La persona come paradigma dell’essere
intervista a Robert Spaemann di Paulin Sabuy

Nel febbraio del 1998, mentre ero impegnato in uno studio sulla sua antropologia filosofica, mi si è presentata l’occasione di incontrare a Roma Robert Spaemann. La generosa disponibilità di questo filosofo mi sorprese. Per quanto mi fossi preparato delle domande, tuttavia non si trattò di un discorso ininterrotto. Potei intervenire e perfino aggiunsi qualche domanda: volevo che il nostro fosse un vero dialogo, immediato e sincero, vicino alle questioni così come si fanno sentire nella vita. Parlammo così della crisi culturale dell’Africa, della globalizzazione e delle sue sfide, della stanchezza della filosofia imprigionata, secondo la bella espressione di Paul Ricoeur, nell’alternanza del Cogito e dell’anti-Cogito... Fu poi possibile chiarire alcune questioni salienti del suo pensiero: la portata del linguaggio, la finitezza dell’uomo, la percezione dell’essere, l’idea di persona... Naturalmente Robert Spaemann ha riletto questa intervista prima della sua pubblicazione. Eppure non si è cambiato né la sostanza né lo stile.
Paulin Sabuy, Kinshasa, 24 gennaio 2003

Vengo dall’Africa. Il sentimento comune di una crisi, più che evidente, che attraversa il continente, in particolare nella sua parte centrale, dovrebbe aprirci ad una riflessione seria e storicamente fondata sulle sfide della globalizzazione. Una lettura attenta della storia del mondo greco-occidentale mostra come sia sempre l’autocomprensione dell’uomo a costituire il fattore principale di tutte le transizioni storiche. Da qui la necessità di realizzare uno sforzo di riflessione all’interno dei parametri propri alla cultura ricevuta ma per trovare soluzioni che rispondano a problemi reali. L’originalità di queste soluzioni sarà determinata dal fatto che esse rispondono a problemi reali. In tal modo esse esprimeranno del tutto naturalmente la nostra particolare sensibilità, esse tradurranno la nostra autenticità. Ritengo opportuno iniziare la nostra conversazione da queste questioni di ordine generale prima di affrontare i temi specifici dei suoi scritti. 

Spaemann - Per analogia, penso a quanto accaduto nel mio paese mille anni fa. Carlo Magno e i nostri antenati hanno adottato la cultura latina, la cultura romana. Essi non hanno riflettuto sull’inculturazione; essi l’hanno compiuta. Erano tribù germaniche, e questo fu il loro modo di integrarsi in una tradizione preesistente. Sempre più il mondo diveniva anche un mondo germanico. Ma con questa tradizione latina. Essi avevano integrato questa tradizione. Non si può cominciare astrattamente da un punto zero. Questa è la storia. Ed è la stessa logica dell’Incarnazione. Oggi si parla molto di cristianesimo in quanto Incarnazione. L’Incarnazione vuol dire che il Cristo si è incarnato in un certo punto nel mondo, e non importa dove. Non si può sostituire la storia di Israele con la storia degli Indù, ad esempio. All’inizio questa storia era una storia straniera per noi. Noi non abbiamo nulla a che fare con gli ebrei. Ma si è adottata questa storia. Nella corona del nostro imperatore, ad esempio, vi era la figura di Davide, quella di Salomone e infine quella di Cristo in mezzo. E appena al di sopra questa frase: Per me reges regunt. 

Lei dice assai bene che l’eredità, imposta o meno, resta ancorché l’eredità di cui si dispone. I nazisti in Germania si erano proposti una liberazione da ogni determinazione esteriore. Essi volevano anche rigettare il cristianesimo perché per essi non era altro che una forma di giudaismo. Ed anche di tutta la tradizione romana. Ma la Germania non esisteva prima. Vi erano cioè soltanto tribù germaniche. La Germania si è formata grazie al cristianesimo. Non si può sfuggire alla storia. Lei l’ha detto assai bene. Occorre piuttosto porsi delle questioni concrete: che cosa occorre fare oggi? Quale problema dobbiamo affrontare? Non è possibile astrattamente pensare di rifare la storia, ricominciare da un punto zero; è impossibile. 

Sabuy - Quali sono le sfide maggiori che pone all’etica il “processo di globalizzazione” su scala planetaria, a cui oggi si assiste? 

