Libri. Viaggio al termine della Grecia 
di Carlo Roma

In un villaggio greco perduto tra i monti, irraggiungibile e dal nome sconosciuto, vive una piccola comunità solitaria e agguerrita. Sempre in lotta gli uni contro gli altri, agitati da mille incomprensioni e tante debolezze, con l’umore incline alla delusione e, in alcuni casi, al rancore, ciascuno mostra di conoscere la vita del suo dirimpettaio. Nei loro rapporti, nei lunghi dialoghi che scambiano in ogni circostanza con intatta partecipazione, c’è anche spazio, però, per la condivisione di un destino comune. Chiusi nel loro mondo, affratellati da un senso di completo abbandono, i paesani lasciano che le chiacchiere scorrano lente come le acque tranquille di un grande fiume. L’unico legame con la civiltà è costituito da una vecchia linea ferroviaria che attraversa il territorio portando con sé i rumori lontani della valle. Le poche strade percorribili sono ripide e fangose. Non vi sono automobili e scarseggiano i mezzi di comunicazione con l’esterno. Tutto appare segnato dall’immobilità: il tempo, da queste parti, si è davvero fermato e sembra che a nessuno interessi farlo ripartire quanto prima.

Eppure, come spesso succede, ci pensa la natura a scuotere le coscienze intorpidite ed arrugginite dal trascorrere senza colore dei giorni. Un forte terremoto si abbatte sulle povere case, smantella le fragili fondamenta sulle quali sono stati costruiti i pochi edifici che ospitano i locali pubblici, strappa dal suolo i pali dell’elettricità. “I corvi si alzarono in volo all’improvviso come per uno sparo di fucile e un gregge di pecore non lontano si raggruppò e si mise a belare. La prima scossa fu impercettibile come le detonazioni della dinamite che arrivavano dalle miniere del penitenziario”. Le case vengono scoperchiate e in qualche modo aperte agli sguardi degli occhi indiscreti. Accanto ad esse è come se venissero alla luce l’intimità, i segreti mai confessati, le vicende scandalose o, semplicemente, inenarrabili, che hanno contraddistinto l’avvicendarsi delle stagioni in questo angolo sperduto della Grecia. Appaiono, quindi, le figure che animano e che guidano con mano ferma la collettività. Ne incarnano, in realtà, lo spirito più vero e genuino e ne rappresentano gli umori, l’indole e le speranze nascoste. Ecco, allora, il robusto e burbero padre Yerasimino. Con la sua voce tonante strilla i suoi fedeli e li invita a partecipare con convinzione sincera alle funzioni religiose. Non si ferma davanti alla loro apatia ma al contrario, riempiendoli di improperi, gli prospetta le vie terribili del peccato e gli indica la porta dell’Inferno. Si rende conto, quasi per caso, del dolore e dei danni provocati, in giovane età, da un uomo tisico e rancoroso oramai con un piede nella fossa, alle sue figlie gemelle nate dopo la morte prematura della madre durante il parto. Una storia fra le tante, insomma, che si mormorano e si tramandano, di bocca in bocca, nei vicoli stretti del villaggio. 

Una storia che apre, con una certa dose di comicità e tristezza unite insieme, l’affresco disegnato dallo scrittore greco Panos Karnezis, in “Tante piccole infamie”. Classe 1967, al suo romanzo d’esordio Karnezis, nell’intricarsi di esistenze diverse e di personaggi ora buffi e pittoreschi ora perfidi e viscerali, mette in scena con acume un microcosmo in cui si alternano con armonia elementi tratti dalla quotidianità ad elementi desunti dalla fantasia. Il mito, la leggenda ed il tran tran di ogni giorno imprimono sulla pagina l’immagine nitida di uomini e donne persi nelle loro mansioni ripetitive. Lo scrittore inquadra, al tempo stesso, un gruppo omogeneo di cittadini simpatico e affabile ma irrimediabilmente depresso. La voce del singolo, pertanto, tende a fondersi nel coro dei parlanti. Ciò che lega infine i vari racconti in un insieme organico - ed è questo, forse, il punto più interessante - è una narrazione che si sviluppa ed estende all’ombra di una parodia instancabile.

4 luglio 2003

crlrm72@hotmail.com

Panos Karnezis, Tante piccole infamie, Guanda, pp. 293, € 14,50

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