Conservatorismo e sociologia
di Gianfranco Morra

Nel suo Catéchisme positiviste ou sommaire exposition de la Religion universelle en onze entretiens systématique entre un Femme et un Prêtre de l’Humanité (1852) Auguste Comte consiglia una “Bibliotéque du prolétaire”, ossia un elenco di 150 libri idonei a formare i fedeli della nuova religione “cattolica senza Cristo”. Fra di essi figurano due dei principali autori controrivoluzionari di Francia: De Maistre e Chateaubriand. Come poteva l’Apostolo di una rigenerazione universale “senza Dio e senza Re” proporre quei volumi della scuola “retrograda”? Perché Comte loda (nel suo Système de Politique positive) altri autori della medesima “immortelle école”, come Lamennais e de Bonald? Che cosa può avere in comune la sociocrazia di Comte con l’alleanza del trono e dell’altare proposta dagli scrittori “reazionari”? A queste domande alcuni studiosi hanno dato una risposta. Che non solo mostrava l’utilizzazione da parte della “politica positiva” di Comte dello spirito della Restaurazione, ma, più in generale, il collegamento della sociologia ottocentesca alla filosofia controrivoluzionaria come ad una delle sue fonti fondative. Al primo posto va ricordato un acuto storico delle idee, Robert Nisbet, al quale di recente “Ideazione” ha dedicato un inserto (n. di marzo-aprile 2002).

Nisbet già alla fine degli anni Trenta cominciò ad occuparsi del pensiero controrivoluzionario francese. La sua tesi di dottorato, discussa nel 1940 e pubblicata nel 1980, esaminava le teorie del gruppo sociale nel pensiero francese (The Social Group in French Thought). Gradualmente egli approfondì la sua intuizione iniziale: che il conservatorismo filosofico è la fonte principale dell’interesse della sociologia per i gruppi e per l’integrazione sociale. E che la sociologia è la reazione all’individualismo e al secolarismo veicolati contemporaneamente dalla rivoluzione industriale e dalla rivoluzione francese. Le sociologia di Comte e Le Play, Tönnies e Durkheim hanno in comune la consapevolezza che la distruzione del pluralismo sociale dell’età feudale si è tradotto in una dialettica dualistica e riduttiva tra gli individui irrelati e lo stato-padrone. Una centralizzazione politica dalla quale i fondatori della sociologia prendono le distanze proponendo un recupero della Gemeinschaft rispetto alla Gesellschaft, ossia del gruppo sociale (famiglia, sindacato, comunità locali, congregazioni religiose, associazioni culturali). 

Dal breve saggio Conservatism and Sociology (in “The American Journal of Sociology, 1952) sino alla più vasta esposizione di The Sociological Tradition (1966; tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1977), Nisbet ha ampliato e approfondito questa sua intuizione, soprattutto in riferimento ai due più importanti precursori della sociologia: Burke e de Bonald. La sociologia, dunque, è stata una rivolta contro l’individualismo, nella quale si trovano concordi tanto i “profeti del passato”, come i pensatori controrivoluzionari, quanto i progettisti di un futuro, come tutti i sociologi: “Il paradosso della sociologia consiste nel fatto che, per quanto i suoi obbiettivi e i valori politici e scientifici delle sue figure principali appartengano alla grande corrente del modernismo, i suoi concetti essenziali e le sue prospettive implicite lo collocano molto più vicino, in generale, al conservatorismo filosofico” (Trad. soc., p. 26). Nisbet si sofferma su due esemplari documenti della “sociologia reazionaria”: lo scritto De la famille agricole et de la famille industrielle (1818) di de Bonald e quello Sur le suicide (1819) del primo Lamennais, evidenti anticipazioni dei lavori di Le Play (L’organisation de la famille, 1871) e di Durkheim (Le suicide, 1897). Acutamente il grande critico Saint-Beuve ha chiamato Le Play un “Bonald ringiovanito” (rajeuni).

In termini ancora più espliciti, Robert Spaemann intitolò i suoi studi sul de Bonald (1959; solo ora tradotti in italiano): L’origine della sociologia dallo spirito della Restaurazione. Anch’egli non manca di sottolineare la grande lucidità di Bonald nell’indicare una via d’uscita dall’atomismo postrivoluzionario nel recupero della tradizione europea, prevalentemente cristiana, nella quale fede e ragione, teologia e filosofia, convivevano nella concordia, cioè nella distinzione e nella collaborazione. In tal senso l’Europa è l’unica società civile dell’universo, in quanto, scrive Bonald, “la civiltà non è altro che l’applicazione della religione cristiana alla società civile”. E’ ciò che non potevano capire gli illuministi: “L’idea di una religione della ragione è altrettanto astratta quanto l’idea del dominio della ragione. Il cristianesimo è l’unica religione fondata sulla ragione, proprio perché soddisfa l’esigenza che la ragione deve porre alla religione: quella di non derivare dalla ragione” (p. 102).

