Natura, ragione e persona: un’impostazione antropologica 
di Paulin Sabuy

“La domanda “cos’è l’uomo?” è molto diversa della domanda “cos’è una rondine?” A questa ultima rispondiamo con l’enumerazione delle caratteristiche grazie alle quali identifichiamo un uccello come una rondine. La domanda di ciò che fa dell’uomo ciò che è non si riferisce ad una classificazione di oggetti, ma fa parte – in quanto domanda circa l’essenza – di un processo storico di autocomprensione e autoaffermazione dell’uomo in un contesto di sfide mutevoli”. Così Spaemann esprime la specificità della questione dell’uomo. L’interesse per la nostra autocomprensione è il motore stesso della riflessione che cerca di comprendere con una pretesa di totalità. La questione dell’uomo pertanto assume accenti sempre nuovi così che si trova in un incessante interrogare, che come tale è essenziale. Da una parte è essenziale perché si tratta dell’interrogazione circa l’essenza e dall’altra perché manifesta il nostro modo di essere più proprio.

Dall’inizio del secolo scorso si era fatto vivo l’interesse per la comprensione della posizione dell’uomo nel cosmo (Scheler). La crisi multiforme che conosce l’Europa ha fatto scivolar via le vecchie certezze. Trattandosi di una civilizzazione molto cosciente di sé, è assai plausibile la sensazione e l’impressione che alla base di tale crisi, che è giunta al parossismo con la seconda guerra mondiale, vi sia l’oblio di qualcosa di essenziale. Per il nostro autore è soprattutto l’imperante quanto espansiva cultura scientifica che va interrogata. Non si tratta di respingere la scienza ma piuttosto di chiedersi perché il luogo che occupiamo entro il paradigma di vita che è scaturito dal suo formidabile sviluppo si è fatto minaccioso. La civilizzazione scientifica incominciò come un forte richiamo per la dignità dell’uomo. La scienza intendeva sé stessa come il cammino concreto della realizzazione di questa dignità nella vita degli uomini. Occorreva quindi rimpiazzare l’antico antropomorfismo (ed il teocentrismo connesso) con l’antropocentrismo.

La scienza moderna e la teorizzazione che muove dal suo paradigma tipico (allergico alla metafísica) in realtà non si sono mostrate l’ambito più adeguato dell’affermazione specifica di tale dignità. Una figura importante al riguardo è ovviamente Descartes. Oltre tutto, trattandosi del pensatore che diede le basi noetiche più essenziali al movimento che si trova alla base della nuova civilizzazione, la critica della sua dottrina risulta teoreticamente capitale. Per Spaemann la sua teoria della doppia sostanza rende semplicemente impossibile pensare la vita, e alla fine rompe l’unità dell’uomo vivente. 

L’inversione della teleologia 

Le questioni ecologiche attuali rendono ancora più acuta l’urgenza di un rinnovamento. Dobbiamo domandarci che tipo di relazione abbiamo con la natura e perché il suo sfruttamento esagerato diventi minaccioso per il padrone che avevamo creduto di poter essere tramite la conoscenza del suo meccanismo. Ci sarà forse qualche somiglianza dimenticata che ci rende così solidali con essa? Così diventa altamente plausibile la pertinenza della domanda circa la natura nell’uomo o dell’uomo. Ma “che cosa deve significare la natura [...] perché abbia senso parlare di una ‘natura dell’uomo’”?

Spaemann stigmatizza “l’inversione della teleologia”. Dall’antichità al medioevo, la natura si definisce essenzialmente per il fine (telos). Nell’età moderna, anche se non si è propriamente smesso di parlare di natura, tuttavia, la teleologia ha subito un processo di inversione. In effetti, se non si tiene più conto della tendenza originaria che si trova alla base della loro spontaneità propria, il senso (telos) che hanno le cose viene dato da ciò che possiamo fare con esse e non più da ciò che è stato fatto anteriormente in esse nell’atto creatore che le chiamò all’esistenza; la ragione ora è solo ragione tecnica o strumentale, a scapito della sua valenza morale. In questo modo, si è giunti alla conclusione che la natura, ormai intesa come passività e come ambito di oggetti neutrali, non è una nozione adeguata per l’uomo, data la nostra dignità di esseri pensanti. 

Di conseguenza, per rispondere alla domanda “chi è l’uomo” risulta necessario, oggi più che mai, sapere ciò che intendiamo per natura. In effetti, non è possibile capire praticamente ciò che siamo se non poniamo la domanda a partire dalla reiterata complessità delle questioni che la variabilità delle circostanze storiche impongono all’uomo che vive (e sa di vivere). Solo in un secondo momento si può porre la domanda dell’essere come tale. E solo così si potrà capire la contingenza particolare di ogni uomo: l’accadimento di quest’uomo che, a partire dalle aspettative della propria vita (d’altra parte simile alla nostra), decide e fa delle scelte assolutamente sue. Una capacità questa che non è una nostra concessione ma che è da sempre sua e, come tale, richiede, da parte nostra, una certa sottomissione e rispetto, che è precisamente il riconoscimento di una dignità. A questo punto, la domanda può essere formulata in un modo che è allo stesso tempo particolare e generale: “uomo, chi sei? La generalità è l’uomo; la particolarità è il chi?”. Nella pratica, l’una e l’altra si danno nel singolare, nel singolo individuo.

