ha inizio con l’inizio” della vita. Non che egli approvi ogni tipo di proprietà: quando si dedica a una disamina del “grande” capitalismo, corporation e mercati azionari, le conclusioni di Weaver in Ideas Have Consequences lasciano più che perplessi, specie nel momento in cui traccia un improponibile paragone fra le burocrazie statali e la complessa realtà di un’impresa imponente. 

E’ ben vero che, alla luce di quanto è riportato da Nash e delle sue stesse opinioni maturate successivamente a proposito del libertarismo, è legittimo pensare che egli avesse avuto modo di ricredersi. E' interessante, tuttavia, soprattutto ripercorrere quale è in Weaver il cammino della “giustificazione” del diritto di proprietà. Egli parte dalla constatazione che “l’uomo ha un diritto di nascita di responsabilità”, che non può palesarsi, tuttavia, se c’è chi s’intromette nella sua vita facendo uso della coercizione statale, quand’anche con l’obiettivo di accrescere l’utilità sociale o rimediare ai torti inflittici dalla natura. La responsabilità abbisogna di privacy, è la necessità dell’inviolabilità della persona umana. E una sola cinta di mura è rimasta a proteggerla: la proprietà, appunto. Che per Weaver è anche e soprattutto indispensabile sostegno affinché l’uomo possa realizzarsi, esprimere il suo essere. “L’uomo s’identifica con ciò che gli appartiene, così che una separazione forzosa dei due viene a sembrare una breccia nella natura”. Weaver puntualizza come la difesa di questo “diritto metafisico” abbia un’utilità precisa nel disegno politico dei conservatori. La proprietà diventa un “santuario contro lo statalismo pagano”, un rifugio il cui perimetro deve restare inviolabile allo “stato onnipotente”. 

E’ del resto, agli occhi di Weaver, “una consuetudine di lungo corso in Occidente”. E’ sommo merito della proprietà, in quanto fortezza eretta a difesa della persona rispetto al governo, assicurare il dissenso e la libertà di parola. “La proprietà privata non può, a meno che non si faccia ricorso a una considerevole perversione delle leggi vigenti, esser sottratta al dissenziente, e così si pone una barriera alla Gleichschaltung”. Ma “non solo la cittadella della proprietà privata rende l’esistenza di chi protesta fisicamente possibile: essa fornisce anche un’indispensabile opportunità per l’allenamento alla virtù”. Proprio poiché la virtù è un prodotto della libera scelta, essa può esser coltivata soltanto in un contesto di libertà: è nel “regno della proprietà privata” che “a libertà razionale può mettere l’uomo alla prova”; essa si rivela essenziale “in ogni schema che assuma che l’uomo ha facoltà di scegliere fra il meglio e il peggio”. La proprietà è “il giusto teatro” per questo balletto di responsabilità e decisioni. 

A poco valgono le accuse, mosse alla proprietà, di alimentare diseguaglianze: queste ultime sono, per Weaver, un dato naturale, che risulta dalla differenza dei talenti coi quali siamo equipaggiati alla nascita. Tentare di correggere il corso del destino, in questo frangente, è velleitario: se non altro perché “redistribuendo il redistribuibile”, ovvero sia le ricchezze materiali, non si scalfiscono comunque le diseguaglianze alla lunga più rilevanti. Intelligenza, bellezza, furbizia, inventiva: doti che in alcun modo è possibile sottrarre in una qualche misura a chi ne è ricco, per darne a chi ne è sprovvisto. Mentre è vero che “un uomo ha bisogno di qualcosa da chiamare “suo” – ha bisogno di una prospettiva per le sue libere scelte – se deve realizzarsi come persona”. Difendere la proprietà è, allora, tutt’uno col difendere la persona.

Il posto della guerra

Questa coraggiosa presa di posizione a favore della proprietà privata s’accompagna, in Weaver, con una diffidenza profonda nei confronti del Potere politico. In una prospettiva filosofica che è un compendio di universalismo cristiano e di difesa degli aspetti più “locali” e comunitari in senso lato dell’esperienza individuale, la proprietà non poteva che assumere un valore centrale. Simmetricamente, grande nemico, nelle riflessioni weaveriane, è il Potere. Potere che lo studioso americano si sforza saggiamente di riconoscere nella sua pericolosità al di là delle formule di giustificazione che ne vengono avanzate. In una recensione al noto saggio dedicato al tema da Bertrand de Jouvenel, Weaver riconoscerà che il Potere è “una cosa nella cui natura è crescere: e che è cresciuta virtualmente in proporzione al cosiddetto progresso della civilizzazione. I cambiamenti nella terminologia sono serviti soltanto a tenere la gente lontana dall’avvertire questo fatto allarmante e probabilmente fatale. Il più cocciuto fraintendimento dell’epoca moderna è che la sfera della libertà possa essere ampliata trasferendo potere da un gruppo a un altro. Ma questo trasferimento non ha di necessità effetto sul potere, e nella realtà dei fatti ha finito per accrescerlo”. 