Sembra, tuttavia, allo Spaemann che Bonald, nella sua opera di recupero del gruppo sociale, abbia finito per capovolgere l’atomismo postrivoluzionario in strutturalismo, non senza pericoli per la libertà dei cittadini. Come appare evidente nella sociocrazia di Comte e anche nel progetto politico proposto dall’Action Française, che si definiva “le parti de Bonald”. In entrambi i casi la persona viene inglobata e quasi dissolta nella Società. Ciò avviene certo oltre le intenzioni di Bonald, ma anche nel solco di alcune sue affermazioni. Il pensatore tradizionalista scorge nella società, nella tradizione e nel linguaggio l’origine della spiritualità umana: quella metafisica, che gli illuministi avevano distrutta, non viene da Bonald recuperata, ma sostituita con la teoria della società, che diviene così una philosophia prima: “Il pensiero controrivoluzionario diventa il compimento di quello rivoluzionario, il cattolicesimo tradizionalistico conduce, attraverso Comte, a quello ateistico di Maurras” (p. 13).

L’intuizione di Spaemann, che Bonald, non diversamente da altri tradizionalisti, sia insieme avversario e seguace dei pensatori illuministici, quasi succubo degli errori che combatte, non manca di prove. Sappiamo che la centralizzazione dello Stato non nasce con la rivoluzione francese, ma con la monarchia assoluta e in particolare con Luigi XIV. Bonald stesso non manca di usare, a riguardo del rapporto tra individuo e società, espressioni non lontane da quelle di Rousseau, quando ci dice che l’uomo ha diritto di essere governato, come un bambino lo ha di essere nutrito e che i governi sono istituiti al fine di costringere gli uomini a essere liberi, cioè a essere buoni. Non v’è dubbio che Bonald non accetterebbe né la divinizzazione della società compiuta da Comte, né la coscienza collettiva del Durkheim. 

Eppure, per non pochi motivi egli apre loro la via: “Non soltanto (scrive Bonald nella prefazione alla Théorie du pouvoir politique et religieux) non è l’uomo che produce la società, ma è la società che produce l’uomo, intendo con l’educazione sociale. L’uomo non esiste se non per la società e la società lo forma solo per sé: egli deve dunque utilizzare a servizio della società tutto quanto ha ricevuto dalla natura e dalla società, tutto ciò che è e tutto ciò che ha” (10/18, Paris 1965, p. 15). Del resto la Théorie de l’education sociale (che segue e completa la Théorie precedente) non esita a proporre una educazione che anticipa quasi alla lettera la proposta di Durkheim e dei più recenti teorici dell’integrazione sociale: l’educazione come formazione di cittadini “liberi” di condividere le norme del gruppo cui appartengono.

Come si è espresso il curatore del volume spaemaniano su Bonald, Leonardo Allodi: “Proprio nel pensiero di Bonald, pur nel quadro di un tentativo di proteggere la tradizione, paradossale nei suoi esiti ma anche grandioso e tragico, Spaemann svela il mutamento profondo che interviene nella nozione tradizionale di filosofia: come passaggio, cioè, dalla metafisica alla teoria della società. Un passaggio che, per come è avvenuto soprattutto in Comte, implicherà tanto la funzionalizzazione della filosofia quanto la sociologizzazione di Dio” (p. 211). Con ciò Spaemann non intende dire che Bonald cada nei medesimi errori degli autori che a lui si richiamano, ma che ne sono anche tanto diversi. Spaemann ha compreso l’aspirazione profonda di Bonald, di tanto lontana e anche più moderna di quelle degli altri tradizionalisti: “Erroneamente Bonald e Maistre vengono posti semplicemente sullo stesso piano. La Restaurazione per Bonald non è pura antitesi, ma concreta realizzazione di ciò che nella rivoluzione era puro arbitrio e opinione soggettiva” (p. 176).

L’eredità di Bonald, sia in Nisbet che in Spaemann, appare chiara nel concetto al quale entrambi si collegano non solo nella loro opera di storici delle idee, ma anche di filosofi sociali. In Nisbet, che amava definirsi “conservatore liberale”, il problema dei problemi della politica attuale è quello di superare il conflitto tra lo Stato-Leviathano, nel quale rientra anche ciò che Talmon chiamava “democrazia totalitaria”, e individuo atomizzato e narcisista. Ciò che va recuperata è quella “comunità”, alla quale Nisbet intitolò la sua opera più profonda: The Quest for Community (1953). La comunità non è affatto l’unità organica di “Blut und Boden” del tribalismo; non è lo stato “ortopedico” o “etico” o “educativo” dei totalitarismi. È invece una articolazione pluralistica realizzata dalle comunità intermedie fra individuo e Stato. Vale la pena di riportare la conclusione di La Comunità e lo Stato: “Ad una società genuinamente libera sono indispensabili i valori liberali dell’autonomia e della libertà di scelta personale, ma li potremo conseguire e conservare soltanto se li porremo in quelle condizioni nelle quali la democrazia liberale può prosperare: diversità di culture, pluralità di associazione e divisione dell’autorità” (p. 377). 

