Post-modernità, diritto naturale e utopia politica
di Sergio Belardinelli

La riflessione di Robert Spaemann ruota sostanzialmente intorno a due ordini di problemi: il primo riguarda la coscienza moderna, i suoi limiti e la sua crisi; il secondo la riproposizione della teleologia e del diritto naturale come criteri alla luce dei quali affrontare i problemi più scottanti dell’etica e della politica contemporanee: i problemi ecologici, quelli della bioetica o quelli relativi alla salvaguardia dello Stato di diritto in una società sempre più funzionalizzata, solo per citarne alcuni. Non si direbbero, invero, tematiche molto originali, specialmente per un pensatore cattolico. Eppure, l’importanza dell’opera di Spaemann sta proprio nel modo di riproporle alla nostra attenzione. La sua critica della modernità, ad esempio, ha poco o nulla a che vedere con i toni antimoderni di molta letteratura sull’argomento; è rivolta piuttosto alle interpretazioni “ideologiche” del moderno, nell’intento addirittura di guadagnare una prospettiva che possa “stabilizzarne” i presupposti1. Spaemann parla, è vero, di superamento della modernità, ma è un superamento che non ha nulla di eclatante. Esso si manifesta, infatti, in un “cambiamento di atteggiamento quasi impercettibile rispetto alla modernità, senza alcuna volontà di oltrepassarla o magari di rinunciare ad alcune sue specificità, e può significare, semmai, la volontà di ancorare gli autentici contenuti di autorealizzazione dell’uomo, di cui le siamo debitori, a concezioni più antiche, salvaguardandoli dalla loro interpretazione modernista e quindi dalla tendenza immanente al loro annullamento”.

Al pari di altri, anche Spaemann vede come alcune categorie della coscienza moderna siano oggi decisamente in crisi. L’idea di libertà come emancipazione, il mito del progresso necessario e infinito, quello di un illimitato dominio della natura, l’oggettivismo, una certa omogeneizzazione dell’esperienza ridotta ad “esperimento”, il trionfo del pensiero ipotetico, l’universalismo di stampo naturalistico sono categorie che appartengono ormai al passato. A metterle in crisi è stato soprattutto lo sviluppo della scienza e della tecnica; sviluppo che ha generato una serie di problemi – ecologici, bioetica, politici –, i quali non possono più essere adeguatamente padroneggiati rimanendo nell’ottica scientistica (e, secondo Spaemann, modernista), ben esplicitata dalle suddette categorie, e potrebbero mettere in pericolo anche quelli che sono un po’ i grandi valori della modernità: lo Stato liberale e democratico di diritto, l’idea di tolleranza e di autonomia del soggetto, la stessa idea di una scienza e di una tecnica al servizio dell’uomo.

E' soprattutto la coscienza ecologica che secondo Spaemann costringe la nostra epoca a rivedere, a diversi livelli, i “criteri” alla luce dei quali riflettere sulla realtà. Par fare qualche esempio, il progresso al singolare ormai non esiste più; esistono semmai progressi al plurale, i quali possono significare comunque anche regressi su altri versanti; il timore di vedere la nostra terra distrutta sembra aver risvegliato l’idea della “irripetibilità” di ogni cosa, di ogni uomo, di ogni situazione, dello stesso universo; idea, questa, che, da un lato, reintroduce un’accezione di esperienza non riducibile alla “ripetibilità” dell’esperimento scientifico e, dall’altro, visto che le conseguenze ecologiche delle nostre azioni potrebbero anche essere irreparabili, ci costringe a recuperare un modo di affrontare i problemi meno “ipotetico” e “fallibilista”. In questa prospettiva Spaemann rimette in circolazione sia l’antica teleologia, sia il diritto naturale. Il pensiero antiteleologico della prima modernità viene interpretato come una vera e propria “inversione” di quello teleologico; inversione che, eliminando appunto la tendenza di ogni cosa a partecipare in ultimo a un bene assoluto, da dell’”autoconservazione l’unico telos ancora possibile”.