A tal proposito, io mi sforzo di comprendere ciò che accade. Perché non abbiamo assolutamente altro esempio nella storia. Se globalizzazione significa annichilimento di tutte le differenze particolari allora essa potrebbe significare la fine dell’uomo in quanto essere culturale. D’altra parte proprio questo corrisponde al progetto perseguito da Marx. Occorre, egli diceva, creare un uomo nuovo che non sia né ebreo, né pagano, né europeo né africano, ma semplicemente un uomo. Qualcosa che non esiste. E’ possibile che nell’arco di 500 anni il mondo divenga una umanità senza differenze, una razza comune… Non lo si può prevedere. Ma per il momento, credo che il nostro problema consista nel conservare il contributo che ciascuna cultura, ciascuna tradizione, ha fornito all’umanità intesa come una famiglia di popoli. Non una famiglia di uomini astratti. Per quanto riguarda la natura, Marx pensava all’uomo naturale, spogliato di tutte le tradizioni che non sono naturali. E' quanto già sostenne Rousseau. 

“L’homme naturel” è l’uomo senza tradizione, senza cultura e anche senza lingua, perché la lingua è sempre una lingua specifica. Lei sa che io penso invece, con Aristotele, che l’appartenenza ad una polis faccia parte della natura dell’uomo. E dunque non dobbiamo mettere da una parte la natura e dall’altra il nomos. Il problema è vecchio quanto la filosofia. Ed è merito di Platone ed Aristotele l’aver compreso che è la natura ad esigere che l’uomo sviluppi un nomos culturale che non deve essere lo stesso per tutti gli uomini. Vi devono essere delle differenze, anche nelle costituzioni politiche. La natura è una meta-regola, non è una regola fatta per rimpiazzare le regole storiche, ma una regola per giudicare le regole specifiche. Ebbene, la globalizzazione è un processo. Nessuno sa a che cosa ci condurrà. Lei non deve chiedermi qualcosa cosa circa l’avvenire perché io penso, con Hegel, che la filosofia si sforzi di comprendere ciò che fino ad ora è accaduto. E’ piuttosto nell’arte della letteratura che si sviluppa una certa sensibilità del nuovo. Mentre i filosofi possono contribuire all’intuizione dell’avvenire solamente offrendo una migliore comprensione di ciò che è avvenuto fino ad oggi. Dunque non posso rispondere in modo esauriente alla sua prima domanda. 

A suo parere vi sono per la nostra epoca delle linee di ricerca filosofica che devono essere considerate come prioritarie? 

Ecco una questione cruciale. Ciascuno trova che quello che egli fa sia la cosa più importante, perché altrimenti non la farebbe. Dunque Lei può leggere ciò che ho scritto e trovarvi la risposta… Io credo che il nostro problema, il problema della nostra civiltà consista in una dialettica di naturalismo e spiritualismo. Da una parte si concepisce il mondo, tutte le cose, compresi gli uomini, come oggetti, oggetti puramente materiali che possono essere manipolati, che possono essere compresi solo come oggetti. Dall’altra vi è l’interiorità: l’esperienza, il sentimento, il pensiero, il modo in cui l’uomo ha di comprendersi in quanto interiorità. Non esiste un modo, nel pensiero moderno, di integrare queste due prospettive. Il soggettivismo si trasforma immediatamente in oggettivismo, dal momento che animali o uomini possono essere considerati come dei sistemi materiali di cui si pretende di comprendere assai bene il funzionamento. La prospettiva interiore diventa una pura apparenza; solo la materia è reale. Dunque il materialismo può accordarsi assai bene con il soggettivismo. Ciò che abbiamo perduto a partire da Cartesio è la nozione di vita. 