L’essere come essere-sé

C’è qualcosa nell’uomo che lo rende strettamente solidale con il cosmo che abita e di cui si deve prendere cura. C’è una natura nell’uomo. Ma nell’uomo la natura è libera. La natura umana non è sul modello della natura non razionale. Noi riusciamo a capire ciò che può essere una natura non umana solo a partire del fatto che abbiamo l’esperienza di noi stessi come origine di una spontaneità antecedente, che possiamo anche ri-orientare. In noi, l’istinto, che già indica una direzione di azione, non è immediatamente efficace. Quella distanza interna è tipica della vita cosciente, la cui analogia ci permette di capire ogni altra costituzione istintiva originaria. Quando possiamo interpretare questo distacco rispetto al primo movimento d’istinto da un punto di vista che non è a sua volta istintivo, allora parliamo di libertà. 

Recuperare il senso teleologico della natura implica anche il recupero del suo senso analogico, e ciò riesce quando si torna a riferire la nozione di natura al dinamismo umano tipico. E’ nell’analogia della vita cosciente che si capisce ciò che significa avere una natura in generale, senza paura di essere accusati di antropomorfismo. Qui non intelligit non perfecte vivit, ripete Spaemann con Tommaso d’Aquino, e vi aggiunge: qui non vivit, non perfecte existit. A questo punto, l’affermazione di una teleologia immanente negli esistenti richiama la questione dell’esistere come tale. Si deve forse parlare di gradi o di analogia dell’essere? In che senso si dovrebbe parlare di un esistere più perfetto? In merito, il nostro autore non entra nei dettagli e ci da solo un’indicazione generale ma molto preziosa. Ci propone, anche qui, di tornare ai grandi classici: “Per Aristotele, il paradigma di ogni sostanzialità è l’essere vivente, e il paradigma per il vivente è l’uomo”. Quando si parla di cambiamento sostanziale, anche se ogni cambiamento nel mondo può essere interpretato come cambiamento accidentale in virtù del principio materiale, il paradigma rimane il nascere e il perire che temiamo, in quanto annientamento del nostro poter-essere. Non possiamo pensare l’essere se non come un processo in cui ne va di esso, cioè, del proprio poter essere. L’essere è in analogia a un processo che deve giungere a compimento, precisa Spaemann rifacendosi a Whitehead. E poi, ci offre questa sintesi: “In senso classico quanto in quello quotidiano, essere vuol dire essere-sé (Selbstsein)”. 

L’essere implica un’identità propria. Essere è sempre essere in un modo determinato. A tal essere non abbiamo accesso nella semplice teoria. Con la teoria andiamo d’oggetto in oggetto. Solo l’amore tocca l’essere in quanto tale. La benevolenza dell’essere razionale scopre l’altro nella sua alterità e afferma la sua identità fondata su una vita come la mia che è all’origine di una spontaneità e delle aspettative proprie. L’affermazione dell’essere altrui comporta, quindi, fin dall’inizio il riconoscimento di un bene che non dipende dal mio interesse, cioè un bonum in senso assoluto, che comporta quindi la relativizzazione del mio punto di vista. Di qui questa importante affermazione di Spaemann, con l’animo di rettificare Lévinas: “Non c’è etica senza metafisica. Ma l’etica precede tanto poco l’ontologia come filosofia prima quanto questa quella. Ontologia ed etica si costituiscono uno actu tramite l’intuizione dell’essere come essere-sé – il proprio come l’altrui”. Ogni ente fonda delle aspettative di cui ci si prende cura nella stessa misura in cui il suo essere viene alla luce come tale e non è più ridotto a semplice elemento dell’ambiente di un vivente che, ciecamente, cerca la propria espansione sempre già istintivamente determinata. Se la ragione umana non è solo ragione tecnica ma, per essa, si è sempre già aperta la possibilità di quella percezione, allora la ragione umana è potenzialmente morale. E l’ente in cui viene alla luce l’idea del bene altrui, cioè un bene assoluto, appare esso stesso come una repraesentatio dell’assoluto. Ecco perché l’uomo ha una dignità assoluta. Ecco anche perché quella dignità viene oscurata proprio quando l’uomo non riconosce in un modo o in un altro l’idea stessa dell’assoluto e ricade nel colpevole atteggiamento dell’espansione indiscriminata, istintivamente determinata, della propria soggettività.

