Destra e sinistra dopo la modernità
di Leonardo Allodi
Recentemente, Konrad Adam lo ha definito “un pensatore costantemente indipendente”, ma anche un “conservatore, vicino alla Chiesa, un cattolico rigoroso”. Per Jens Hacke, Robert Spaemann è un filosofo che appartiene “alla specie divenuta rara dell’intellettuale conservatore illuminato”, un “umanista cristiano”, che pur nella consapevolezza della “inattualità di molte sue idee”, ha sempre evitato di rifugiarsi nella “pura apologetica conservatrice”. L’indipendenza del pensiero è qualcosa che Robert Spaemann condivide con quel gruppo di pensatori, ad esempio Odo Marquard o Hermann Lübbe, che si sono formati alla scuola di Joachim Ritter. Alla quale un Jurgen Habermas ha potuto riconoscere uno degli sforzi più significativi di elaborare una diagnosi storica della modernità, delle sue conquiste ma anche delle sue “insufficienze”. Tale diagnosi fa concludere anche a Spaemann che la modernità nei suoi esiti problematici (l’utopismo ad esempio) ha bisogno di una “compensazion”. La quale deve iniziare da un ripensamento – alle condizioni culturali contemporanee – dell’eredità metafisica classica attraverso quella riabilitazione della filosofia pratica che in Germania ha assunto la forma di un vero e proprio neo-aristotelismo di impronta cristiana.
L’orizzonte della filosofia cristiana è più l’esito che non il punto di partenza di Robert Spaemann. Adam ricorda come da giovane “egli si fosse recato a Berlino al Congresso di fondazione della Sed (Unità socialista tedesca, di ispirazione comunista), e come alla fine – guarito dalla fede in profeti che promettevano una salvezza già nell’al di quà, se ne fosse ritornato a casa”. Negli anni Settanta e Ottanta, proprio insieme ad Odo Marquard ed Hermann Lübbe, Spaemann è pronto a confrontarsi in modo altrettanto lucido quanto critico proprio con l’oltranzismo e l’utopismo della sinistra politica fino a divenire un fondamentale punto di riferimento del cosiddetto “neo-conservatorismo” tedesco. Un “conservatorismo” che in ogni caso non ha mai cessato di essere estremamente originale, personale, libero, addirittura geloso della propria libertà di giudizio. Non a caso qualcuno lo ha provocatoriamente definito “radicale e conservatore”, in virtù, ad esempio, della determinazione con cui egli si è schierato a favore della “svolta ecologica” della cultura contemporanea. Per Spaemann, infatti, la prima crisi petrolifera ha costituito l’evento più importante “della storia spirituale dell’epoca postbellica”. Da allora le utopie degli ultimi tre secoli hanno incominciato ad infrangersi, perché è entrata in crisi l’idea centrale di ogni utopia: e cioè che sia giunta la fine del principio di realtà. L’utopia è per Spaemann il tentativo di superare fondamentalmente la normalità della conditio humana il cui esito inconsapevole è “la distruzione delle condizioni di quella normalità che si chiama vita”.
“La premessa comune dell’ideologia tecnocratica e di quella radical-emancipatoria era la crescita esponenziale illimitata e il definitivo superamento della penuria. Panegirici marxisti di una natura trasformata ed umanizzata e alla fine di una natura dell’uomo anch’essa trasformata finiscono per riflettere solo quella utopia che […] è ancorata strutturalmente alla civiltà tecnico-scientifica e cioè la trasformazione della realtà in Science Fiction. Essa rende l’uomo, nel senso originale del termine, “utopico”, “privo di luogo”, perché lo tira fuori dalla nicchia ecologica in cui si trova situato ogni vivente”. La crisi del pensiero utopico obbliga, tuttavia, anche ad un ripensamento dei tradizionali concetti di “destra” e di “sinistra”. Ripensamento che in Spaemann si pone come una ricerca sulla “ontologia” di tali categorie proprio perché egli lo inscrive all’interno di coordinate concettuali che oggi costituiscono la cifra stessa di una pluriennale riflessione che ne ha fatto uno dei più originali pensatori della cultura contemporanea. La quale appare così sintetizzabile: Spaemann si pone il problema del “rapporto adeguato con la realtà” da cui deriva l’esperienza del “bene”, del “ben vivere” e il rifiuto di fanatismo e cinismo. La realtà, sia quella umana che quella naturale, ha infatti una sua propria costituzione ontologica e teleologica.