La vita è interiorità ed esteriorità allo stesso tempo. Già in Platone e poi anche in Plotino, Lei trova sempre questi tre momenti della realtà: essere, vivere e pensare. In Cartesio non trova altro che il pensiero e l’esteriorità; ma non la nozione di vita. Oggi, d’altra parte, a partire da Locke, si definisce la persona come interiorità, quasi si trattasse di un fatto accidentale, vale a dire di un certo modo di comprendere se stessi. E se un uomo non può ancora comprendere se stesso come interiorità o se si tratta di un handicappato mentale viene detto che non è una persona. O anche se egli dorme. Lei conosce il libro di Parfit intitolato Reasons and Persons? Dovrebbe leggerlo. Se ne è discusso molto in Inghilterra e negli Stati Uniti. E' più serio e molto più intelligente di Singer. E’ anche più radicale e molto più interessante. Credo che occorra comprendere bene l’espressione di Aristotele: vivere viventibus esse. L’essere della persona non è inizialmente pensiero ma vita. Se Lei mi domanda che cosa io considero come tema prioritario della ricerca filosofica, direi che in fondo questo tema è la nozione di vita. Questa nozione infatti scompariva tanto nel materialismo quanto nell’idealismo, o meglio nel soggettivismo. Anche per quanto concerne le questioni politiche e sociali, penso che occorra ritrovare una nozione di vita, dal momento che la vita è allo stesso tempo interiorità ed esteriorità. E la persona non è persona se non esteriorità ed interiorità. La nozione di persona esige una pluralità di persone per le quali vi è una esteriorità di questa persona. In Dio vi sono tre Persone. E la nostra nozione di persona ha la sua fonte nella dottrina della Trinità. Si dice talvolta che si tratta di una proiezione della realtà dell’uomo in Dio, vale a dire un antropomorfismo. 

E’ piuttosto l’inverso che è vero. Questa nozione si sviluppata dapprima nel contesto teologico, ed solo in seguito è stata trasferita all’uomo. Penso che si possa sfuggire alla dialettica di naturalismo e spiritualismo soltanto in virtù di una adeguata nozione di vita. Ancora una cosa. Si discute a proposito del “pensiero” del computer. Alcuni dicono che tale cosa il computer non poteva farla prima, ma in seguito si vede che egli arriva a farla. In effetti egli può tutto. Quanto alla sua intelligenza non vi sono limiti. La differenza è che egli non vive, e dunque egli non pensa. Vale a dire pensare è un modo di vivere, una specie di affettività; pensare è un’esperienza. Io sento che penso. E il computer non sente che egli pensa. Questa è la differenza. Essa non si situa sul piano logico. Non si dovrebbe chiamare pensiero un processo che non è vissuto. E’ su questo piano allora che occorre discutere della differenza fra l’uomo e il computer. 

Trovo estremamente interessante quanto Lei dice a proposito dei concetti astratti che diventano puramente dialettici allorché li si sottrae dal loro contesto e non si tiene più conto dei contrari rispettivi nella determinazione del loro contenuto e del loro senso. E’ il caso del concetto di naturale, o ancora del concetto di forma e di atto etc. Potrebbe dire fino a che punto sia lecito trasferire tali concetti in contesti diversi da quelli da cui sono tratti? O ancora quale uso occorre fare dei concetti astratti in modo che essi non perdano la loro referenza specifica? 

Trasferire un concetto in un altro contesto è possibile. Ma è un processo che non passa attraverso una astrazione preliminare. L’analogia non suppone l’univocità, il passaggio attraverso un concetto astratto e univoco. Si tratta di una via diretta: da un contesto ad un contesto analogo. Prendiamo l’esempio di cui ho già parlato. La nozione di persona nella Trinità è stata trasferita nella cristologia. Si è parlato di una persona di due nature allorché nella Trinità vi è una natura in tre Persone. E’ sempre la differenza fra natura e persona. In altri termini la persona non è la propria natura, ma l’essere della persona è di avere-una-propria-natura. 

Dunque vi è una trasposizione, senza passaggio attraverso la riflessione astratta. Il progresso stesso in filosofia si realizza attraverso questo genere di trasposizioni. Esiste nei nostri concetti un fondo di creatività, una potenzialità per comprendere il mondo, che va oltre un certo contesto teorico. Prendiamo un altro esempio. Ne parlo anche nel mio libro Personen. La verità di una proposizione è per un certo verso indipendente dal contesto. Ma questo non significa che noi possiamo formulare delle proposizioni senza alcuna intenzione pratica. Ora la verità di una frase non viene definita da questo contesto. Lei potrebbe inserire la frase in un altro contesto. Altrimenti la proposizione non è vera. La verità di una proposizione significa una certa indipendenza dal contesto. E’ quello che certi esegeti non vogliono comprendere. Se si parla del fatto che la tomba del Cristo era vuota o che Nostro Signore è nato da una Vergine per essi occorre comprendere tutto questo nel contesto in cui si è detto. Beninteso; ma se non si può trasferire una proposizione in un altro contesto, senza che la proposizione perda nondimeno la sua verità, questo vuol dire che essa non è mai stata vera. 