E’ evidente, anche da questo breve passo, quanto l’elaborazione teorica di Weaver fosse impenetrabile all’idea, ancor oggi popolare, che in qualche modo l’ampliamento del suffragio avesse portato al “migliore dei mondi possibili”. In uno dei suoi saggi più famosi, l’autobiografico Up from Liberalism, Weaver aveva scritto di come gli paresse ovvio che “è soltanto realismo sottolineare che il concetto di peccato originale, se non antidemocratico, rappresenta almeno una severa limitazione della democrazia. La democrazia trova sempre difficile ammettere che un uomo sbaglia nel momento in cui quello che fa trova l’accordo di ampie maggioranze”. Questo suo atteggiamento nei confronti della mitologia politica più in voga nel mondo contemporaneo adombra anche una spiegazione per la posizione che Weaver adotta nei confronti della guerra. Posizione ch’è intrisa di realismo: Weaver non si pone il problema (come del resto è evidente nello stesso scritto pubblicato su questo numero di Ideazione) dell’eliminazione della guerra dalle vicende umane. “L’idea di una “guerra per porre fine a tutte le guerre” è degna solo di un ciarlatano”. 

Ciò che invece Weaver persegue è il mantenimento dell’istituzione della guerra all’interno di limiti precisi. La guerra pre-moderna, egli nota, per essere “giusta” doveva far propri alcuni criteri: si poneva anzitutto come risposta proporzionale a un attacco subìto, e doveva sforzarsi di risparmiare i civili non coinvolti in combattimento. Non è detto, certo, che queste premesse fossero sempre rispettate – ma non di meno esse andavano a costituire la cornice di un ordine internazionale che, privo delle roboanti declamazioni di pace che conquistarono la scena nel Novecento, poteva non di meno accampare giustificazioni sulla base di criteri di giustizia. L’analisi di Weaver riguardo all’imbarbarimento della prassi della guerra è quella comune a tutto un filone del pensiero conservatore americano. Robert Nisbet, polemizzando con quella frangia dei supporters di Reagan “sostenitori di una politica estera ancora più aggressiva”, ricorda come “in America nel corso del Ventesimo secolo, e nel corso di quattro guerre straniere di una certa importanza, i conservatori sono stati le voci che più fermamente si sono opposte all’inflazione dei budget militari e che hanno enfatizzato l’importanza del libero scambio nel mondo contro il nazionalismo americano. Nelle due guerre mondiali, in Korea, ed in Viet Nam, i leader che hanno condotto in guerra l’America erano ben noti socialdemocratici progressisti quali Woodrow Wilson, Franklin D. Roosevelt, Harry Truman e John F. Kennedy. In tutte e quattro queste circostanze i corservatori... erano in massima parte ostili all’intervento: erano isolazionisti”. 

Le ragioni per questa presa di posizione netta attengono la stessa matrice dell’ideologia conservative: è chiaro, agli occhi di Nisbet come a quelli di Weaver, come il carattere della guerra moderna sia figlio legittimo della Rivoluzione francese. “E’ stata la Rivoluzione... ad istituire per la prima volta nella storia una coscrizione nazionale, la famosa levée en masse. La guerra, all’improvviso, perse quel carattere limitato che aveva avuto nell’età pre-rivoluzionaria, con scopi più o meno finiti – tipicamente dinastici o territoriali –, un ordine di battaglia fisso, e un certo grado di cerimonia post-feudale. Con le armate rivoluzionarie in marcia, la guerra è diventata una crociata per la libertà, l’eguaglianza e la fraternità che inevitabilmente ha portato con sè eserciti sempre più imponenti così come obiettivi sempre di maggior portata, nel Diciannovesimo secolo”. 

Questo fenomeno si è potuto osservare in tutta la sua estensione nei due conflitti mondiali. Ma è interessante notare come a Weaver non sfugga il legame che unisce la guerra di massa alle giustificazioni ideologiche accampate in sua difesa. L’ampliamento del ventaglio degli “scopi della guerra! evidenziato da Nisbet consiste essenzialmente nel passaggio da un dar battaglia inteso essenzialmente come strumento per la risoluzione di dispute dinastico-territoriali, all’apertura delle ostilità come veicolo per “esportare” un sistema di valori (tipicamente, la democrazia), la cui superiorità morale rende “legittimo” il ricorso alle armi. La cartina di tornasole della “legittimità” di un intervento non sta più nelle condizioni particolari in cui esso ha luogo: ma nel tipo di regime politico adottato dalle parti in campo. 