La filosofia diventa così per lui “ingenuità istituzionalizzata” applicata soprattutto alla sfera etico-politica. Buona è l’azione politica che tratta ogni uomo come un essere che è uno scopo in sé stesso: da qui la riproposizione del diritto naturale (Das Natürliche und das Vernünftige, 1987). La sua critica alla teologia politica prende le mosse dalla tesi bonaldiana “di una società politica considerata dal punto di vista della religione”, che ha come esito involontario quella “socializzazione dell’idea di Dio” che si realizza in Comte (Der Ursprung der Soziologie aus dem Geist der Restauration, 1959).
All’affermazione del principio liberale dello Stato di diritto si affianca, in Spaemann, la consapevolezza che l’Illuminismo è condizione non sufficiente dell’autonomia: da qui il rinvio a presupposti metafisico-religiosi insieme all’affermazione del carattere apolitico della teologia. All’”errore tradizionalista” risale la fondazione funzionalistica della religione criticata poi in Luhmann (Paradigm lost: Uber die etische Reflexion der Moral, 1989). La più alta razionalità della morale politica risiede nel reciproco riconoscimento dei nemici e nella capacità di porsi fini limitati e commensurabili, laddove l’utopia esclude, invece, un calcolo responsabile dei costi (Zur Kritik der politischen Utopie, 1977). La critica della modernità non diventa rifiuto radicale di essa ma del suo anti-teleologismo (Philosophische Essay, 1983; Rousseau. Bürger ohne Vaterland, 1980; Die Frage Wozu?, 1981). La politica non può rinunciare ad un’etica della benevolenza (Glück und Wohlwollen, 1989; Personen, 1996).
Principio di conversazione e principio di autorealizzazione
Spaemann elabora una ipotesi che nello specifico tenta di spiegare rispettivamente: il fatto che a partire dal Diciottesimo secolo la coscienza politica sia stata contrassegnata essenzialmente da una dicotomia, la quale – per ragioni contingenti – si caratterizza da lungo tempo attraverso i concetti di “destra” e “sinistra”; il fatto che entrambe queste posizioni soffrano di una certa contraddizione interna, in particolare della tendenza a realizzare nella realtà politica il contrario di ciò che originariamente vogliono (per quanto riguarda il radicalismo della “destra” e della “sinistra”, si è sorpresi – osserva Spaemann – dalla loro somiglianza); il fatto infine che i concetti di “sinistra” e “destra” non riescano più ad esprimere le fondamentali alternative politiche della nostra epoca.
La sua ipotesi esplicativa ruota intorno al concetto di “inversione della teleologia”, fenomeno che per Spaemann si produce alla fine dell’epoca medievale. Con la quale si riproduce quell’antitesi “Physis-Nomos” che Platone ed Aristotele avevano superato mediante una concezione finalistica della natura, secondo la quale l’uomo è “per natura” un essere politico ed un essere che comunica. Trasformando la filosofia classica in una teoria del diritto naturale. Con il rifiuto della teleologia, la teoria politica si imbatte – dice Spaemann – in un’antinomia inesorabile.
La formula più semplice che chiarisce questa antinomia è quella suggerita da Freud fra principio di piacere e principio di realtà. In Freud, infatti, il principio di realtà coincide con quello di conservazione, per cui “la conditio humana non può mai essere felice, per il fatto che l’uomo si assoggetta sempre forzatamente, e in mancanza di meglio, alle condizioni della propria conservazione. Nel profondo della sua natura resta sempre la libido per cui egli accetterà solo forzatamente le briglie della realtà”. Con Marcuse l’idea di Marx “a ciascuno secondo i suoi bisogni” sarà reinterpretata secondo categorie freudiane. Rispetto a tale antitesi “la natura, considerata come struttura teleologica, è sempre allo stesso tempo principio di perfezionamento, principio del movimento proprio di un essere da una parte e il principio che delimita questi movimenti attraverso il fine interno di un Optimum. Questo Optimum, questa condizione di perfezione, è tanto la condizione del benessere, della felicità di un essere, quanto la condizione della sua conservazione ottimale. Principio di perfezione e principio di conservazione sono in ultima istanza la medesima cosa: il bene”.