E’ la differenza fra letteratura e storia. Nella letteratura una proposizione deve restare esattamente nel proprio contesto, diversamente essa perde il suo significato. Mentre se io racconto una storia vera, essa è indipendente dal contesto. Per questo il nostro vecchio cancelliere Adenauer diceva: “Non dico mai menzogne per il fatto che la mia memoria non è abbastanza buona”. Altrimenti detto io dovrei sempre, per dire una menzogna, ricordarmi di ciò che ho detto in precedenza. Mentre se io dico la verità non ho bisogno di ricordarmene. 

Qual è il ruolo che devono giocare le certezze personali nella riflessione filosofica?

Sono la fonte e determinano la coesione di ogni riflessione filosofica: la filosofia non è una pratica semplicemente accademica ma essa ha qualcosa a che vedere con l’esistenza dell’uomo. Ogni uomo ha delle convinzioni. La differenza si situa fra gli uomini che ne sono a conoscenza e coloro invece che le ignorano. Nell’epoca moderna i cattolici sono stati spesso i soli a riconoscerlo. Quando in realtà anche gli altri, a loro volta, hanno avuto convinzioni che costituiscono la base della loro vita. Ma essi non hanno riflettuto su questo. Essi mancano di riflessione al riguardo. Qual è il ruolo delle certezze? Di certo senza certezze, non vi è pensiero. Ma queste certezze sono immutabili? Credo che per la riflessione filosofica vi sia una trasformazione, un processo che queste certezze subiscono; esse non restano tali e quali. Per esempio, la certezza dell’altro, dell’esistenza dell’altro, non può venir meno. Non si può essere solipsista in realtà. Nella misura in cui io amo qualcuno, infatti io non posso amare un fantasma. Dunque la convinzione che Lei adesso è qui, è una certezza. Ciò che è curioso è che queste certezze possono perfino ingannare, ma questo non cambia nulla al fatto che io abbia delle certezze. Il cardinal Newman racconta questa storia… 

Il suo libro A Grammar of Assent? è forse il miglior testo sulla filosofia della certezza che io conosca. Egli racconta questa storia: immaginatevi che io m’incammini una sera, scorga qualcuno e pensi che si tratti di un amico. Mi avvicino e realizzo che si tratta di una cima d’albero. Continuo a camminare. Strada facendo, mi dico che non è davvero il mio amico. Newman si domanda: la prima volta credo di essermi ingannato, penso che sia un albero. Poi mi sono ingannato a pensare di essermi ingannato. Perché ora ho la certezza che si tratti del mio amico. Devo allora dubitare di tutto? Devo dire di essermi ingannato per due volte, e dunque occorre rimettere tutto in discussione? Non è impossibile, egli dice; io continuo ad avere la certezza che si tratti veramente del mio amico. Hegel dice pressappoco la stessa cosa nella sua introduzione a La fenomenologia dello spirito. Posso raccontarLe un’altra storia, piuttosto personale. 

Durante la guerra, avevo un amico, avevamo 17 anni, ed egli entrò nell’esercito. In seguito egli raggiunse l’Ungheria ma nessuno non ha mai più saputo nulla di lui, egli non è mai più ritornato. Durante gli anni, io ho sognato che egli sarebbe ritornato. L’ultima volta è stato due anni fa: ho sognato nuovamente che egli era ritornato. Poi nel mio sogno, mi ricordavo di aver già sognato varie volte che egli era ritornato. E dicevo al mio amico: tu sai che io ho sognato già cento volte che tu eri ritornato e tu ora sei veramente qui. Ero veramente sicuro che egli fosse davanti a me.. Poi mi sono risvegliato e ho realizzato che si trattava di nuovo di un sogno. Si può, durante un sogno, essere sicuri riflessivamente che non si tratti di un sogno. Ma si tratta comunque di un sogno. 

