Libri. Sull’orrore dell’arte
di Paolo Priolo

L’arte contemporanea (ogni epoca ha la sua) ha sempre contato un buon numero di detrattori, ma rispetto alla seconda metà dell’Ottocento e ai primi decenni del secolo scorso, le resistenze nei confronti delle correnti moderniste hanno subito, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, un progressivo ribaltamento di prospettiva: da barriere di retroguardia si sono trasformate in avamposti della coscienza critica. Ancor prima dell’affermazione delle Avanguardie Storiche del Novecento, variamente rinnegate e poi riconosciute dall’estabilishment artistico-culturale, le tendenze che mostravano una manifesta intenzione di rottura nei confronti della tradizione accademica avevano grosse difficoltà a trovare spazi nei circuiti ufficiali: il mercato e le esposizioni, ma anche certa critica, tendevano a disconoscerle. Le sperimentazioni venivano condannate dai difensori del canone classicista, promosso in luoghi istituzionali quali il Salon de l’Académie des Beaux-Arts di Parigi. 

Dagli anni Trenta del secolo scorso, con l’avvento della gloriosa stagione dei musei americani, ma soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, con le Neoavanguardie, l’arte contemporanea, divenuta un enorme affare economico, abbandonava il suo statuto minoritario, antagonista e approdava, con la massima legittimazione e i più alti onori, nei nuovi santuari dell’arte ufficiale. Oggi, la sperimentazione, sempre più sterile e forzata, il superamento obbligato di canoni indefiniti e una vocazione alla spettacolarizzazione dell’atto creativo costituiscono il dominio di una nuova accademia: indifferenziata, babelica e mercantile. Questa tendenza involuta dell’arte contemporanea è stata deprecata, secondo differenti prospettive, da numerosi critici e studiosi. Si potrebbe risalire a Walter Benjamin, per passare a Edgar Wind e Roger Caillois, fino a Jean Baudrillard, Gilles Lipovetsky, Norbert Lynton, Umberto Eco, Flaminio Gualdoni e Nathalie Heinich. 

Enrico Baj e Paul Virilio si inseriscono a pieno titolo in questa corrente e si affidano a un dialogo incalzante e polemico per denunciare la degenerazione del sistema dell’arte contemporanea. Un sistema governato da quotazioni smisurate e ingiustificate, dai templi dell’omologazione artistica (Biennale di Venezia, Guggenheim, Fondazione Saatchi, Deste Foundation), dominato da immagini che Virilio definisce autoreferenziali, tiranniche e “otticamente corrette”, schiave della tecnologia, dell’evento e della performance, malate di iconolatria e figlie dell’estetica pubblicitaria. E a far da cornice, un pubblico onnivoro che si reca alle mostre per partecipare passivamente a un fallace rito di emancipazione, a una falsa ed estenuata liturgia di elevazione socio-spirituale. “Discorso sull’orrore dell’arte” è un breve e colto pamphlet a due voci che invoca un nuovo umanesimo estetico-artistico come antidoto alla catastrofe prodotta dagli eccessi modernisti, dal denaro e dalla tecnofilia. Non del tutto convincente quando tende a incanalare la tesi della disfatta su binari incerti (Internet, genetica, new economy, flussi immateriali), si rivela comunque un’ottima e breve occasione di riflessione.

4 luglio 2003

Enrico Baj e Paul Virilio, Discorso sull’orrore dell’arte, Elèuthera, Milano, 2002, pp. 79 – € 5,50
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