La caratterizzazione della persona

Il nome di quella dignità assoluta che riconosciamo nell’uomo è persona. La parola persona – prosopon –, come è noto viene dal teatro. L’attore indossa una maschera e rappresenta un personaggio. La distinzione nonché l’articolazione dei due momenti – l’individuo in sé stesso e il ruolo che assume – suggeriscono già l’essenziale relazionalità, sia all’interno che all’infuori di sé, che sarà pensata nell’idea di persona. L’elaborazione del concetto fu l’operato della teologia cristiana, prima sulla Trinità divina e successivamente sul Cristo. La stessa e indivisa natura divina sia per il Padre, per il Figlio che per lo Spirito, pur mutuamente distinti tra loro. Tre numericamente distinti nella loro mutua autorappresentazione della stessa, unica e indivisa divinità. Tre persone, cioè, nell’unica natura divina. E nel Figlio, il Cristo, l’unica persona del Verbo con due nature, la natura divina della Trinità e la natura umana assunta da una donna, nella storia.

Per Spaemann, l’elemento caratteristico è sempre la distinzione di natura e persona: la specificità della persona è di avere-una-natura. L’essere-persona è proprio questo originario avere. E’ così che questo concetto è passato anche nell’antropologia. Nella definizione di Boezio, secondo il quale la persona è “una sostanza individuale di natura razionale”, la parola sostanza sta ad indicare appunto, non una nozione generale ma l’esistente reale potenzialemente capace di autodesignazione, cioè di autorappresentazione. La persona è sempre questo-uomo. La persona è quindi l’uomo in quanto possiamo designarlo (indexikalisch) e che è potenzialmente capace di rispondere a questa designazione. Ma tale relazionalità, che è essenziale alla singolarità di ogni persona, suppone un’antecedente comunità di natura. L’essere della persona è, cioè, fondato sulla vita, su una vita umana. La distinzione iniziale di un’interiorità rispetto a un’esteriorità fondata sull’istinto è assunta dal potere, tipico della persona, di articolare i diversi momenti di un’unità complessa, appunto come potere di relazione. Questo potere è la libertà, che non è una semplice facoltà dell’essere umano ma l’essenza stessa della persona, in quanto è la sua capacità tipica. La libertà viene caratterizzata dal nostra autore come Seinlassen, come lasciare-essere o far-essere. Essa è, cioè, radicata in quella distanza interna, tipica dell’uomo, in cui la distinzione interiorità-esteriorità definita da un istinto non sempre efficace, la non-identità essenziale dell’essere vivente, viene potenzialmente assunta in quella ulteriore messa a distanza – una capacità questa sempre già data –, che l’istinto non può più giustificare. La nostra libertà è libertà dalla natura.

Conclusione: il riconoscimento della persona

A questo punto, appare una domanda inevitabile: è persona ogni membro della nostra specie? La vera portata di questa domanda è ovviamente la valenza assiologica e normativa dell’idea di persona. In effetti, si tratta di sapere se ogni uomo, qualunque sia la qualità della sua vita, meriti la dignità di persona e il rispetto assoluto dovuto ad essa. E’ pur vero che la dignità, quale concetto morale, è qualcosa che si deve meritare; nel senso però che essa può essere oscurata dal comportamento del soggetto a cui viene attribuita, ed è anche in questo senso una conquista. E’ così, per esempio, nel caso della dignità che si attribuisce a certi incarichi pubblici. Ma se invece di parlare della qualificazione morale dovuta all’esercizio della libertà della persona parliamo delle condizioni empiriche di esercizio di quella libertà, emerge la questione della sua presenza fattiva e quindi della possibilità stessa di riconoscere la dignità nell’individuo in presenza. La risposta di Spaemann si sviluppa in due momenti. Nel primo ci imbattiamo nella sua comprensione dell’essere come essere-sé. 

L’essere-sé significa avere un’identità che si dispiega secondo natura, anche se ciò indica allo stesso tempo la possibilità di un non compimento del processo che segue quella dinamica naturale. E’ chiaro che Spaemann non muove dai pressupposti nominalistici e soprattutto empiristici, che si sono consolidati da Locke a Hume e che hanno tutt’oggi un seguito. Nel secondo momento, strettamente coerente con il primo, Spaemann sostiene che l’unico criterio non arbitrario per il riconoscimento della persona è l’appartenenza alla specie homo sapiens sapiens. Tale riconoscimento è tipico della persona: da una parte perché la persona come tale è al di là delle determinazioni qualitative tramite cui viene identificata e non si riduce ad esse, d’altra parte perché il gesto di riconoscimento è specifico della persona e manifesta la sua magnifica dignità. Altrimenti ci sarebbero alcuni uomini che, convenzionalmente, fisserebbero un criterio o dei criteri secondo cui riconoscere la persona, che come tali sarebbero provvisori e quindi potenzialmente violenti. Le determinazioni qualitative per l’identificazione e la re-identificazione di una singola persona rinviano sempre ad una identità specifica, cioè ad una vita umana. Nel nostro mondo, il volto della persona è sempre un volto d’uomo, e viceversa.

4 luglio 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)
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