In quel momento parlando con lui non avevo assolutamente alcun dubbio circa il fatto che non si trattasse di un sogno. La certezza non soffre del fatto che essa mi abbia ingannato molte volte. Penso che sia una costante antropologica, senza la quale noi non possiamo vivere. Ma vi è una trasformazione della certezza. Vi è un approfondimento. Posso ad esempio riflettere su ciò a cui mira il termine “realtà”. Quanto all’esistenza di Dio, ad esempio, credo che la nostra nozione di Dio possa svilupparsi in modo tale da poter passare per delle fasi che sono pressoché una sorte di ateismo. Perché si possa perdere una certa nozione limitata di Dio. Vi è una credenza che passa per degli stadi in cui la certezza diventa fragile. Ma soltanto per stabilizzarsi alla fine. La filosofia deve rendere riflessive le certezze e non distruggerle, perché dietro alla certezza non vi è nulla. Una riflessione che voglia andare al di là della certezza non porta a nulla. Ma la filosofia può mostrare perché è così ed essa può spiegarlo attraverso una teoria della finitudine. In quanto esseri finiti noi non possiamo ritornare al di qua di noi stessi, non possiamo divenire la nostra propria fonte. Noi possiamo comprendere perché una certezza finita sia il presupposto di tutti i nostri pensieri e questo può ancora essere pensato. Non è pertanto una distruzione della certezza bensì la sua affermazione. 

Mi sembra che nel suo pensiero, se ho ben compreso, l’idea dell’essere come Selbstsein sia una nozione importante, direi addirittura centrale. Ora sappiamo che dopo Heidegger, dopo che egli ha parlato di oblio dell’essere, vi è un certo numero di autori che parlano dell’essere come un al-di-là da ogni oggettività. Anche Lei cita E. Lévinas e vi è modo di citare altri autori. Vorrei sapere che cosa La differenzia da questi altri autori. 

Lévinas parla di un aldilà dell’essere, e io direi che non vi è un aldilà dell’essere ma un aldilà dall’oggettività, come Lei dice. Perché l’essere è l’aldilà. L’essere è sempre l’aldilà del pensiero. Tutto ciò che vedo nell’altro, tutte le mie nozioni dell’altro non sono altro che l’altro per se stesso. In altri termini è veramente al di là di tutto ciò che io comprendo. Dunque l’essere come Selbstsein vuol dire il Selbstsein che non è mai esaurito dalla esteriorità. Lévinas va nella stessa direzione, ma credo che egli non abbia compreso bene la nozione di essere. Per esempio egli non ha compreso bene la nozione di essere di san Tommaso. Poiché l’essere è l’al-di-là; non vi è un al di là dell’essere. O prenda Michel Henry, per il quale l’essenza di Dio è la vita e non l’essere. Ma la vita per Aristotele e per S. Tommaso è il paradigma per eccellenza dell’essere. Quanto ad Heidegger, egli stesso ha compreso successivamente che in Sein und Zeit vi era una certa contraddizione. Egli voleva qui offrire una fenomenologia dell’essere, cosa impossibile perché l’essere non è un fenomeno. E questo lo stesso Heidegger l’ha compreso ; egli ha compreso che Sein und Zeit è ancora una sorta di filosofia trascendentale che suppone un soggetto per il quale vi sono dei fenomeni. In Sein und Zeit Heidegger tentava di spiegare l’essere descrivendo l’essere dell’uomo come l’essere che pone la questione dell’essere. Dunque egli fa una fenomenologia della questione dell’essere ma non una fenomenologia dell’essere, dunque una fenomenologia delle nozioni umane. 

E’ quanto egli stesso ha poi compreso lasciando cadere Sein und Zeit. Non voglio discutere di ciò che egli ha fatto dopo, è tutta un’altra questione; ci si può anche domandare se sia ancora filosofia quella che egli fa successivamente. Max Scheler pensava che l’esperienza dell’essere fosse l’esperienza della resistenza delle cose. Non penso che egli abbia ragione. Perché la resistenza è ancora una esperienza che è soggettiva. Io faccio esperienza della resistenza anche durante il sogno. In effetti, durante il sogno le cose offrono una resistenza, anche se esse non sono reali. Io credo che non vi sia che l’amore che giunga all’essere in quanto essere. Perché l’amore è impossibile senza la realtà di ciò che io amo. L’amore è una sorta di trascendenza. Non posso amare che il reale. Il vero amore guarda veramente l’altro come altro, e non come mia idea di lui. Anche se non traggo alcun profitto da lui, anche se non lo rivedo mai più nella mia vita. Io voglio che sia felice. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che l’amore ha senso soltanto se l’altro esiste veramente. L’amore è la più netta espressione della trascendenza verso l’essere; certo vi sono delle forme più modeste: il rispetto e la giustizia. Giustizia vuol dire che l’altro mi limita perché egli ha dei diritti. Il rispetto dei diritti è una forma dell’esperienza dell’altro. A mio avviso, non si può parlare dell’essere se non in contesti pratici. Nella pura teoria, non vedo come si possa parlare dell’essere come Selbstsein, perché la teoria resta nel limite della oggettività. 