Ora, nella contrapposizione moderna fra una “destra” e una “sinistra” si è, per così dire, incorporata una tale antitesi: la presa di posizione a favore del principio di conservazione, del principio di realtà o di ragione nel senso del “ragionevole” rispetto ad una ricerca illimitata del piacere, definisce la posizione della “destra”, dice Spaemann. La presa di posizione invece a favore della libido, del piacere, dell’immaginazione, dell’utopia è invece quella che definisce la posizione della “sinistra”. “Autoconservazione” e “autorealizzazione” sono i due punti di vista-guida della destra e della sinistra, che però tendono a condividere, dice Spaemann, l’assenza di un’idea di finalità naturale dell’uomo e della società.
Rousseau e Bonald
Già in Rousseau “l’uomo naturale non fa più valere le sue esigenze all’interno dell’ordinamento politico”, separando appunto l’uomo e il cittadino. La volontè générale in Rousseau diventa un concetto “di destra”, dice Spaemann, perché rappresenta il principio di conservazione dell’unità politica di uno Stato: “Rousseau stesso scrive che la volonté générale è stata distrutta dall’emancipazione moderna. Questa distruzione è già iniziata con il Cristianesimo, il quale è una “religione dell’uomo”, una religione naturale, e non una religione civile”. Per Spaemann il merito specifico di Bonald “è di aver compreso la connessione fra questa frattura della coscienza politica moderna e l’ambiguità del termine “natura”“. Anche se il tentativo di Bonald di riproporre un concetto teleologico di natura porterà – come mostra Spaemann nel suo ampio studio sulle origini della sociologia – soltanto ad una “teleologia invertita”. Proprio questo è il dramma del tradizionalismo conservatore. Se, infatti, il finalismo classico era un finalismo trascendente e dinamico, per cui omne agens agit propter finem (Tommaso d’Aquino, ricorda Spaemann, ha in questo senso scritto che ogni essere finito ama per natura Dio più che se stesso) la teleologia invertita trova la sua precisa formula in Spinoza: Conatus sese conservandi est essentia rerum. L’essenza dell’uomo e della società consiste nella sua autoconservazione, un principio che lo stesso Bonald farà proprio. La funzione sociale di conservazione diventa già in lui il criterio ultimo della verità metafisica e religiosa: “Attraverso questo tipo di pragmatismo de Bonald divenne il precursore di Comte e il più importante teorico della destra”.
Spaemann vede nelle vicende dell’Action francaise di Charles Maurras e dell’Affaire Dreyfus l’inveramento di questa tendenza nichilistica della destra. Charles Péguy ha avuto per lui il merito di comprendere questo nascosto nichilismo della destra moderna, che difende la conservazione di una cosa, senza poterne garantire il valore di questa. La lotta di Péguy a favore della verità nell’Affaire Dreyfus fu una lotta, dice Spaemann, “contro il nichilismo della sinistra e della destra, una lotta contro la strumentalizzazione della verità al servizio della conservazione o della distruzione dell’ordine stabilito”. La verità è uno scopo in se stesso, ricorda Spaemann, “e ogni politica non-nichilistica si deve alla fine porre al servizio di fini non politici. Per il funzionalismo antiteleologico della sinistra e della destra tuttavia una tale verità è “astratta””. Il nichilismo politico inizia, dice Spaemann, laddove destra e sinistra si intendono come visioni del mondo, come teorie totali del mondo e dello Stato: “Hegel ha mostrato che ogni posizione astratta diventa dialettica quando si comprende come un tutto: essa si rovescia nel suo opposto. Il marxismo mostra questo per la nostra epoca. Esso è la sinistra per eccellenza: uomo contro cittadino, homme contro citoyen. Partendo dalla negazione della teleologia hegeliana, Marx expressis verbis si collega al dualismo di Rousseau. La sovrastruttura politica non è più il perfezionamento della natura umana, ma l’autoestraneazione di questa”.