Paradigmatica in proposito è, secondo Spaemann, la concezione hobbesiana dell’uomo, il quale, ridotto ad un coacervo di bisogni, primo fra tutti quello di autoconservazione, deve presupporre un dominio della natura senza limiti e un sovrano assoluto proprio per soddisfare questi bisogni. Da questo punto di vista sia la natura, sia la politica perdono quasi automaticamente ogni connotazione teleologica. La natura diventa semplicemente mezzo di soddisfazione dei bisogni umani; quanto al sovrano, egli deve soltanto garantire la vita dei suoi sudditi; non deve più perseguire un qualche summum bonum, teleologicamente (ma anche realisticamente) definito; deve soltanto evitare il summum malum. 

Questo Stato assolutista, una volta salvaguardata la vita dei cittadini, era comunque anche uno Stato liberale rispetto alla valutazione dei loro bisogni; non vi si immischiava. Quando invece, come accade oggi, la crescita dei bisogni e la possibilità di soddisfarli diventano un pericolo mortale, c’è il rischio che lo Stato, proprio per salvaguardare la vita dei cittadini, si trasformi in Stato totalitario, magari nella forma del più rigido funzionalismo. L’aternativa a questo rischio deve essere, secondo Spaemann, “una nuova comprensione del fatto che il nuovo criterio, la nuova misura, non può essere un limite imposto dall’esterno – il principio di realtà contro il principio del piacere –, bensì un telos nel doppio senso della parola: un limite che sia insieme un fine, il cui rispetto soltanto fa sì che l’uomo diventi ciò che è “per natura”; un limite tale, che una vita con esso sia, sotto ogni punto di vista, migliore di una senza”.

Passato attraverso la critica moderna al diritto naturale, Spaemann sa bene che esso non può essere riproposto come un catalogo di norme, né in un contesto che veda contrapposti natura e ragione. D’altra parte, però, egli ritiene che soltanto il diritto naturale può costituire un’istanza veramente “critica” nei confronti di gran parte della cultura filosofico-giuridica contemporanea e di ogni tipo di positivismo giuridico. E direi che la specificità del suo modo di riproporlo stia proprio in questa accentuazione “critica”, che è insieme sempre anche un’ermeneutica del diritto esistente. A questo proposito non va dimenticato che Spaemann proviene dalla scuola di Joachim Ritter. La natura di cui egli parla non è mai una natura contrapposta alla ragione o alla storia; è piuttosto una “natura che perviene a se stessa soltanto come ragione”. Il diritto naturale è in Spaemann tutt’uno con il diritto razionale. Ciò che è giusto per natura non si determina osservando le piante o gli animali, ma è qualcosa che emerge soltanto in un discorso razionale che, in quanto tale, è sempre storicamente e socialmente situato. 

A rigore, quindi, non si tratta di sostituire il diritto “naturale” con quello “razionale”; si tratta piuttosto di sottolineare come esista una natura dell’uomo che è razionale nella misura in cui non è semplicemente uno strumento della sua razionalità o della sua libertà, ma espressione della sua personalità e della sua dignità, che in quanto tali vanno rispettate. Se esistono diritti umani, secondo Spaemann, questo è possibile soltanto a condizione che nessuno sia autorizzato a decidere chi debba essere considerato soggetto di tali diritti. L’idea dei diritti umani implica, infatti, che l’uomo entri a far parte della comunità umana, non in virtù di alcune caratteristiche, ma semplicemente in forza dei propri diritti, che è come dire: in forza della sua appartenenza alla specie homo sapiens. Qualsiasi altro criterio renderebbe indebitamente qualcuno giudice di qualcun altro.

Sulla scia della migliore tradizione aristotelica, Spaemann propone insomma una considerazione della natura umana, nella quale convergono, in un’inscindibile unità, la libertà, la ragione e la storia, ma anche il carattere specificamente biologico della nostra appartenenza a una ben determinata specie vivente. Ed è soprattutto quest’ultima appartenenza che a suo avviso bisogna tenere presente quando è in gioco la dignità di chi non è ancora nato o è troppo piccolo o troppo vecchio o troppo rimbambito per partecipare ai discorsi razionali. Il nostro “io” non è qualcosa che incomincia in un dato momento della nostra biografia; si sviluppa piuttosto a partire dalla nostra natura organica. Ne è prova il fatto che usiamo espressioni, tipo: “io sono nato il tal giorno del tal anno”, anche se, al momento della nascita, non eravamo certamente in grado di dire “io”. Per farla breve, “colui che è qualcuno, lo è da sempre”.