Una precisazione: una volta che l’essere si svela a noi come Selbstsein, come possiamo trasmettere questo ad altri se non facendone una nozione?

E’ rinviando ad una esperienza analoga alla mia che io posso contribuire a far scoprire l’essere al mio interlocutore. Non posso spiegarlo se l’altro non ha fatto una tale esperienza. Ma normalmente egli l’ha fatta. Ciascun uomo fa già questa esperienza da bambino. Soprattutto come bambino, forse. Sono i genitori che talvolta distruggono le esperienze dei bambini. I bambini sono assai sensibili per ciò che concerne la giustizia. Non è possibile attraverso una nozione spiegare all’altro quello che vuol dire essere, perché non posso mostrare a lui alcun fenomeno. Ma gli si può dire: rammentati di ciò che è avvenuto in questa o quella situazione. Prenda l’esempio del mio sogno in cui io avevo avuto l’idea evidente che l’altro esistesse veramente, che fosse veramente il mio amico che è tornato. Mi sono ingannato. E’ assai curioso; che cosa si deve dire quando si ha un sogno? Per esempio, se nel mio sogno ho visto una casa che era blu e che aveva quattro finestre, e qualcuno dicesse: tu ti sei ingannato questa casa era gialla, ed aveva due finestre; io gli risponderei: era il mio sogno o il tuo? Non posso ingannarmi per quanto concerne i colori o la quantità di cose nel mio sogno; esse erano così come erano. Non si possono fare degli errori in un sogno. Con l’eccezione di un errore: se io dico che tutto quello era reale; io mi inganno perché non è vero. Se io sogno che una cosa è blu, essa è blu. Se io sogno che essa è reale, essa non è affatto reale. Con il termine essere io voglio esprimere l’aldilà di tutto ciò che io posso pensare e di cui posso dire, fuori cioè dal mio pensiero. Dunque la sola cosa sulla quale io posso sbagliarmi nel mio sogno è l’esistenza delle cose e non la resistenza delle cose come Max Scheler ha detto. Io posso sognare la resistenza delle cose senza ingannarmi, perché le cose nel sogno sono come esse sono salvo quelle che non hanno esistenza. Ora tutto questo io posso spiegarlo. Posso spiegare i limiti della nozione attraverso analisi, parafrasi. L’idea di essere è come l’idea di bene in Platone. Platone dice che non possiamo spiegare il bene in una forma oggettiva; ma se ne può parlare e, subito, essa diviene chiara come una luce. La stessa cosa vale, mi sembra, per l’idea dell’essere. Non possiamo definirla, ma se ne può parlare e, in un dato momento, la si comprende. E’ un problema pratico.

Quali sono i filosofi verso i quali si sente in debito? 

Platone, San Tommaso, Kant, Hegel, Frege... in fondo tutti i grandi filosofi, io sono debitore verso tutti. Anche Fichte. Ma è soprattutto nei confronti dell’ultimo Fichte quello del 1812. Vi è poi Whitehead, che è forse il solo filosofo nel XX secolo che abbia compreso il problema dell’interiorità-esteriorità. Segnatamente nel suo libro Process and Reality. Occorre studiare questo libro. E’ veramente un grande libro. Occorre del tempo per leggerlo perché non è un libro facile. Ma ne vale la pena. Ho fatto una volta un corso a Monaco su Process and Reality e io stesso ne ho avuto un grande profitto. 

E’ da quasi un mezzo secolo che si parla della fine dell’epoca moderna. Romano Guardini lo ha fatto in un saggio che porta questo titolo. Anche Lei dice, formalmente, la stessa cosa, segnatamente in Zur Kritik der politischen Utopie e nel suo contributo al volume Moderne oder Postmoderne? In rapporto a questa diagnosi, Lei afferma che The Abolition of Man di C.S. Lewis sia una espressione letterariamente riuscita della situazione del mondo moderno le cui contraddizioni interne hanno finito per apparire alla luce del sole e in modo drammatico. Lei pensa che vi sia un’opera letteraria dello stesso genere per la situazione attuale? 