Weaver sottolinea come questo abbia portato a coltivare l’idea che “la colpa del nemico sia assoluta e inqualificabile, e l’unica cosa che conta è metterlo a morte immediatamente”. Ogni mezzo è buono per realizzare l’obiettivo. Ma “quest’idea è contraria a quella di procedura giuridica”: il diritto in fin dei conti è fondato su un presupposto “simile a quello della cavalleria, nel momento in cui esso riconosce che a nessuno – nemmeno ad un “nemico della società” – possano essere completamente negati i suoi diritti”. Oggi nel diritto internazionale spira tutt’altro vento: “l’obiettivo adesso è polverizzare completamente il nemico”. Dedicando al tema della “guerra totale” un capitolo del suo Visions of Order, Weaver elabora forse nel modo più completo le proprie riflessioni sul tema. Si concentra sul fatto che la guerra moderna tende, proprio come il corso stesso della modernità, all’eliminazione delle “discriminazioni”, incluse quelle positive: su tutte, la differenziazione fra combattenti e non-combattenti. Racconta i paradossi della guerra: Winston Churchill, “un discendente del duca di Malborough e da molti punti di vista un giusto portavoce della nobiltà britannica, che dice che nessun estremo di violenza andrebbe considerato troppo grande se serve a raggiungere la vittoria”. 

Franklin D. Roosevelt, il “presunto grande liberal e umanitario”, che sorride mentre “i suoi agenti rovesciano una distruzione inimmaginabile sopra i civili europei e giapponesi”. E’ opportuno notare come Weaver, per nulla un ammiratore di nazismo e fascismo (per molti versi le dottrine più anti-conservatrici cui fosse dato di pensare), fosse passato da una fase di supporto della guerra in Europa a un momento di grande scetticismo. Non tanto per simpatia nei confronti del nemico, ma poiché aveva compreso come le dinamiche con cui l’azione militare alleata veniva condotta fossero in nulla meno terribili dei regimi che si proponevano di rovesciare. 

Egli trovava “terrificante in teoria” e “rovinoso in pratica” il principio che il solo motivo della guerra fosse “vincere e imporre le volontà del vincitore”, prova ne sia il concetto di “resa senza condizioni”, imposto da Roosevelt nella celebre conferenza di Casablanca, che sarebbe andato ad informare la politica degli Alleati nei confronti dei Paesi vinti. Per Weaver, ciò testimonia il fatto che lo spirito della guerra ha prevalso sulla ragione che comanderebbe che alcuni princìpi della fratellanza fra i popoli, così come della cavalleria, rimangano inviolati, quale che sia l’asprezza delle ostilità in cui si è coinvolti. “I mezzi e i fini sono così strettamente correlati che i mezzi finiscono necessariamente per esercitare un’influenza sui fini”. Non è un caso se “la seconda guerra mondiale si è conclusa in una situazione nella quale noi siamo in una “guerra perpetua” per raggiungere una “pace perpetua” distante nel tempo. I mezzi hanno preso totale controllo sui fini”. 

Si può guardare all’alternativa proposta da Weaver a questo stato di cose, la sua idea di “guerra civilizzata”, con lo scetticismo con cui si osservano i sogni troppo antichi per risultare attuale. Tuttavia, è difficile non convenire che “di tutte le molte cose che ci portano ad avvertire che quello spirito indispensabile alla civiltà si è indebolito, nessuna dovrebbe risultare più allarmante della guerra totale”. Il che è vero, in una prospettiva realista, indipendentemente da quale soggetto politico le dia inizio.

Se l’America è morta ad Appomattox

In Visions of Order, Weaver nota che alla “vecchia scuola” della limitazione degli effetti della guerra appartenevano sia il generale sudista Robert E. Lee, sia il generale nordista George B. McClellan. “Entrambi conducevano il tipo di guerra che è disegnata per sconfiggere l’esercito nemico e decidere una contesa sul campo di battaglia”. Un merito che si rivela fatale alla causa della Confederazione, nel momento in cui i nordisti Sheridan e Sherman decidono di dare inizio ad una sistematica “guerra totale” in Virginia, Georgia, e nel Nord e Sud Carolina. In Sheridan e Sherman, Weaver ritrova due “profeti” delle barbarie del ventesimo secolo: e mette, significativamente, nell’elenco Dresda e Montecassino, Hiroshima e Nagasaki. Queste considerazioni weaveriane sono tutto fuorché antipatriottiche: come spiega molto bene Thomas Woods in un articolo ospitato in questo stesso fascicolo di Ideazione, esse sono il riflesso di una fedeltà all’ideale primigenio della nazione americana. Quello che, con lo scoppio della guerra civile, prende forma non nel governo di Washington, ma nella Confederazione. Lo dimostra, tra le altre cose, il commento di un giornale “nordista” (il New York Herald) circa la Costituzione adottata dagli Stati confederati, citato dallo stesso presidente sudista Jefferson Davis. “La nuova costituzione (della Confederazione) è la Costituzione degli Stati Uniti con varie modifiche e alcuni miglioramenti molti importanti e desiderabili” (era il 19 marzo 1861). 