Ora Bonald, anche se nei termini nostalgici di un regime non più proponibile, ha combattuto l’idea di un potere monistico dello Stato proprio rivalutando i gruppi sociali come quelle realtà naturali che possono con la loro autorità frenare le tendenze totalitarie del potere politico. In un’altra opera, The Social Philosophers. Community and Conflict in Western Thought, 1973, Nisbet mostra, anche con citazioni da Bonald, che la vera differenza non è tra pensiero “liberale” e “conservatore”, ma tra la comunità “rivoluzionaria” (giacobini e leninisti), che elimina i corpi intermedi, e la comunità “pluralistica” (da Aristotele a Tocqueville), che li difende.

Anche Spaemann condivide questa difesa dei gruppi sociali. Ma egli è un filosofo, non un sociologo. Egli vuole dunque andare oltre. Vuole reperire il fondamento filosofico sulla cui base effettuare un recupero della libertà dell’uomo nella società. La via da lui seguita è quella della riabilitazione della filosofia pratica e della riscoperta del diritto naturale – uniche difese dell’uomo-massa, sempre più imbonito e manipolato dai progetti di utopia politica, che lo inducono a dimenticare il presente per un futuro di perfezione che non potrà mai raggiungere; unici fondamenti capaci di disegnare una cornice prescrittiva entro cui formulare principi normativi etici e politici. E la religione non viene considerata come il fondamento teologico della politica, ma come la difesa dell’uomo dalla sua totale politicizzazione utopica. 

L’epoca e il problema di Bonald e di Spaemann sono diversi. Il francese aveva assistito alla più grande catastrofe della storia europea e non poteva se non guardare indietro, per ricostruire al massimo possibile quella società cattolica, monarchica, rurale, che le tre rivoluzioni scientifica, politica e industriale avevano distrutto. Il tedesco vive nell’era del nichilismo, in cui la modernità in crisi non riesce ad aprirsi ad una postmodernità che non sia solo la amara constatazione di un fallimento. Nessun ritorno alla società cristiana è per ora pensabile. Egli dunque cerca di trovare una risposta alle domande dell’ora: come può esserci ancora una filosofia in una cultura del totale relativismo e storicismo? quale morale è ancora possibile nell’epoca in cui “Dio è morto”? e quale politica è ancora in grado di salvare l’uomo dal totalitarismo e dalla manipolazione, anche biologica? 

Spaemann propone una riscoperta di quel diritto naturale, che nacque cristiano nel medioevo e morì laico nella modernità, in quanto fu privato del suo fondamento teologico. Nel diritto naturale (ci dice nella sua opera Per la critica dell’utopia politica, a cura di S. Belardinelli, Angeli, Milano 1994) si sposano i due fondamenti del pensiero europeo, natura e ragione: “Il diritto naturale esprime dunque per l’uomo ciò che è conforme alla sua natura. E poiché la natura umana è una natura razionale, la conformità alla natura significa qui conformità alla ragione. Il diritto naturale è diritto razionale. Ciò che è buono e giusto per natura non può essere determinato osservando gli animali; piuttosto può essere reso visibile soltanto in un discorso razionale” (p. 193).

Natura e ragione costituiscono i due fondamenti del pensiero europeo insieme col loro fondamento teologico, quel “Logos” da cui ragione e natura derivano, di modo che la natura non è meno razionale di quanto la ragione sia naturale. Quella natura, da cui la scienza meccanicistica galileiana ha escluso ogni teleologia, e quella ragione, che l’illuminismo ha staccato dalla filosofia solo per farne il laboratorio alchemico di una utopia politica distruttiva e sanguinaria. Una ragione “impazzita”, il cui “sueño”, sonno o sogno che sia, come nella litografia di Goya, ha prodotto i mostri del Terrore e dello Stato totalitario. Proprio come aveva intuito il Visconte Louis-Ambroise de Bonald, quando sottolineava, contro la teocrazia, che tra le società religiose e le società politiche non esiste certo una identità, e, contro l’agnosticismo, che esiste una “analogia” tra religione e politica. 

Poco prima di Proudhon e di Donoso Cortés, il Nostro afferma che ogni società altro non è che una variabile interdipendente della religione, vera o falsa, che in essa prevale: “Se ogni religione o setta diversa di religione corrisponde a una forma particolare di governo, è evidente che, in ogni società, il governo deve fare uno sforzo segreto per stabilire quella religione che ha il massimo di analogia con i suoi princìpi, così come la religione tende a stabilire il governo che le corrisponde; la società civile, infatti, che è la unione della società civile e di quella politica, non può, credo, essere tranquilla che quando regna un perfetto equilibrio tra le due parti che la compongono” (Théorie du pouvoir politique et religieux, l. VI, cap. 1, p. 218).

Alla religione la politica non può sfuggire. E anche quando la modernità cerca di fare una politica “laica”, essa finisce per divinizzare la stessa politica, come accade nelle utopie totalitarie, che sono tutte teologie politiche. Bonald ha avuto il merito di sottolineare che la politica non può scegliere tra religione e non-religione, ma solo tra vera religione e falsa religione. Senza bisogno di proporre progetti teocratici, dato che, per il Nostro potere politico e potere religioso non sono separati, ma distinti e correlati: “la réunion de la société politique et de la société religieuse constitue la société civile” (préface, p. 20).

4 luglio 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)
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