In fondo, nella letteratura, si era già compreso ciò che si stava determinando all’inizio del secolo. Vi è l’Ulisse di James Joyce; vi è Der Mann ohne Eigenschaften, L’uomo senza qualità di Robert Musil, che sono opere di valore sintomatico. Non sono libri che vi dicono come superare la situazione ma essi vi permettono di comprenderla. O Ernst Jünger, uno scrittore che arriva a morire all’età di 102 anni e che è sempre stato una specie di barometro della sensibilità del tempo. Al tempo della prima guerra mondiale, egli ci ha dato forse la migliore descrizione di ciò che accada in una guerra. Era lui stesso un soldato, e ricevette un’alta decorazione. André Gide diceva che il libo di Jünger era il miglior libro sulla prima guerra mondiale. Era allora assai giovane. 

In seguito egli ha scritto il libro Der Arbeiter, “L’operaio”, nel 1932. E’ un libro che offre una specie di apoteosi della spersonalizzazione dell’uomo, come puro funzionario di una grande macchina. Ma il modo in cui egli ha descritto questa situazione è rivelatore. Si comprendono molte cose quando si legge questo libro. Lo si è accusato dicendo che egli descrive l’apoteosi del totalitarismo. In un certo senso è vero. Ma quando Hitler è arrivato, egli non ha mai voluto avere a che fare con i nazisti. Mentre Heidegger ha collaborato per alcuni anni, Jünger mai. In Germania lo si è attaccato molto dopo la guerra, perché egli descrive la guerra senza darne una valutazione. Egli non critica la guerra, egli non fa l’apoteosi della guerra. Egli fa del tutto semplicemente una descrizione assai brutale di ciò che accade. Molte persone non sono capaci di leggere questo tipo di libri perché essi s’attendono che l’autore prenda posizione a favore o contro. Io non m’aspetto dalla letteratura che essa giudichi, ma piuttosto che essa mostri. D’altra parte, un anno prima della sua morte Jünger si è convertito al cattolicesimo. 

Lei termina il suo libro Personen parlando di delfini con una espressione che sembra essere una sfida o forse uno scherzo. Qual è la giusta lettura? Potrebbe dire qualcosa a proposito del suo stile? 

Io dico che “persona” non rimanda ad alcuna nozione specifica. Io non volevo parlare degli angeli. E non sono nemmeno sicuro che gli angeli siano delle persone. Credo di sì. Ma nella Santa Scrittura, non è sempre chiaro. Lasciamo questo. Io volevo dire che è possibile che altri esseri naturali siano persone, per esempio su altri pianeti, come viene descritto da C. S. Lewis in Peralandra. Si riferisce perfino del racconto sui delfini che hanno salvato degli uomini o a proposito dei loro giochi. Personalmente non credo che siano persone. Non credo che tutto quello che si racconta sia sufficiente. Ma dico che se vi sono in essi delle qualità attraverso le quali si riconoscono le persone, dovremmo smettere di uccidere i delfini. 

Nel De Potentia, San Tommaso parla della priorità dell’atto; e a chi opporrebbe la priorità dell’essenza di una cosa in quanto Dio ne concepisce l’idea, egli risponde distinguendo l’essentia creatrix dalla essentia creata. L’idea della cosa nello spirito di Dio non è creata ma creatrix. 

Giustamente. E questo è molto interessante. La realtà che è all’origine della nozione di possibilità in Aristotele è il movimento. Non si può definire il movimento senza la nozione di possibilità. Tutti i tentativi moderni di rendere il movimento calcolabile, di farne un oggetto della matematica, vale a dire il calcolo differenziale di Newton e Leibniz segnatamente sopprime il movimento per sostituirlo con degli stadi statici così minimi da poter essere ignorati. Ma il movimento in quanto tale scompare. Aristotele definiva il movimento come “l’attualità del possibile in quanto tale”, energeia tou dynamei ontos he toioutou….Per Aristotele era il modo di risolvere il problema degli Eleati, in quanto per essi il movimento era impossibile. E questa è l’unica soluzione. Senza la nozione di possibilità è impossibile comprendere il movimento stesso.

Grazie.

Di nulla. Sono felice di vedere che scrivere non è un esercizio inutile.

4 luglio 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)
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