Una nuova interpretazione della modernità

Se vogliamo salvaguardare quelle che sono un po’ le grandi conquiste della modernità: l’autonomia e la libertà del soggetto, secondo Spaemann, dobbiamo ormai ripensarle in un contesto diverso da quello nel quale si sono sviluppate; soprattutto occorre guadagnare una prospettiva che sia capace di aprire la nostra libertà a una dimensione che non sia quella della mera capacità di disporre, di strumentalizzare. La natura umana, ad esempio, deve essere considerata, kantianamente, come un fine in sé, al di fuori del potere di disposizione della nostra libertà; ma anche la cosiddetta natura esterna, pur essendo indubbiamente una natura “per noi”, è una natura “in sé” che come tale va considerata e tutelata. Che dire poi della realtà storico-sociale nella quale ci troviamo a vivere e ad agire? Volenti o nolenti, essa non dipende mai soltanto dalla nostra libertà; rappresenta piuttosto il nostro destino, qualcosa che dobbiamo accettare e di cui dobbiamo farci carico, anche quando aspiriamo magari a cambiarne il corso, se vogliamo che il nostro agire sia sensato. Non soltanto la natura, dunque, ma nemmeno la storia è qualcosa di cui possiamo disporre a piacere. Pincipium scientiae moralis est reverentia fato habenda, scriveva Hegel nella sua Habilitationsschrift. E Spaemann ci offre un commento magistrale di questa affermazione hegeliana, nell’intento, sì, di mostrare le condizioni e i condizionamenti storico-naturali della nostra libertà, ma anche di sottrarre l’individuo moderno all’isolamento prodotto dal suo sogno di potenza e di ricondurlo all’idea di una libertà che si compie sempre nell’altro in una determinata comunità, una libertà che si configura come “benevolenza”.

Sul piano strettamente filosofico-politico questa lettura della modernità produce, tra le altre cose, un salutare alleggerimento della politica rispetto a certe sue pretese totalizzanti. E’ stato giustamente sottolineato che la richiesta di ordine costituisce “il cuore genetico della modernità”; entrate in crisi le grandi concezioni metafisico-religiose del passato, l’ordine non è più qualcosa di prestabilito, bensì da costruire; quanto all’identità individuale, essa tende a costituirsi per differentiam, se così si può dire, per cui il problema diventa quello del riconoscimento dell’altro senza fargli violenza. Ebbene, in questo plesso problematico nel quale vanno ricercate un po’ le ragioni delle analogie teologiche ricorrenti nel grande pensiero politico moderno – si pensi soltanto all’onnipotenza del sovrano di Hobbes o all’infallibilità della “volontà generale” di Rousseau – e nel quale l’autonomia e la libertà del soggetto sono messe in pericolo dalla tentazione di assoggettare a sé anche ciò che non può essere assoggettato, la riflessione di Spaemann rimane, da un lato, saldamente ancorata al principio liberale dello Stato di diritto, dall’altro, a quei presupposti metafisico-religiosi che ne costituiscono a suo avviso l’indispensabile supporto, senza il quale la stessa politica rischia di diventare religione.

A differenza di tanta “teologia politica” secolarizzata, che corre sempre il rischio di cadere in forme di fanatismo, destinate a loro volta a risolversi in totalitarismo, Spaemann ritiene che non sia possibile dedurre massime politiche da princìpi teologici. La politica, tra le altre cose, ha a che fare con l’amico e il nemico, e riesce tanto più a salvaguardare il reciproco riconoscimento e il rispetto del nemico (il concetto di justus hostis), quanto più riesce a tenersi alla larga da presunte fondazioni teologiche, le quali rendono sempre troppo potente uno dei “partiti” in lotta. È proprio attraverso il carattere apolitico della teologia, che si produce secondo Spaemann un benefico effetto politico antitotalitario, un alleggerimento, come dicevo sopra, della politica, che serve a tenerla lontana sia dalle questioni “ultime” in generale, sia da qualsiasi tentazione utopistica o totalizzante, senza sminuirne la grandezza.

4 luglio 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)

stampa l'articolo