Un autore che per molti versi si sente distante dalla causa confederata, Jeff Hummel, ha sottolineato come il “Leviatano Yankee” sia riuscito a cooptare e trasformare la causa dell’abolizionismo in uno strumento di potere. In un libro fortunato quanto polemico con la storiografia mainstream, Thomas J. Di Lorenzo ha sostenuto che “non era necessaria una guerra per liberare gli schiavi, ma essa era, invece, necessaria per distruggere la più significativa forma di controllo sui poteri del governo centrale: il diritto di secessione”. Nell’introduzione a un recente saggio di John R. Graham, Donald Livingston ricorda come la guerra di Lincoln agli Stati del Sud fosse una chiara “violazione della legge naturale” e di come la conquista degli Stati confederati da parte dei nordisti abbia “costruito uno Stato unitario sul modello di quello rivoluzionario francese che veniva proclamato “uno e indivisibile”“.

La questione della schiavitù appare, quindi, tutto sommato marginale (ancorché terribile) in una controversia che, col senno di poi, pare scoppiata per la più banale e antica delle ragioni: il consolidamento del Potere politico, a spese di una società civile riottosa. La percezione che una parte importante del retaggio di libertà degli Stati Uniti sia rimasta sul campo ad Appomattox, la battaglia conclusiva nella guerra per la conquista del Sud, era propria di Lord Acton, nel momento in cui, in una lettera al generale Lee, scriveva: “Vedo nei diritti degli Stati l’unica forma di controllo possibile dell’assolutismo della volontà sovrana, e la secessione mi ha riempito con la speranza non della distruzione ma della redenzione della democrazia. Le istituzioni della vostra Repubblica non hanno esercitato sul vecchio mondo l’influenza salutare e liberatoria che avrebbero dovuto, a cagione di quei difetti e di quegli abusi di principio che la Costituzione confederata era stata espressamente e saggiamente pensata per rimediare. Io credo che l’esempio di quella grande Riforma avrebbe benedetto tutte le razze dell’umanità stabilendo una vera libertà depurata dagli originari pericoli e disordini delle Repubbliche. Quindi, io credo che voi abbiate combattuto le battaglie della nostra libertà, del nostro progresso, della nostra civiltà; e piango per tutto quel che è andato perso a Richmond assai di più di quanto gioisca per ciò che è stato salvato a Waterloo”. 

A prescindere dalla prospettiva che si adotta, è necessario ammettere che la cosiddetta “guerra civile” ha modificato radicalmente il volto della realtà americana. Un tema, questo, al quale Weaver dedicò la massima attenzione. Non solo perché egli era certo che “la guerra civile americana è stata la prima guerra moderna nella quale il fine è stato assorbito dai mezzi, così che la guerra è diventata una guerra di “tecnici”, con l’abituale indifferenza che i tecnici mostrano verso fini e valori ultimi”, ma soprattutto perché nel carattere, nel temperamento del Sud, egli identificava una tradizione da preservare. Nel suo saggio circa l’esistenza di “due individualismi americani”, Weaver prende a modello positivo l’individualismo “sudista” del virginiano John Randolph di Roanoke: un individualismo basato sui “legami sociali” (social bond individualism). Che “combatte senza sosta per i diritti individuali, ma riconosce che essi devono essere assicurati nel contesto sociale (appropriato)”, nonostante “ogni individualista” sia “un secessionista, per quel che attiene molte cose”. 

La compenetrazione di attenzione ai diritti locali, e fiducia nella libertà individuale, sfugge soltanto al moderno liberal che “ha confuso la libertà con il potere”. Le barriere per arrestare l’anomia sociale, e al tempo per combattere l’espansionismo dello Stato, sono nel pensiero di Weaver le medesime. Egli non abbandonò il proprio amore per il Sud anche nel momento in cui cominciò a distaccarsi, per alcuni versi, dalle posizioni Southern agrarian che avevano caratterizzato i primi sviluppi del suo pensiero. La difesa dell’istituzione della proprietà privata, l’analisi tagliente della guerra moderna (ch’è in primo luogo quella di cui si fanno forti le potenze occidentali), l’affetto nei confronti del “vecchio Sud” non sono soltanto testimonianza di quanto “politicamente scorretto” sia oggi il pensiero di Weaver. Ci ricordano soprattutto l’eredità originaria della Rivoluzione del 1776. E raccontano che, rispetto a quella del Big Government e delle crociate militari, del politicamente corretto e del welfare state, un’altra America è stata ed è possibile. 

26 settembre 2003

(da Ideazione 3-2003, maggio-giugno)

stampa l'articolo