Il progressivo dominio della natura, la “lotta contro la natura”, diventa così l’idea-guida della società europea degli ultimi tre secoli che si sviluppa sul terreno di un antifinalismo in cui destra e sinistra coincidono in un comune esito tecnocratico. L’idea di un dominio della natura progressivo ed illimitato era l’idea dell’Europa borghese e fu portata da Marx al suo massimo grado. Ma – osserva Spaemann – è proprio quest’idea che oggi tocca i suoi limiti. “La crisi ecologica è l’evento epocale nella coscienza presente. L’uomo deve di nuovo comprendersi – questo abbiamo scoperto – come parte della natura e dobbiamo comprendere la natura come struttura finalistica […]. L’idea del dominio progressivo della natura in Marx viene affiancata a quell’altra idea, che sostituisce l’idea di perfezione come scopo, e cioè l’idea di società del superfluo. E’ evidente che ogni repressione può svanire quando vi è il superfluo di tutti i beni. Ma anche quest’idea è morta. Noi oggi sappiamo che le fonti materiali dell’uomo sono limitate. Wolfgang Harich per tale ragione appoggia il comunismo con l’argomento che questo può meglio gestire la scarsità rispetto al capitalismo essenzialmente espansivo. La gestione della scarsità è il compito tradizionale della destra. Se Harich dovesse avere ragione, per quanto riguarda il socialismo, allora egli senza dubbio con una tale raccomandazione cesserebbe di essere un uomo della sinistra”. Di fronte ai problemi dell’ecologia le categorie di destra e di sinistra diventano obsolete e mostrano tutti i loro limiti: dal momento che la questione decisiva è se il problema ecologico sia compreso “come problema teleologico o solo come nuovo problema tecnologico. Gli uomini della sinistra e della destra sono soprattutto tecnocrati. Il grande compito di tenere a freno i bisogni umani così come di organizzare la produzione e la distribuzione, è per essi un problema di organizzazione e di polizia”.
Comunitarismo e liberalismo
Anche rispetto ad un tema come quello del rapporto fra comunitarismo e liberalismo, le tradizionali categorie di destra e di sinistra mostrano tutti i loro limiti, non riescono cioè ad afferrare le reali alternative della nostra vita pubblica. Nel campo comunitarista si trovano insieme contemporaneamente destra e sinistra, e la stessa cosa avviene per il campo liberale e individualistico: “E’ significativo osservare tuttavia che anche qui si tratti di disjecta membra dell’idea classica di diritto naturale. E certamente in modo che questa volta non più i momenti dell’autorealizzazione e della conservazione vengono posti in conflitto l’uno con l’altro, ma le due definizioni aristoteliche dell’uomo come essere razionale e come essere politico. O anche i due momenti del bene comune particolare e dell’universalismo di un
giusto per natura”.
Aristotele è consapevole che l’uomo appartiene ad una comunità linguistica e che noi apprendiamo soltanto in una comunità di altri esseri viventi razionali, dunque che appartenga alla natura universale dell’uomo proprio il fatto di avere la sua realtà in una determinata comunità storica. Che dunque il “bene comune” non si lasci riformulare nel bene individuale di tutti i membri di una società: “Una festa comune sarebbe certamente senza senso se i suoi partecipanti non provassero per essa nessuna gioia. Tuttavia questa gioia è essenzialmente la gioia per una festa comune. Per essa sono necessari i preparativi, fatiche e compiti. E’ la festa che riesce o non riesce. In un certo senso gli individui si trovano al servizio della festa, una cosa che diventa particolarmente evidente nei riti sacri. Essa si distrugge quando la si trasforma sotto l’aspetto del tornaconto individuale dei singoli partecipanti. E quando un popolo festeggia il sabato o la domenica con un determinato stile, allora viene realizzato un bene pubblico, che non si lascia ricondurre a funzioni di soddisfazione private”.
Il liberalismo nasce a sua volta dall’esigenza universale di un’autodeterminazione e autorealizzazione riducendo tutti i beni pubblici a puri mezzi. Il comunitarismo insiste sulla particolarità delle comunità storiche e sull’impronta corrispondente di un bonum commune che è loro propria, (ma) senza assoggettare questa impronta ad una condizione universalistica che si trova nella natura dell’uomo. La sfida che oggi ha davanti a sé la politica è allora quella di essere in pari tempo “liberale” e “comunitaria”. Il che significa pensare ad un comunitarismo che non diventi preda del relativismo culturale ed un liberalismo che al posto della sua astrattezza comprenda come il bene comune è sempre il bene di una concreta comunità storica particolare. Dal momento che “in che cosa consista il bene di un bene comune” non è mai stabilito a piacimento da una qualsivoglia “etica del discorso” ma appare inscritto nella natura stessa dell’uomo.
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luglio 2003
(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)
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